La volta che non ce l'ho fatta

Dino Duchini

24-01-2005  

Correva l’anno 1976, avevo 16 anni e quell’estate fu la fine di quel poco di giovinezza che ho avuto, oltre che l’inizio di un inferno che per taluni aspetti ancora mi appartiene…

Ero un ragazzotto benestante, di mio padre già sapete, a quell’epoca c’era stata la lite descritta, e lui morirà l’estate del 1977. Vivevo con mia madre a Corsico. Lei è stata sempre una grande lavoratrice ed è riuscita a mettere insieme un certo benessere.

Io dopo il diploma delle medie mi ero iscritto all’I.T.I.S. di Abbiategrasso, mi piaceva studiare, ma facevo l’indipendente. Il primo anno delle superiori fui bocciato; erano gli anni della lotta dura, militavo in “Lotta Continua”, venivo dalla F.G.C.I., a cui mi ero iscritto già dall’epoca delle scuole medie.

I miei sentimenti erano autentici, ma la mia preparazione politica era figlia di luoghi comuni ed atteggiamenti precostituiti, ancora peggiore era quella culturale! In ogni caso, mi imposi subito in quello che meglio mi riusciva e in poco tempo fui il responsabile del servizio d’ordine, nelle varie manifestazioni interne ed esterne alla scuola.

A casa avevo molta libertà, nel senso che potevo gestirmi la mia vita come meglio mi pareva. Quel primo anno alle superiori fu un crescendo di idiozie di gioventù, che quella libertà mi permetteva di tenere nascoste; credo di avere bigiato a scuola almeno quattro mesi; praticamente, andavo solo quando c’era  da fare casino.

Purtroppo anche fuori dalla scuola l’ambiente che mi piaceva frequentare era di quelli particolarmente eccitanti, insomma mi piacevano gli ambienti degli emarginati, anche se non erano impegnati politicamente, e tra questi anche quelli malavitosi.

Sono stato sempre fiero di questa mia scelta, anche se non ho mai capito le ragioni di questo mio snobismo all’incontrario; voglio dire che io ero nella posizione di potere scegliere, ma di fatto guardavo indietro invece che avanti, mi sentivo in imbarazzo a godere dei vantaggi che le possibilità di mia madre mi avrebbero consentito. Oggi questa rivendicazione ha perso a miei occhi la “nobiltà” che in passato le conferivo.

Ricordo che non fu facile farmi accettare in quegli ambienti malavitosi c’erano, ma tanto feci e tanto volli che mi integrai pienamente… e poi allora ero giovanissimo… imparavo alla svelta!

Mi pareva di essere padrone del mio destino, quella grande libertà individuale che centuplicava il piacere delle mie giornate, mai un’esitazione, mai un dubbio, ogni problematica si scioglieva di fronte alla mia determinazione… eppure ero triste e il mio animo era insicuro.

Avevo la sensazione di fare un’infinita corsa ad ostacoli, ostacoli che forse ero io stesso a creare, che quando riuscivo a superare si dissolveva, ma la sensazione era quella di rimanere sempre a mani vuote: una gigantesca “coazione a ripetere”.

Quella grande libertà individuale, d’altra parte, era “normale”, oserei dire fisiologica… mia madre lavorava molto, io la rispettavo assai e non volevo pesarle più del necessario. Mi costava molto questa prassi, ero molto geloso di lei, ma ritenevo che quello fosse il miglior modo per dimostrarle il mio amore. Anche se molte delle esperienze di libertà di mia madre le ho vissute con lei, invitato da lei a farlo, il suo era un mondo che mi attirava ed allo stesso tempo mi confondeva.

Ho vissuto molto in quegli anni con persone più adulte di me: confronti, divertimenti e conflitti in cui mi sforzavo di essere più grande della mia età. Credo che quelle persone avessero contezza di questo, credo anche che pensassero che molti dei loro messaggi fossero indecifrabili per me, ma si sbagliavano… non si accorgevano della mia sensibilità e dell’attenzione che mettevo nel cercare di comprendere il mondo che mi circondava. Mi sembrava di vedere il mondo della “tradizione”, contrapposto ad un altro mondo, quello delle “libertà”, che pareva più giusto, più ricco di opportunità culturali, economiche e sociali.

L’anno scolastico dopo a quello in cui fui bocciato, 1975/76, tornai in quella stessa scuola, stessa sezione e fui promosso con dei buoni voti. Mi ero un poco responsabilizzato, anche se credo soprattutto per l’umiliazione di essere stato bocciato.

Si concluse l’anno scolastico e cominciò quella tremenda estate, il buon risultato a scuola, ero in una forma smagliante nei miei sedici anni… già formato fisicamente, forte e robusto. Volli andare a lavorare per comprarmi una moto, non volevo farmela regalare da mia madre. Avevo messo gli occhi sull’ultimo modello dell’  “Harley Davidson 250”, costava un milione e trecentocinquanta mila lire; dovevo, per poterla avere, prendere anche il patentino “A”, e così feci. Fui promosso a scuola guida, diedi un anticipo con il primo stipendio della mia vita, lavoravo al “Caffè Haiti”, un bar in Corso Vittorio Emanuele a Milano, e per la rimanenza del costo della moto presi l’impegno di pagare delle rate mensili. Il fatto che non avrei potuto guidarla, visto che era necessario il requisito della maggiore età, non mi scomponeva neanche un poco. Fui fermato molte volte, ma me la cavai sempre.

