Le monete del giurista

Alex Ingrassia

1-12-2007  

Tanto più l’uomo si è interrogato sulla libertà tanto più il giurista ha dovuto fare i conti con la pena: se un fine pensatore come Kant poteva permettersi di ritenere Pena Giusta infliggere un male in risposta al male commesso, il giurista, dal Settecento in poi, non ha più potuto coltivare queste certezze. Tanto più cresce l’attenzione per l’uomo, tanto più il giurista è imbarazzato!

La tutela della libertà è un principio riconosciuto e condiviso, ma è la prima moneta del giurista di fronte al reato: posso comminare una pena privativa della libertà a chi ha violato l’altrui libertà? Una faccia ha impressa la libertà della vittima, l’altra quella del reo.

Un paradosso: come trovare una risposta razionalmente accettabile alla punizione del sequestro di persona con il carcere? Il giurista, che ama Beccaria e non può tornare a Kant, non può rinunciare alla sanzione, ma non può  nemmeno accettare di ripristinare l’equilibrio violato comportandosi come chi è punito per aver commesso un fatto contro la legge. Un primo approdo può essere la rinuncia alla pretesa di identificare la Pena Giusta e interrogarsi, più sommessamente, sulla  pena utile.

Il destino del giurista, però, è, da secoli, quello di non trovare né definizioni né pace: ammessa la pena utile, quale dev’essere l’utilità? Utile per chi? Ecco tra le mani una nuova moneta: utile per il reo o per la società?

Una faccia ha impressa la necessità di isolare chi non rispetta la libertà altrui, l’altra la necessità di far comprendere l’importanza della libertà e della persona a chi ha violato persone e libertà.

Il paradosso è che il giurista è chiamato a conciliare la pena detentiva prescritta dalla legge, che priva il reo della libertà e lo separa dalle persone a lui care, con l’esigenza  che quest’ultimo ritrovi il rispetto per la libertà e per le persone.

Ed ecco che il giurista trova la sua seconda ancora di salvezza: la pena utile è quella che punta alla rieducazione del reo, a renderlo di nuovo parte della società, a ridargli l’identità, a permettergli di scoprire che la libertà sta nella convivenza e non nella sopraffazione.

Per un attimo anche la segregazione sembra trovare una giustificazione. Ma è solo un attimo: questo è l’istante da fissare, perché da qui in poi la barca del giurista è in preda alla tempesta e non ci sono più uscite di sicurezza.

Le monete da decifrare non si contano più. Una di queste ha impressa la quantificazione della pena: una faccia impone un calcolo oggettivo della gravità del fatto commesso, l’altra richiede che la pena perduri per il tempo necessario per svolgere appieno la sua funzione di responsabilizzare e reinserire. Un’altra moneta è quella che riguarda la libertà del reo: una faccia impone di utilizzare tutti gli strumenti possibili per educare il reo alla libertà, l’altra la necessità di non imporre nulla, perché di certo la libertà non si impara nella costrizione.

L’ultima moneta lascia il giurista esausto, senza risposte e senza pace: ha impressa una frase “In carcere perdiamo il filo della vita… uscire non è la libertà… io ho paura della libertà, non ho paura degli altri, ma di me stesso. E questa frase è impressa su entrambe le facce.