La comunicazione fra agenti e detentuti

 

Dino Duchini

29/10/2002  

Cercare la comunicazione, il confronto, misurare le differenze e individuare i punti in comune tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria è sicuramente molto ambizioso.

Le implicazioni e i risvolti di un progetto come questo sono tanti, ma credo valga, sopra ogni altra cosa, lo scambio e il movimento d'idee che si attiverebbero fra persone appartenenti a gruppi che, reciprocamente, si percepiscono da sempre in netta contrapposizione.

Sarebbe sicuramente una rivoluzione sociale; non una di quelle rivoluzioni in cui chi prima era martello dopo diventa incudine, bensì uno di quei processi che nella storia hanno avuto il merito di portare un poco d'acqua al mare della conoscenza.

Questa rivoluzione non consisterebbe nel fare diventare tutti poliziotti o tutti criminali, non distruggerebbe nulla; semplicemente permetterebbe di osservare molte "verità", date oggi come oggettivamente certe, da punti di vista diametralmente opposti.

Magari molte delle opinioni che le persone hanno le une delle altre saranno confermate, ma sarebbe protervo mantenere nello stesso sacco idee storicamente fondate e stereotipi, senza nemmeno provare a salvare la bontà delle opinioni maturate nel tempo dai preconcetti o dalle idee ormai obsolete. In fondo, le idee che vale la pena mantenere, nel confronto, ci guadagnano e si rafforzano.

Il senso principale dell'iniziativa sarebbe quello di una acquisizione di dati che consentirebbero alla società intera, tra cui detenuti e agenti penitenziari, di avviare un processo evolutivo positivo verso la direzione indicata dalla nostra Costituzione.

Nell'ultima riunione, il dott. Aparo ci ha comunicato che, da parte di molti agenti e della stessa direzione, ci sono delle perplessità sull'opportunità di attuare questa esperienza essenzialmente per la seguente motivazione: "…mettere gli agenti nelle condizioni di rendersi conto che il loro lavoro li porta a rinchiudere dentro le celle non solo dei criminali, ma anche degli uomini potrebbe comportare una confusione di ruoli…"

Non so se le parole suddette riassumano compiutamente le perplessità espresse, ma se così fosse non sarei d'accordo.

Sono conscio che alcuni agenti della "Polizia Penitenziaria" considerano noi detenuti alla stessa stregua dei "CAMOSCI" (vedi molte scritte sui muri in matricola, se ancora ci sono); allo stesso modo, sono conscio che ci sono alcuni miei compagni detenuti che considerano gli agenti di Polizia Penitenziaria dei vigliacchi che si fanno forza solo della loro divisa.

Ritengo che entrambi i pensieri, se così si possono definire, siano sbagliati, oltre che deleteri. Ma se, per quanto riguarda i detenuti, si può immaginare che alla base di tanta rigidità mentale ci sia la medesima ignoranza che ha contribuito a farne dei fuorilegge, per quanto riguarda gli agenti, la resistenza al confronto mi suona meno comprensibile, essendo loro delegati dalla società alla nostra rieducazione. Per quanti siano, infatti, gli operatori penitenziari che si occupano del detenuto, nessuno quanto l'agente vive tutti i giorni a suo stretto contatto.

Proprio per tale motivo, i detenuti, o quantomeno, i detenuti che si muovono effettivamente in un'ottica di revisione dei loro atteggiamenti e della loro condotta ritengono che gli agenti dovrebbero avere i mezzi culturali e l'apertura mentale necessaria per esporsi al confronto, per collaborare allo studio, per promuovere l'evoluzione della relazione e non limitarsi ad essere meri guardiani dei diversi.

Ritengo che entrambi i gruppi, nonostante caratterizzati da punti di vista diametralmente opposti, debbano essere messi nella condizione di potersi riconoscere e di distinguere le opinioni che gli uni hanno degli altri dagli stereotipi con cui gli uni e gli altri si tengono distanti.

So che questa può sembrare un'utopia, ma tutto il lavoro che oggi è previsto e disposto dall'Ordinamento Penitenziario, a cosa è mirato se non a mettere nelle condizioni i devianti di comprendere il significato letterale di alcuni concetti tipo: Stato, Società, Legge? E cosa indicano questi termini se non "collettività organizzata e capace di identificare e costruire leggi e convenzioni che hanno come fine il bene collettivo e il riconoscimento delle differenze dentro i confini delle regole comuni"?

Mi sembra che i tre termini sopra riferiti possano costituire per agenti e detenuti dei punti di riferimento che aiutano ad orientarsi e non a perdere il senso dei rispettivi ruoli in questo luogo di pena.

Riterrei che, nei territori indicati da questi concetti, potremmo tentare di dialogare sui temi dell'imperfezione, dell'imitazione, del male, della pedofilia, ecc. Siamo tutti consci di non dovere cercare verità assolute, ma credo che, come nella teoria economica del moltiplicatore del reddito, questi incontri, se li faremo, possano corrispondere a dei moltiplicatori di cultura che, sfruttando meglio le risorse esistenti, consentirebbero una maggiore remunerazione sociale.

Mi rendo conto che non basta volere o tentare le cose perché tutto proceda per il meglio; so bene che si tratterebbe di un esperimento e che non v'è una garanzia di successo, ma a suo tempo anche la legge Gozzini così era considerata invece poi…