Di giorno lavoravo, la sera era baldoria con la mia compagnia di amici trasgressivi, la droga cominciava a prendere piede allora, ma noi facevamo più che altro uso di alcool, qualche piccola esperienza di hascish, ma neanche tanto. Qualche furto a cui partecipavo per non sentirmi da meno, molte risse, qualche coltellata; abbandonai le idee politiche scegliendo gli amici che disdegnavano ogni impegno politico, ogni tanto uscivo con la compagnia di mia madre, ma sempre di meno.

Il rapporto con mia madre si era raffreddato. L’amavo, ma ero deluso, in quanto ritenevo non fosse stata sincera su un certo argomento, in sostanza mi ero chiuso nei suoi confronti, insomma il nostro rapporto alla pari non godeva più del sincero e pieno scambio delle nostre opinioni.

Arrivò agosto e con esso le ferie, furono le mie prime ferie da solo, con la nostra compagnia decidemmo di andare tutti a Termini Imerese, in provincia di Palermo, nella casa di un nostro amico, fu una bella e trasgressiva esperienza… e per la prima volta fui arrestato! Per la prima volta, anche, mi capitò di lottare, oltre che contro nemici comuni esterni, con dissidi all’interno del nostro gruppo, manco a dirlo causati da gelosie ed invidie.

Al ritorno a Milano lavorai per altri quindici giorni, avevo finito di pagare la moto e mi preparavo al rientro a scuola. La vita nella nostra compagnia era molto tesa, c’erano liti continue, e proprio in quel periodo vi fu un salto di qualità nelle nostre trasgressioni; alcuni di noi cominciarono a dedicarsi alle rapine, quelle serie… io non condividevo, credo che la mia misura fosse giunta.

Non volevo, però, lasciare. Ero troppo legato con alcuni amici, in particolare con un mio coetaneo con cui dividevo tutto. Ogni cosa tra noi era magica, tutto ciò che facevamo insieme andava bene, lui era molto in gamba, ed io facevo di tutto per stargli all’altezza.

Purtroppo lui non la pensava come me, aveva convinzioni diverse, che inevitabilmente convergevano sulle posizioni di chi avrebbe tratto vantaggi pratici, oltre che narcisistici, dalla rottura della nostra amicizia. Eravamo ragazzi, ma qualcuno tra noi lo era un poco di meno, nel senso che sapeva bene come attuare il “divide et impera” per raggiungere i suoi obiettivi. Difesi la mia amicizia contro ogni intimidazione, ma ogni giorno ero sempre più un oggetto estraneo al contesto, fino a quando un episodio fu strumentalizzato ad arte: dal niente venne attribuita a me la colpa della scoperta di un segreto di pulcinella...

Era un fatto molto grave per noi: in seguito ad una rapina, due nostri amici erano stati arrestati, una rapina che era un segreto quasi per nessuno, confidenti dei carabinieri compresi. E infatti questi due nostri amici furono arrestati dopo solo due giorni.

Io fui chiamato dai Carabinieri di Corsico e il maresciallo di quell’epoca cominciò a farmi delle domande su quella rapina. Gli consentii molto poco, indignato per essere stato convocato con una scusa, nonostante i miei sedici anni, mi alzai dalla sedia e dissi al maresciallo che non aveva il diritto di farmi delle domande. Gli chiesi se voleva arrestarmi e, al suo no, me ne andai gridandogli che per il futuro avrebbe dovuto venirmi a prendere a casa se voleva interrogarmi.

Via dalla caserma feci quello che ritenevo “giusto”, cioè informare chi aveva interesse a sapere quello che mi era accaduto. La cosa aveva un senso: se era vero che io non avevo fatto quella rapina, era però vero che sapevo chi l’aveva fatta, quindi qualcuno ai carabinieri qualcosa doveva avere detto, se non altro che io ero al corrente.

Pochi giorni dopo vi fu l’arresto di questi due nostri amici e quella sera stessa mi venne rubata la moto davanti al bar, mentre stavo giocando a carte. Quando me ne accorsi diedi fuori di matto, picchiai due che erano lì davanti, schierati dalla parte opposta alla mia, non potevano non sapere.

Non mi davo pace, questo affronto non mi andava giù, feci sapere che chiunque fosse stato avrebbe pagato caramente. In quel momento riconducevo l’accaduto ai dissidi interni alla nostra compagnia… non immaginavo neanche lontanamente dove fossero arrivati gli sviluppi di quei dissidi. Non riuscivo a capire, ero troppo in buona fede per individuare la vera causa di questo affronto che stavo subendo, tornai a casa, ma ero fuori di me e non per il valore della moto.

