Dialogo fra un carcerato e un carceriere

Livia Nascimben

20-12-2003  

Un lavoro che impone, per vivere, una violenza quotidiana verso se stessi e chi si ha di fronte. Il tuo mandato è di mantenere l’ordine, di fare la guardia su chi ha abusato del proprio potere sull’altro, di tenere alla catena la rabbia, la violenza, la distruttività perché stiano quiete e non si trasformino in atti lesivi.

Con imbarazzo chiudi in cella esseri umani come te e, inevitabilmente, senti in catene anche la tua umanità. Un impiego che, per essere ben svolto, richiede dedizione e senso del dovere; un compito che ti costringe a spendere te stesso affinché la pena, stabilita dallo Stato, segua il suo corso con regole, ordine, disciplina; un servizio duro per cui devi mantenere il controllo, indossare la divisa e farle onore, lo svolgi contro quella parte di te stesso che soffre, nella consapevolezza che dietro le sbarre tieni chiusa anche la tua creatività.

Per lavoro, non devi produrre pensieri, non devi inventare, ma vigilare e, all’occorrenza, interrompere l’azione del detenuto. E allora con rabbia chiudi la cella, ti accanisci contro chi, in fondo, rappresenta il tuo desiderio di libertà: il detenuto, la libertà, può desiderarla; tu, per consolarti, pensi che stai proteggendo la libertà degli altri che sono stati offesi, ma tieni al laccio quella di chi hai davanti; e come lui provi rabbia, inchiodato al tuo ruolo, con pochi margini di movimento dentro la divisa.

Con le chiavi puoi dare e togliere aria per respirare, per nutrire i pensieri, per mantenere i muscoli scattanti; ma le chiavi sono anche la tua prigionia, l’impossibilità ad essere te stesso, coi tuoi sentimenti.

Un mestiere difficile e faticoso quello del carceriere, di grande responsabilità. Una professione di confine, moralmente impegnativa nei confronti di te stesso e della società.

Ieri, dalla festa di Natale del reparto La Nave, sono tornata a casa con l’amarezza di chi, in un corpo costretto all’immobilità e al controllo, rimane a distanza ad osservare gli altri ballare.

Forse sarebbe bastato spostare lo sguardo per sentirsi meno severi e ricordare che, accanto alla rabbia e alla propria imperfezione, vive il desiderio di mettersi in mostra e sperimentarsi; forse sarebbe bastato accettare il rischio di togliere per un attimo la divisa, di apparire goffi nel fare quattro salti a ritmo di musica, di allentare la presa e scoprire quanto carceriere e carcerato siano entrambi, molto più che in passato, vicini al timone.

Agenti e detenuti non sono due entità contrapposte per legge. La legge prevede il recupero del condannato; prevede che l’agente, rappresentante dell’Istituzione, sia al servizio delle componenti emancipative del detenuto; prevede che le parti contrapposte collaborino alla costruzione di un percorso che arricchisca la mente e la società. La legge non può volere una distanza per sempre; detenuti e agenti dovrebbero avere la posizione di due persone che, inizialmente contrapposte, si incontrano e cercano la loro matrice comune. Se la mente si organizza ratificando il muro di confine, di qua e di là dalla barriera, il desiderio di vivere e di chiamarsi cade su se stesso.

Un mestiere difficile e faticoso quello del carceriere: occorre coraggio per rompere gli schemi di cui ci si è serviti per eseguire il proprio lavoro, occorre fiducia in se stessi e negli altri per andare oltre quegli schemi che con gli anni sono diventati opprimenti, occorre impegno per affrontare insieme un ballo, un discorso, una cena, un percorso verso una meta.

Io, ieri, ho avuto paura di andare oltre la cena e qualche chiacchiera. Oggi, voglio coltivare l’immagine di un agente e di un detenuto che portano insieme lo spumante ai tavoli per il brindisi.