La missiva

Enzo Martino

08-09-2006  

Era una mattina d’estate, una calda giornata estiva. Il postino non aveva avuto bisogno di bussare anche perché la porta era sempre aperta: non c’era nulla da rubare. Il postino consegna una busta a mia madre; lei, analfabeta, mi chiama per leggerle la missiva.

Era la lettera di un avvocato che c’invitava a sloggiare dalla casa colonica che abitavamo da decenni e dalla terra che coltivavamo per sostentarci (i miei genitori erano stati assunti con mansione di coloni già molti anni prima che io nascessi). La motivazione era che i proprietari del terreno e della casa avevano intenzione di vendere la proprietà e noi eravamo ormai d’intralcio. Mio padre e mia madre avevano coltivato quella terra per molti anni, senza mai un riposo, senza una festa. Niente di niente, solo lavoro.

In questo lavoro anche noi ragazzini davamo una mano. Per noi ragazzi lavorare la terra significava non andare a giocare con i nostri compagni, ma questa è un’altra storia. Quella lettera creò scompiglio all’interno della famiglia anche perché per mia madre la lettera di un avvocato era qualcosa di molto grave; già si sentiva che le avrebbero portato via tutto, non aveva fiducia negli avvocati. Quella mancanza di fiducia derivava dal fatto che lei non conosceva la legge e neanche avvocati che ci potessero aiutare: gli avvocati significavano anche spese che noi non potevamo sostenere in nessun modo. La consapevolezza di non avere disponibilità economiche faceva sì che il senso d’ingiustizia in casa nostra imperversasse.

Io avevo circa tredici anni. Dai discorsi dei nostri genitori io e i miei fratelli sentivamo che si era assolutamente certi che “ci avrebbero buttato fuori con una mano davanti e una mano di dietro”. In me si fece strada il desiderio di informarmi di possibili avvocati che non costassero molto; dopo vari tentativi mi dichiarai sconfitto. Un mio parente che era iscritto ad un partito ci fece sapere che era possibile avere l’aiuto che in quel momento ci serviva. Ci trovò un avvocato, un uomo distinto. L’avvocato capì subito che tipo di persone eravamo e si comportò da vero avvocato, tante chiacchiere e diversi appuntamenti che non portarono a nulla, anche perché, come lui stesso diceva, egli intendeva rinunciare al suo onorario.

Dopo anni di andirivieni dal tribunale ed estenuanti udienze, raggiungemmo un accordo con il proprietario del terreno, che alla fine si rese conto che non l’avrebbe spuntata con la testardaggine di mia madre, la quale di legge non capiva nulla ma combatteva senza sosta.

A dire il vero, noi fratelli eravamo stanchi di quella storia infinita, e sollecitavamo come potevamo mia madre e mio padre a chiuderla una volta per tutte. Ricordo che mia madre non credeva a nulla di quello che il nostro avvocato ci consigliava, lei preferiva consultarsi con i vecchi contadini che avevano avuto gli stessi nostri problemi. Dava ascolto più ad una persona analfabeta che a un uomo che aveva studiato legge, pensava che la legge non fosse fatta per i poveri, ma per quelli che la legge la conoscono e la sfruttano a loro favore.

Ricordo che una mattina ci ritrovammo in una stanza del Tribunale. Seduti attorno ad un lungo tavolo in noce (non avevo mai visto un tavolo così bello e maestoso) c’erano l’avvocato del proprietario e lo stesso proprietario, che alla fine vinse in parte la sua battaglia. Credo che se avessimo avuto un buon avvocato qualcosa in più l’avremmo ottenuto, ma oramai noi figli eravamo stanchi di quella situazione che ritenevamo senza uscita, e in più non ci permetteva di fare delle migliorie alla casa, e credetemi quella casa ne aveva veramente bisogno!

In ogni caso, la giustizia aveva fatto il suo corso a metà, e quella vicenda mi allontanò dalla legge, non avevo più fiducia, credevo ai vecchi contadini e ai loro consigli. A tredici anni mi ritrovai con una responsabilità che oggi comprendo non mi toccava; mi dispiace solo che tutta quella vicenda mi ha dato un’idea distorta della legge.