Cercai per due giorni, ma non trovai nulla, non avevo detto nulla a casa di quanto stava accadendo, avevo delle intenzioni molto brutte. La terza sera stavo cenando quando arrivò una telefonata, era uno dei pochi dalla mia parte, mi disse che la moto era lì davanti al bar, ma con preoccupazione aggiunse che l’aveva proprio lui: il mio fraterno amico.

Mi specificò che la sua preoccupazione derivava dal fatto che gli pareva un atto simbolico contro di me, una presa di distanza da me; mi sentii crollare il mondo addosso… il sangue si era ghiacciato, e subito realizzai che quella notte qualcuno sarebbe morto… almeno la mia determinazione questo voleva.

Gli dissi di non dire niente a nessuno della sua telefonata, misi giù la cornetta, andai di là in cucina, elusi le domande di mia madre e del suo uomo, mangiucchiai ancora qualcosa, poi andai in camera mia, presi il mio coltello a scatto, me lo infilai negli slip, mi misi il giubbotto di pelle, salutai i miei e uscii.

Da casa mia al bar c’erano circa dieci minuti di strada a piedi, passando per la campagna, quel percorso sembrava non finire più, erano circa le 21.00 di venerdì 25 Settembre 1976. La temperatura ancora tiepida, le tenebre sul viottolo di campagna mi avevano inghiottito, mi sentivo ansimare e le mani mi tremavano, sentivo tutte le mie emozioni, sudavo… mi sembrava di bruciare dentro di me, il mio cuore batteva come uno stantuffo ed il mio cervello era stretto nella morsa della delusione e della rabbia. Avvicinandomi alla meta sentii aumentare il tremore a gambe e braccia, il mio cervello non faceva che chiedersi perché e i miei sentimenti soffocavano il respiro, di lì a pochi minuti avrei messo in atto una sfida mortale con la persona a cui volevo più bene al mondo, dopo mia madre.

Non temevo le conseguenze di quanto mi stavo apprestando a fare, era “giusto” che io reagissi così, non c’era un’altra via, la coerenza con gli “ideali” in cui credevo mi lasciava senza scelta. Ero convinto che il mio agire fosse corretto,  anche se le conseguenze possibili avrebbero potuto essere molto gravi. In ogni caso, nulla sarebbe cambiato, sia se avessi vinto sia se avessi perso… fratricida o cadavere, cosa cambia?

Questa domanda mi rendeva le gambe di piombo; in ogni caso tutto il “mio mondo” sarebbe finito. Non so se fu questo, non so se fu l’intenso amore che avevo avuto, ed evidentemente ancora avevo nei confronti di mio fratello, neanche so se fu “vigliaccheria”, ma non riuscivo a farmene una ragione, non c’era più alcuna certezza, tutto era diventato insicuro. Eppure tutto sembrava così evidente. Decisi che prima di passare alle vie di fatto avrei cercato di parlargli per capire. Questa decisione mi calmò un po’, riuscivo a pensare più lucidamente, nel mio cuore vi era la speranza di un equivoco.

Arrivai nella via del bar, da lontano vidi la mia moto posteggiata lì davanti, lui era vicino alla macchina di un nostro amico, mi vide e vi salì, se ne stava andando… io li rincorsi, gli dissi che dovevamo parlare, lui mi rispose che sarebbe tornato subito, ed andarono via.

Entrai nel bar… non diedi confidenza a nessuno, bevvi un caffé, uscii a controllare la moto, ed un mio amico mi si avvicinò, mi disse di prenderla e di andare via, lo sfidai con il mio sguardo e senza dire una parola tornai dentro il bar. Andai in bagno, estrassi il coltello, lo feci scattare… guardavo quella lama che sapevo usare, e non la sentivo più mia, mi era estranea, avevo difficoltà a tenerla nelle mie mani.

Il tempo passava, il pensiero prendeva il sopravvento sui sentimenti negativi, o forse i miei buoni sentimenti prendevano il sopravvento sul pensiero, in ogni caso il risultato era una grande insicurezza che mi dominava sempre di più. Decisi comunque che quella sera non avrei portato il conflitto a conseguenze estreme, prima volevo capire, nascosi il coltello lì nel bagno e tornai nel salone del bar.

Mi ero acquietato, mi sentivo meglio, avevo ritrovato lucidità e non aspettavo altro che lui arrivasse, mi convincevo sempre di più che per questa storia ci sarebbero state delle gravi conseguenze, ma, sicuro di me, credevo che saremmo stati io e lui a farla pagare a chi aveva montato quel castello di falsità.

Arrivò… l’accolsi con calma, era insieme ad uno di quelli che io ritenevo responsabile di tutto l’accaduto, gli dissi subito che dovevamo parlare, lui mi disse che anche lui voleva parlarmi… lo guardavo, cercavo di comprendere le sue intenzioni, come lui le mie, era troppo l’affetto che avevo nei suoi confronti, non riuscii a vedere altro in lui che il mio migliore amico. In quegli attimi mi passarono davanti agli occhi tutte le nostre avventure, sotto la mia pelle riprovai ad una ad una ogni emozione vissuta insieme; tra noi non poteva che finire bene!

