Achille, mio padre e la rabbia

Nuccia Pessina

 

06-06-2012

Sentire Giulia parlare di suo padre ha evocato prepotente dentro di me l'immagine del mio di padre. Anche da lui ricevere complimenti era una cosa rara, i pochi che arrivavano erano obliqui. Sempre dirette e chiare le critiche, invece.

Sul campo da tennis il diritto non era colpito col movimento giusto; sul banco dei compiti il contenuto della lezione era espresso con qualche incertezza; l'errore in un compito dove pure avevo preso un voto alto non ci sarebbe stato se l'impegno fosse stato maggiore. E aveva pure ragione.

I suoi appunti non derivavano da un deficit di amore, era il suo modo di essere attento, faceva parte della sua visione della realtà. L'ho capito bene dopo, quando ho scoperto quanto avevamo in comune, nonostante le molte differenze di genere e di carattere. Ma evidentemente l'avevo capito anche da piccola con quella che credo si chiami intelligenza emotiva.

Anch'io vedo la realtà con gli stessi occhi impietosi. Per quanto edulcorato sia il quadro, idillica la situazione, armoniosi i rapporti io colgo comunque le criticità. L'occhio impietoso, però, non è mai malevolo e non mi impedisce di cogliere e di apprezzare il positivo, anche se forse non lo sottolineo a sufficienza. Poi ci ha pensato il mestiere soprattutto, ma forse di più la vita, a insegnarmi ad elogiare, a gratificare quando e se possibile. Perché farlo fa bene, a tutti.

Ma c'è stata una volta in cui mio padre ha suscitato dentro di me una rabbia dolorosa il cui ricordo non mi ha mai lasciato. Ero già iscritta al liceo classico “Parini” di Milano ed ero molto contenta. Mi piaceva imparare, la mia mente era una spugna e assorbiva con facilità ogni contenuto, brillando in quelli che sentivo affini.

Ma mio padre ogni giorno ritornava alla carica, esprimendo i suoi dubbi sull'opportunità che un'appartenente a una classe sociale modesta frequentasse un liceo che presupponeva poi l'Università. Ma non era troppo? E se fosse successo qualcosa per cui non avrebbe potuto mantenermi, non sarebbe stato tempo buttato via? Con un diploma invece il mondo del lavoro sarebbe stato più raggiungibile e niente mi avrebbe impedito di proseguire gli studi se ce ne fosse stato il desiderio e l'opportunità di lì a cinque anni.

Il suo pessimismo e le sue radici contadine emergevano suo malgrado, emergeva l'insicurezza che i ricordi di un bambino mandato al lavoro a dieci anni non erano riusciti a cancellare. Esasperata da tutta quell'insicurezza ma anche dalla incapacità di mio padre di pronunciare un rifiuto netto, ho deciso io. Sono andata in camera, nell'angolo tra l'armadio e il letto e ho preso a pugni il muro, con violenza, ripetutamente. Francamente non so come sia riuscita a non farmi male. E poi ho comunicato la mia intenzione di ritirare la domanda di iscrizione al liceo. Avevo compreso che non potevo frequentare il liceo classico, sapendo quanta tensione questa decisione avrebbe generato in mio padre e, di riflesso, in famiglia.

Poi ho frequentato un istituto tecnico. Ho continuato ad avere ottimi risultati scolastici, mi sono comunque iscritta all'università a lettere moderne, seguendo quelli che erano i miei interessi e sono stata felice, anche se indubbiamente diversa da come sarei diventata seguendo l'altra strada.

La mia rabbia, come quella di Achille, era giustificata, ma evidentemente non ho ritenuto che il motivo che l'aveva scatenata contasse di più dell'angoscia che avrebbe inflitto a mio padre. O forse, e a questa consapevolezza sono arrivata molto più avanti nella vita, io non tollero emotivamente il conflitto.