Progetto continuità

Gabriele Rossi

23-06-2005  

Tutti ci siamo resi conto, allo stato dei fatti, di quanto è grande il vuoto che vive un detenuto alla sua scarcerazione. Ad accoglierlo c’è una società non pronta. A scarcerarlo c’è un’istituzione che, per ragioni organizzative, non può fare altro che ridargli la sola libertà, aumentando così le probabilità che il soggetto non trovi altro sostentamento economico e sostegno psicologico, se non quello derivante dalle vecchie amicizie e dai vecchi ambienti.

Esiste una realtà carceraria che col tempo migliora sempre più: attività interne di socializzazione che portano il detenuto ad una rivalutazione di se stesso e delle sue capacità; gruppi di lavoro che hanno come coordinatori persone e professionisti che si adoperano con interesse e serietà.

Personalmente, posso dire d’aver fatto parte di questi gruppi e d’aver creduto davvero che ho ancora delle qualità e delle capacità; mi piacerebbe però poterle mettere anche a disposizione degli altri oggi, oggi da uomo libero.

Con tutta umiltà, invece, devo fare i conti con una realtà che non dà molto spazio alle mie buone intenzioni di ripresa. Devo fare i conti sempre più spesso con le mie debolezze, ma anche con la difficoltà di un lavoro inesistente.

È necessario creare una condizione di continuità,  dove il detenuto, dopo la sua scarcerazione, possa proseguire quel lavoro di rivalutazione di se stesso che ha iniziato in carcere. Sono fondamentali quindi il lavoro e le relazioni che forniscono  alcune delle basi per sentirsi parte attiva della società, contribuiscono all’evoluzione positiva della personalità, favoriscono il distacco dalla “dipendenza” e danno sempre più valore alle responsabilità di una vita “normale” e senza devianze.

Bisogna tener conto del fatto che non sempre  il soggetto è in grado di usare gli strumenti che ha a disposizione e, come spesso  succede, non li riconosce nemmeno, ma quanti più ne ha a disposizione tanto più aumentano le probabilità di recupero.

Credo sia una sensazione comune quella dell’impotenza che si prova di fronte a domande come: cosa fare per il recupero della persona che esce dal carcere, e in che modo offrire una continuità?

Ho pensato ad un progetto che vorrei sottoporre anche per avere la vostra opinione, l’ho fatto cercando di considerare  gli aspetti più importanti della delicata questione: la rete di relazioni, il lavoro, la possibilità di rivalutarsi e di rimettersi in gioco, ecc.

In questo progetto potrebbero essere coinvolte tutte le persone che lavorano nell’ambiente del carcere, del tribunale, dei servizi, i docenti e gli studenti che frequentano il carcere e tutte la persone che in qualche modo possono, soprattutto perché ci credono, dare il loro contributo di continuità come risposta alla sensazione d’impotenza.

Il progetto prevede quindi un ambiente di lavoro e soprattutto di relazioni, che devono essere considerati uno degli aspetti primari per ristabilire una nuova identità: un’identità meno compromessa della precedente. L’idea è quella di fare impresa, manodopera costituita da detenuti ed ex detenuti che opererebbero in modo esclusivo per i dottori, magistrati, assistenti, e vari operatori dell’ambito penitenziario, ecc…

Insomma una nuova forma di relazione che terrebbe in contatto le parti in un confronto diretto dove emergono responsabilità, impegno, relazioni nuove e, soprattutto, dove tutti si adoperano ad offrire continuità.

Sostanzialmente succederebbe che, quando il dottor X ha bisogno del giardiniere o del falegname, per esempio, dovrebbe fare riferimento a questa impresa chiamandola e godendo della manodopera offerta da un progetto che prevede qualcosa di più che un semplice e comune rapporto di lavoro.

L’ipotesi è quella di un’impresa che potrà fare fronte alle seguenti mansioni: giardinaggio, falegnameria, lavori di ristrutturazione d’appartamenti, imbiancatura, idraulica, elettricista ecc…

Propongo questo progetto come parte del lavoro che svolge il gruppo della trasgressione, in continuità con il lavoro che viene svolto sui diversi temi come, ad esempio; l’importanza delle relazioni, il lavoro sulla sofferenza, i vuoti che ci appartengono, il lavoro di gruppo come strumento e sostegno per l’evoluzione personale, l’importanza di sostituire la dipendenza dalle droghe con il legame su un progetto comune, ecc.

Nelle diverse ipotesi c’è anche quella di fare richiesta al Magistrato di Sorveglianza perché si possa avere a disposizione le prestazioni lavorative anche di persone che si trovano detenute, magari per un piccolo lavoretto che può avere la durata non superiore alla concessione prevista di pochi giorni di permesso premio, magari per imbiancare proprio la casa del Magistrato.

D’altra parte, non sono proprio le persone che lavorano in carcere quelle più consapevoli della difficoltà che vive l’ex detenuto? Non sono proprio loro le persone che hanno promosso e coltivato del detenuto risorse e qualità che il comune cittadino non conosce e spesso, comprensibilmente, non ha voglia di conoscere?

Per chi è stato detenuto, questa sarebbe una grande trasgressione: riprendere il desiderio antico di farcela con alleati nuovi e un tempo insospettabili.