Gli dissi che non volevo parlare lì davanti a tutti, andammo via io e lui da soli… ci avviammo all’esterno, girato l’angolo ci fermammo uno davanti all’altro, gli chiesi delle spiegazioni… lui mi disse qualcosa di incomprensibile, misi gli occhi sulle sue mani, e vidi il coltello…

Ancora il tradimento!

Reagii violentemente, gli diedi due, tre colpi, con i pugni, con i calci… arrivò di corsa un comune amico… ci staccò; io non mi fermavo… ero fuori di me, gli tirai un calcio, lo presi… lui si girò e scappò; tra me e lui il nostro amico… che mi bloccò!

Recriminavo con lui, ma cominciai a sentire un calore al petto, mi aprii il giubbotto, il mio maglione era ormai rosso, il sangue calava sull’asfalto; cominciò a girarmi la testa, facevo molta fatica a respirare, mi sedetti sul marciapiede, la vista si annebbiò, ogni respiro mi dava dolore… era una stilettata! Avevo due ferite… una nella sinistra del mio petto e l’altra alla schiena appena sopra i reni… due coltellate che non mi ero neanche accorto di avere preso. Ogni cosa era diventata buia… nulla avrebbe avuto più il colore di prima, era cominciato un mondo grigio per me.

Il mio amico si rese conto della gravità delle ferite, io ancora non ci riuscivo, corse a prendere una macchina su cui mi caricarono. Non persi mai conoscenza, sdraiato sul sedile posteriore di una “Giulia”, c’era “Luciano il contrabbandiere” che guidava, la macchina era la sua, la mia testa sulle gambe del mio amico.

Continuavo a recriminare, ancora… e poi ancora, non volevo andare in ospedale, ma respiravo molto male, il mio amico mi disse che non avrebbero potuto portarmi sino dentro al pronto soccorso, lo sapevo… altre volte era successo: chi aveva accompagnato un ferito si era ritrovato imputato di omicidio al momento in cui quello purtroppo moriva. Da questo capii di essere molto grave, doveva essere molto il sangue che stavo perdendo. Il mio amico mi parlava, gli dissi di non preoccuparsi, di lasciarmi lontano dall’ospedale, che ce l’avrei fatta da solo, nel mentre concordammo una storia da raccontare alla polizia che mi avrebbe interrogato.

Arrivammo all’ospedale San Carlo, mi lasciarono dove iniziava una piccola salita per arrivare a quel pronto soccorso, 150 forse 200 metri. Scesi dalla macchina, afferrai la cancellata, feci un centinaio di metri, ogni tanto mi fermavo appoggiandomi, non riuscivo proprio a respirare, cercavo di mandare l’aria nei miei polmoni piano, solo così riuscivo a sopportare… e a respirare. La vista si annebbiava, un continuo grande calore al petto e freddo glaciale per il resto del corpo… tentavo di gridare, ma non usciva che un filo di voce, arrivai fino ad una trentina di metri e finalmente riuscii a gridare e caddi per terra.

Mi avevano sentito, arrivò la barella, mi caricarono, non avevo perso i sensi, ma non avevo più forze, tanto da non riuscire neanche a parlare. Ricordo che mi tagliarono i vestiti in un attimo fui nudo, finalmente non sentivo più l’odore del mio sangue, ma la nausea non passava, mi misero l’ossigeno e poi tutti gli esami. Ricordo un dottore che guardava la mia lastra, era giovane e parlava con un suo collega, gli sentii dire che se aveva toccato il cuore non avrei potuto farcela. Avevo paura, ero ghiacciato, continuavo a tremare, ma la mente si ostinava nella sua lucidità, infatti riuscivo a ragionare.

Dopo poco entrò un poliziotto. Usando la tattica a loro usuale, mi diceva che sapevano chi era stato, se avessi potuto dirgli dove trovarlo sarebbero andati ad arrestarlo subito, visto che non era a casa sua. Io lo guardavo, in qualche momento ho anche creduto a ciò che stava dicendo, ma non dissi una parola, appena vedevo che insisteva buttavo la testa all’indietro e alzavo i miei lamenti. Fu allontanato.

Arrivò mia madre ed il suo uomo, ricordo il suo pianto ed il terrore nei suoi occhi, bastò questo a scuotermi, ricominciai a parlare, cercando di sdrammatizzare, che stavo male, ma non sarei certo morto, passò tutta la notte così… con la probabilità di dovere essere sottoposto ad un intervento chirurgico da un momento all’altro.

Ad un certo punto i poliziotti furono autorizzati a pormi delle domande, io risposi con la storia che avevo inventato con il mio amico, mi facevo forte della presenza di mia madre. Nonostante la storia fosse poco credibile fui al momento creduto, e la mia versione successivamente ripresa dai mass-media.

All’alba mi portarono in osservazione, rimase mia madre con me, e finalmente presi un poco di sonno, intanto flebo e trasfusioni di sangue andavano. Al mio risveglio mia madre era ancora lì, mi accarezzava e mi baciava.

Dopo poco mi disse che fuori c’era il maresciallo dei carabinieri di Corsico, io non volli parlargli, lei mi guardò… non riusciva a capire il mio atteggiamento, io gli dissi di riferirgli che confermavo parola per parola quanto già detto alla polizia.

