7200 minuti

Vito Cattaneo

03-03-2006  

Settemiladuecento minuti fa li ho visti; oggi, per dieci minuti li sento.

E’ così che funziona. Sessanta minuti di contatto in cui amore, sguardi e frasi sono così mischiati e veloci che niente trova mai il tempo necessario.

Oggi, dopo settemila minuti, mi siedo in quella stanzetta, alzo la cornetta e impaziente aspetto quindici minuti che mi rispondano per sapere chi sono e potermi dare la linea.

Riattacco e attendo la linea.

Sono agitato, accendo la seconda sigaretta e con il piede ritmo un qualsiasi battito che, forse inconsciamente, è lo stesso del cuore, senza distinguere quale dei due batte più forte.

La sigaretta brucia come la miccia di una bombetta (si, quel petardo piccolino, innocuo, dalla miccia così veloce che ti scoppia tra le mani), e aspetto.

Intanto spero che a casa ci sia lei e che non sia magari già in giardino e non faccia a tempo a salire e rispondere, altrimenti perdo il turno e devo aspettare altri quaranta, cinquanta o sessanta minuti per riprovare.

Drrr, drrr (anche lo squillo del telefono sembra privo della sua libertà di fare DRIINN DRIINN), alzo la cornetta e la tensione è come se non ci fosse mai stata.

<<Ciao amore come va?>> <<Bene>> mi dice lei, ma io già capisco che c’è qualcosa che non va. <<Dal tuo tono mi sa che non va tutto bene>> <<No no>> mi dice.

<<No no, o no?>>

<<Mi sono svegliata male, la bimba non sta bene, ha sempre la tosse e vomita e il pediatra dice sempre che è normale. Ma io sono sua madre e conosco mia figlia!>>

<<Portala da un altro medico>> dico io.

<<Ho preso appuntamento, e poi sentiamo cosa dice. Inoltre anch’io non sto bene, ho sempre quel dolore, e qua è la solita storia, mi trattano sempre in quel modo, sono stanca>>

<<Senti amore – tu tu – SALUTI CATTANEO. FFFF è già finita, senti amore, cerca di stare tranquilla e su col morale, ascolta un po’ di musica, alleg Tuuuu >>.

<<Porca puttana hanno staccato la linea>>. Me ne vado incazzato, sapendo di dover attendere duemilaottocentottanta minuti prima di avere notizie di loro.

Dopo un’attesa di duemilaottocentottanta minuti è arrivato il momento dei sessanta minuti di visita.

Di solito arrivano verso le 11.30 ed io mi sono già fatto la barba, curandola nei minimi dettagli, per evitare che la mia piccolina, baciandomi o strusciandomi il suo visino, si possa spinare. Il pacco della roba da mandare a casa da lavare è pronto e la borsetta con il caffè, il latte, le brioche e l’ovetto Kinder per la piccina, e qualcosa anche per i più grandi sul tavolo, pronta per essere afferrata come lo scrivano mi viene a chiamare per andare.

Durante l’attesa, è un continuo avanti e indietro, ad ogni movimento dello scrivano, da lontano alzo il braccio per chiedere se mi hanno chiamato. Ogni minuto dopo l’orario prevedibile è un tormento.

Oggi non s’è visto nessuno, cosa che capita raramente e di conseguenza una preoccupazione più intensa.

La mia ultima frase è rimasta in sospeso a metà tra i fili del telefono.

Sono ansioso, sono in sbattimento, sono nervoso, non posso alzare il telefono per chiamare e avere notizie. Faccio chiamare da un assistente volontario e poi aspetterò millequattrocento minuti per una notizia.

Millequattrocento minuti in cui la tensione ti sgretola i nervi, l’attesa ti macina il cervello, la rabbia a stento trattenuta dalle solite parole: Pazienza, Pazienza, Pazienza.

Tra diecimilaottanta minuti li vedrò per sessanta minuti, o se faccio la richiesta, chiedendo sempre l’autorizzazione alla signoria vostra gentilmente, potrò fare centoventi di minuti di colloquio.