Quando mia madre tornò mi disse che era andato via, mi chiese se stavo raccontando delle bugie, ed io gli dissi che anche se così fosse stato quella era la verità per tutti, anche per lei. Il suo sguardo mi lacerò nell’anima, fu come se all’improvviso mi stesse guardando per la prima volta.

Quel pomeriggio, seppure in osservazione, ebbi molte visite di amici, di giornalisti, ma una su tutte rimane indelebile nella mia mente: quella del padre del mio accoltellatore. Era un uomo duro, forgiato dalla sofferenza e dal carcere, io gli avevo sempre voluto bene, molte volte avevo mangiato in sua compagnia… ancora oggi lo sguardo che ci scambiammo per un lunghissimo momento ha il potere di sollecitare le mie emozioni.

Mi guardò sulla porta, io non abbassai lo sguardo, vedevo i suoi occhi umidi, vi leggevo rispetto, io continuavo a guardarlo. Dentro di me mille sentimenti diversi combattevano: ora volevo buttargli le braccia al collo, ora tirargli una qualsiasi cosa avessi potuto afferrare… alla fine mi uscirono queste parole: “ Non è giusto…”, e scoppiai a piangere. Mia madre guardava e non capiva, lui se ne andò… credo addolorato.

Dopo un paio di giorni fui assegnato al reparto, negli orari delle visite c’erano sempre una moltitudine di amici ed amiche della mia età a trovarmi, tra loro uno che non era mio amico ma che non mancò neanche un giorno: il maresciallo dei carabinieri di Corsico.

Io gli rivolsi la parola solo il primo giorno che venne, mi chiese perché proteggevo chi aveva cercato di uccidermi, disse che tutti ormai sapevano chi era stato, solo la mia versione impediva di arrestarlo; gli risposi che le sue erano solo fantasie, che io non conoscevo chi mi aveva accoltellato e quindi si poteva risparmiare quei viaggi all’ospedale.

Dopo dieci giorni di ricovero obbligai mia madre a firmare per farmi portare a casa, non sopportavo più di vedere quel maresciallo, avevo ancora il versamento di sangue in atto nel polmone, nulla si poteva fare, se non dei forti antibiotici ed aspettare che il versamento si riassorbisse. I medici mi dissero che per un mese non avrei dovuto uscire di casa, ed in ogni caso prima dovevo fare degli esami. Mi ricordo che ironicamente chiesi al medico chi stabiliva se fosse giunto il momento di uscire di casa, visto che, per fare gli esami, sarei dovuto uscire.

Ero arrabbiato con il mondo, nulla mi andava bene, cercavo la rissa, ci voleva molta pazienza per starmi vicino in quel periodo. Di giorno ero in casa da solo, mia madre doveva lavorare, e nel giro di poche giornate la mia casa era diventata il ritrovo di tutta la compagnia di allora, con qualche eccezione: la prima delle quali era colui che aveva montato tutta questa menzogna (seppure non potevo dimostrarlo né agli altri né a me stesso, ero certo della sua responsabilità); la seconda il mio accoltellatore, il mio ex fraterno amico.

Tutti si erano schierati dalla mia parte, anche perché gente più adulta del nostro ambiente aveva sgombrato il campo dalle menzogne, ed era chiaro che io non avevo “infamato” proprio nessuno. Gli stessi arrestati dal carcere mi avevano fatto avere la loro solidarietà, con l’impegno solidale tra noi di vendicarci degli sgarbi subiti.

Nel mio cuore c’era rancore, nella mia testa solo la vendetta, nelle mie azioni tanta rabbia dissimulata in un comportamento compassato e sicuro. Stavo male psicologicamente e fisicamente, le massicce cure di antibiotici mi avevano riempito il corpo di sfoghi, ed io mi sbranavo con le unghie, mi grattavo per il prurito ma anche per il nervoso, non dormivo, le notti non passavano mai e sentivo la morte come mia costante compagna.

Non mi fidavo più di nessuno, mi sentivo circondato dall’ipocrisia ed anche se di giorno avevo molta compagnia, mi sentivo solo e la mia testa ogni giorno funzionava sempre meno. Mi avevano raccontato che il padre del mio accoltellatore l’aveva punito severamente, ancora oggi non so se fosse vero, ma io non ci credevo, come non credevo che l’avesse buttato fuori di casa, e poi erano tutte cose che non mi soddisfacevano. Più il tempo passava e più credevo che vi fosse solo un modo per avere pace: la vendetta.

Questo era il mio pensiero razionale, ma dopo il giorno veniva la notte, la maschera del duro cadeva, e nella solitudine del mio letto i miei sentimenti scaldavano il mio petto e l’unico refrigerio erano le lacrime. Ero continuamente in bilico, e non riuscivo a parlare con nessuno sinceramente, sentivo il “dovere” verso me stesso e sentivo l’assoluto “non ritorno” se avessi assolto tale dovere; vedevo le stesse lacrime di mia madre rigare il volto della madre del mio accoltellatore, immaginavo il dolore di sua sorella e la distruzione della vita di suo padre, tutte persone che avevo amato, con cui avevo condiviso momenti di serenità. La mia confusione aumentava…

In quel periodo con mia madre non c’era dialogo, qualsiasi cosa dicesse, io facevo di testa mia; i suoi pianti mi commuovevano e strappavano delle promesse che puntualmente disattendevo, mi sentivo un leone ferito in attesa di potersi mangiare il suo avversario.

Fu fissato il processo per gli amici arrestati per quella rapina, erano passate tre settimane da quando ero tornato a casa, andai al loro processo… con la mia moto. Tutto il mondo che per me contava allora era a quel processo, il mio accoltellatore non venne, e questo per me fu molto importante, io ero lì… lui non c’era! Il processo si concluse con due condanne, emersero i particolari dell’arresto, e quindi ogni dubbio svanì, il giorno stesso uno dei due fu scarcerato perché minorenne e venne subito a casa mia.

I riti dell’occasione furono consumati fino a notte fonda, altre decisioni furono prese, tra cui quella che più mi premeva… nessuno doveva fare quello a cui solo io avevo diritto, e seppure  in quel momento ero certo di farlo, quel diritto che mi arrogavo, nel profondo della mia anima, non aveva lo stesso sapore che nelle mie parole. In ogni caso dovevo prima guarire.

In quei giorni successe quello che accade sempre in queste cose. Gli invidiosi del mio accoltellatore si affannavano a mettersi a disposizione: chi voleva partecipare, chi mi portò le armi necessarie a realizzare quello che pensavano volessi fare, chi me lo voleva portare a casa imbalsamato… visto che io stavo ancora male.

Non so perché, io questi li capivo, cioè voglio dire… li ascoltavo ma sentivo che erano falsi; forse la sola ragione per cui li sentivo così falsi era che nessuno mi ascoltava, nel senso che nessuno capiva il dramma che vivevo. Io, tra una crisi di nervi e una fantasia di vendetta, avevo nella mente anche i momenti belli che avevamo passato insieme, spesso pensavo ai sogni che avevamo fatto, a come fossimo certi di realizzarli, alla nostra intesa, tutta quella gente che ne sapeva di queste cose? Non c’era stata un’azione trasgressiva nel passato dove qualcun altro era stato davanti a noi, io e lui eravamo sempre i primi ad iniziare e gli ultimi a finire, ma come poteva essere successo tutto questo?

Un pomeriggio una delle persone che meno stimavo mi venne a trovare a casa, era un mio coetaneo, ma con lui non avevo mai legato molto, aveva della cocaina con sé. Con fare paterno mi disse che io non ero ancora guarito e quindi era meglio che non mi drogassi, io gli risposi che non l’avrei fatta neanche se fossi stato bene.

Mi disse che aveva una pistola e mi chiese se potevo tenergliela, in quanto il posto dove la nascondeva non era più sicuro. Non avevo mai usato una pistola, se volevo vendicarmi era ora che imparassi, questo fu quello che mi passò per la mente… gli dissi di sì, me la lasciò e se ne andò.

Andato via lui, non risposi più a nessuno e passai tutto il tempo a cercare di capire come funzionava quell’arma, la smontai… il carrello, il caricatore, i proiettili, la rimontai e poi impugnandola cercai di immaginarmi in azione con quell’arma… Eravamo ormai alla fine di ottobre, arrivò presto il buio, me la misi nella cintola, uscii di casa ed andai verso la campagna, arrivai in un posto isolato, tirai fuori la pistola misi il colpo in canna, mirai a diversi oggetti lì vicino e sparai… un colpo dietro l’altro… in questa ritmata esecuzione cominciai a vedere il volto del mio accoltellatore sulla traiettoria dei miei colpi. Quella pistola diventò molto pesante, la stessa sensazione che avevo già provato quando tolsi dalle mie mani il coltello quella sera; mi cominciò a tremare la mano, fermai la mia esercitazione, e misi via la pistola.

Mentre tornavo a casa, quella canna di pistola, da calda che era, diventava sulla mia pancia fredda e pesante, tanto che mi procurò dei crampi allo stomaco. Ancora bloccato, ero seduto sulla poltrona di casa mia, la pistola mi guardava dal tavolinetto, erano già le tre di notte, da molte ore mia madre era a letto. Nonostante tutto il whisky che avevo bevuto, non mi sentivo ubriaco, ma ero bloccato, ancora una volta la mia emotività mi bloccava.

Sapevo come dovevo fare, avevo pensato molte volte a come e dove farlo. La scena vissuta nella mia mente come in un film era solo da realizzare, ma io ero bloccato ed ormai ossessionato dalle mie domande senza risposta… mi avviavo verso l’unica conclusione che la mia ragione mi forniva: ero un vigliacco!

Non poteva essere altrimenti, i miei principi erano quelli per cui non si porge l’altra guancia a chi tradisce, ero stato accusato ingiustamente, ero stato ferito ingiustamente, mi ero comportato come si comporta un uomo, tutti l’avevano riconosciuto, tutti implicitamente mi avevano dato il loro via libera, ed ora sapevo tutto quello che mi serviva: la mia intelligenza mi aveva fornito il “piano” ed il mio poco stimato amico lo strumento per realizzare il mio piano. Per quale motivo stavo perdendo tempo? Perché esitavo? Certo non avevo sparato mai a nessuno, ma che c’entra?

Quante volte avevo usato la violenza, avevo picchiato mio padre allorché avevo ritenuto di doverlo fare, nel servizio d’ordine di lotta continua non avevo esitato a spaccare qualche testa fascista, in quante risse con i miei amici era successo di tutto e di più, avevo picchiato ed ero stato picchiato: con le mani, con i piedi, con le spranghe, con le catene… e, seppure senza conseguenze gravi, molte volte avevamo tirato di coltello. Perché non avrei dovuto usarla adesso la violenza?

Mi chiedevo cosa temessi, non avevo più nulla da perdere, con mia madre non volevo più stare, il mio mondo non esisteva più, tutte quelle cose che in quel mese avevo notato dei miei amici me li facevano disprezzare… e poi non potevo certo recuperare il rapporto con il mio accoltellatore. Già… lui era quello che volevo uccidere, e mi scoprivo a pensarlo ancora come mio amico, ma lui non era più un mio amico, perché anche se non l’avessi ammazzato, il che avrebbe voluto dire perdonarlo, lui sarebbe stato il primo a disprezzarmi per questo e comunque non l’avrei riavuto più come amico.

Anche lui avrebbe voluto che io l’ammazzassi, specialmente se fosse stato consapevole di avere sbagliato nei miei confronti, questa era la nostra filosofia, questo era essere uomini, questo era quello che dovevo fare io se volevo essere uomo, tutto il coraggio che avevo avuto in passato non contava più nulla. Tutta la dignità con cui avevo affrontato l’infamia della mia vicenda non contava nulla, tutte le botte che mi ero preso per difendere gli altri non contavano nulla… già gli altri, il mio mondo non sarebbe stato più lo stesso se io non avessi fatto quello che il mio mondo voleva io facessi. Ero un vigliacco, non perché lo dicessero gli altri, ma perché lo credevo e lo dicevo io. Su questa mia affermazione si aprirono le porte dell’esaurimento nervoso.

Dopo pochi giorni andai via da Milano, andai a vivere da mia zia a Pontedera, qui non c’era più un posto dove io potevo stare, ormai non dormivo più, la notte era una crisi di panico dietro l’altra, mi sbranavo con le unghie in ogni parte del mio corpo. La mia identità era completamente azzerata, quel giovane baldanzoso, forte e spigliato, a volte prepotente, non c’era più; al suo posto ottanta chili di materia, un encefalogramma piatto, ma più che altro nessun sogno, nessun desiderio, nessuna ambizione.

Ricordo interi pomeriggi a fissare il vuoto nella casa cantoniera di mia zia, mio zio ferroviere, i miei cugini che mi giravano intorno, la cautela con cui tutti mi trattavano, mi sentivo sempre più insicuro. Questa spirale mi trascinava sempre più giù, rimasi in quelle condizioni per quasi un anno e poi cominciò una guarigione che forse ancora deve finire, ma è un’altra storia per le cause che l’avviarono, se non vi sarete stancati troppo di questa, prima o poi vi racconterò anche quella.

Tornai a Milano dopo un anno e mezzo, il mio profilo psicologico è intuibile, mentre quello fisico era ormai intorno ai 95 chili, ero debole psicologicamente, nel senso che non avevo alcuna stima di me stesso. In compenso il rapporto con mia madre era recuperato, lei era riuscita a farmi sentire il suo amore e la sua protezione, anche se la mia malsana natura mi impediva di riavere piena fiducia in lei.

Da un lato desideravo essere protettivo e generoso con lei, cercando di non pesarle, dall’altro non avevo più le mie certezze, mi sentivo in continuo stallo. Intorno a noi percepivo poca sincerità, l’ambiente non mi permetteva di avere fiducia in nessuno, e non mi sentivo più amico di nessuno.

Fu molto difficile recuperare fiducia in me stesso. Devo dire che questo avvenne grazie a mia madre che, credendo in me, chiuse la sua attività lavorativa per aprirne una con me. Cominciai a stare meglio, ma le esperienze negative del passato continuavano ad operare in me; anche mia madre era diventata più insicura, ormai non pensavamo ad altro che a lavorare e avevamo perso molto della lucentezza della vita. Sotto questa pressione facemmo il grande errore di vendere quell’attività, fu un affare sicuramente vantaggioso finanziariamente, ma non era ancora il momento.

Io non ero guarito del tutto e ancora di più ero molto immaturo in taluni aspetti del mio carattere. Quella vendita mi costrinse a scelte autonome che ancora non ero in grado di prendere; non avevo dei punti di riferimento precisi. Vi era un profondo vuoto dal punto di vista degli obiettivi, non avevo desideri né sogni, per il semplice motivo che non credevo di meritarmi il privilegio di avere ambizioni.

Avevo aperto da poco la mia seconda attività da solo: il ristorante che mi avrebbe portato a un nuovo disastro psicologico e, questa volta, anche economico, quando avvenne il tragico evento della morte dell’ex amico fraterno. Era il 04/01/1982, erano passati poco più di 5 anni, ma tutto era ancora vivo dentro di me.

Egli morì in seguito ad una sparatoria con la polizia, dopo un tentativo di rapina in una gioielleria; fu colpito al cuore da un proiettile sparato da un poliziotto. Avvenne un fatto assai strano, una singolare coincidenza: lo vidi morto sulla macchina usata dai rapinatori durante la fuga.

Mia madre aveva all’epoca aperto un bar in una scuola in viale Liguria che si chiamava “Acist”. Io avevo il mio ristorante vicino a Binasco e la mattina prima di andare al mio lavoro passavo a dare una mano a mia madre nella preparazione dei panini per il mezzogiorno.

Così anche quella mattina venendo via dal bar di mia madre svoltai da viale Liguria per prendere l’autostrada dei fiori ed uscire a Binasco, fatte poche centinaia di metri ero fermo in colonna. Il ritardo aumentava, non ci si muoveva e io fremevo. Si sentivano una moltitudine di sirene, vidi l’elicottero dei carabinieri, cercai di svicolarmi, ma mi ritrovai imbottigliato e non sapendo che fare fui curioso di sapere almeno cosa stava accadendo… pensavo ad un normale incidente automobilistico.

Posteggiai l’auto sul marciapiedi ed andai avanti a piedi, feci alcune centinaia di metri ed arrivai in piazza Maggi, dove inizia la suddetta autostrada, il capannello di persone era proprio lì, una moltitudine di “volanti”, poliziotti in ogni posto, l’elicottero in cielo ed una folla di curiosi come me.

Attraversai la piazza, vidi “l’alfetta” con le quattro porte aperte, mi avvicinai… sul sedile di dietro c’era lui… riverso con la testa all’indietro, un rivolo di sangue che gli scendeva dalla bocca, pallido in volto… era già morto! Lo riconobbi subito ed altrettanto subito rimasi sgomento, una fitta allo stomaco mi colse impreparato, mi venne da vomitare, ma più fu il dolore sordo della mia anima, mi rigirai sui miei passi e corsi via.

Non so ben descrivere cosa provai emotivamente, ricordo solo che provai dolore e pena. Da allora ho sempre evitato di riflettere su questo episodio. Un paio di volte ne parlai con mia madre… ma mai sono riuscito a rifletterci, ho sempre cercato di rimuovere e cancellare quei momenti, molto di più del mio stesso accoltellamento, ancora oggi non so che significato dare a quell’episodio. Mi ricordo che quando lo dissi a mia madre avemmo un litigio perché, pur sentendo la legittimità delle sue ferite ancora aperte, mi ferì vedere che non provava pietà e rimaneva, anzi, indifferente.

Questa è la storia vera di una vicenda della mia vita, una vicenda che mi ha segnato profondamente, che mi ha fatto dubitare profondamente del mio coraggio, del mio essere uomo. E’ stato difficile tornare ad avere stima in me stesso, il percorso è stato lungo e pieno di errori. Credo che, quando dopo otto anni da quell’episodio decisi di diventare un criminale, fu anche per tenere a bada tutta una serie di debolezze che ancora oggi mi caratterizzano e che vorrei poter tenere sotto controllo: dai miei sensi di colpa, al bisogno di tenere le redini di tutto, alla necessità di documentare, istante per istante, la mia superiorità, la mia sincerità, la mia purezza. Ma la battaglia è dura, come lo è quella col rancore sordo che ha continuato ad agire contro me stesso.

Non so dove abbia origine questa mia insicurezza: forse nel non avere voluto utilizzare il mio coltello quella sera? Non so neanche se ciò che mi ha indotto a non farlo sia stato il rispetto per la vita del mio fraterno amico o se si è trattato solo di vigliaccheria. E, analogamente, non so cosa mi abbia indotto a rinunciare a vendicarmi.

Oggi ho la sensazione di avere vissuto gran parte della mia vita reagendo al rancore che questa mia vicenda mi ha provocato. Di certo queste vicende hanno lasciato il segno: a volte vivo un senso di inadeguatezza verso ogni aspetto della mia vita, altre volte mi sento soddisfatto oltre la misura in cui sarei legittimato ad esserlo, come inseguendo una voglia rabbiosa di dimostrarmi capace.

 

 

 

 

Da un po’ di tempo ho cominciato a studiare e ripenso, anche alla luce dei testi che leggo, ai diversi modi di vivere, soffrire, gioire, morire che ho incontrato nei vari ambienti che ho frequentato. Ovunque mi sia trovato, mi è parso di vedere delle costanti: pur se con manifestazioni diverse, che variano in corrispondenza con la cultura in cui ci siamo formati, violenza sugli altri e debolezza interna viaggiano sempre insieme. Credo che forza, rabbia e aggressività non possano essere eliminate dall’uomo, perché necessarie alla nostra stessa sopravvivenza e alla nostra sete di conoscenza. Probabilmente solo una conoscenza adeguata della nostra debolezza può permetterci di mantenere la giusta misura di queste indispensabili pulsioni.