Sapere chi è stato ci libera
dalle ombre dentro di noi

Mercoledì 13 Marzo 2002

 

di Aldo Carotenuto


QUALCOSA di primitivo permane in ognuno di noi. Come il riflesso di un’ “orda tribale" cerchiamo ancora un capro da immolare sull'altare del giudizio. Distinguere il bene e rintracciare il male, riconoscerlo e additarlo è una forza oscura che ci spinge a scindere la realtà e ad accanirci nella comprensione delle cose. Una comprensione che a volte diventa quasi morbosa, eccessiva, fino ad essere fuori luogo.
Un'attenzione, cioè, che fa sorgere qualche sospetto sui sentimenti che la muovono, sulle aspettative che la animano.

Nessuno mai potrebbe escludere dal proprio desiderio di conoscenza — ma anche dalla sua sete di chiarificazione e dalla necessità di ricomporre un equilibrio per qualsiasi ragione sconvolto — l'interesse per cosa sia realmente accaduto in quella villetta di Cogne. Nessuno: perché fa parte dell'animo umano provare pietà e sentire sgomento e indignazione per morti feroci e apparentemente inspiegabili.
Tuttavia, fa parte dell'umano sentire anche gestire la propria ambivalenza di fondo, la presenza di ombre che — sebbene la nostra mente tenti di negare — offuscano la chiarezza del raziocinio. Perché ognuno di noi ha un Mr. Hyde che accoglie il nostro retaggio collettivo.
Per questo motivo, quelle forze incontrollabili che hanno mosso la mano di chi ha ucciso, ci allacciano adesso a quella villetta. Tutti vogliamo ormai sapere chi è stato. Ne abbiamo bisogno. Come se il dolore per quella vita recisa si stesse offuscando, sotto l'abbagliante rivendicazione di un colpevole. Richiesta, questa, attenzione, che sottende una paura arcaica: dover riconoscere l'esistenza di sentimenti contrastanti nel proprio animo e temere, con soffio di intuizione, che è proprio dell'uomo provare dolore, rancore e persino odio. Odio che ha spinto l'assassino e che adesso spinge il “gruppo" a cercare il colpevole. Quasi un rito collettivo che ha bisogno di consumarsi per esorcizzare l'ira degli dei. Solo che gli dei sono dentro di noi: sono il nostro lasciarci andare all'emotività, sono il nostro amare e il nostro odiare, il nostro ragionare lucidamente e il perderci nell'incandescenza della sensazione. Vogliamo esorcizzare noi stessi, e la paura che quel moto di stizza, quell'ira fuggiasca, che abbiamo a volte sentito crescere e divampare dentro di noi, potesse assomigliare a quella di chi ha ucciso il bambino di Cogne.

Questa sensazione ci sgomenta e ci perseguita, s'impossessa della nostra capacità razionale, e cerca una via di fuga. E una è particolarmente efficace: trovare l'assassino e renderlo depositario di timori e paure incontrollati come di vaghi sentori. Di qui il rito espiatorio collettivo. Ma prima vi è un altro passo da compiere: osservare, scandagliare, sapere, non già per amore puro e assoluto di verità, ma, inconsciamente, per scorgere degli aspetti particolari e patologici, delle motivazioni e dei dettagli così insoliti e inquietanti da allontanare definitivamente il sospetto che l'odio di un singolo abbia la stessa radice di quello di tutti. Cerchiamo qualcosa di inequivocabilmente diverso e differente dal nostro sentire e dal nostro vivere. Lo cerchiamo ogni volta che la nostra coscienza ci spinge ad accendere la tv, ad aprire un giornale nella speranza che vi sia a chiare lettere il nome dell'assassino. Eppure tutti noi, seppur nel silenzio del nostro animo, sappiamo già quale sia la verità.

L'abbiamo intuita e la sentiamo vibrare, come se guardassimo il volto dell'assassino e ci rifiutassimo di darvi un nome. E ci rifiutiamo perché a volte — e questa è una di quelle volte — la verità è più inquietante del dubbio. Lo è quando sovverte ogni canone collettivo, quando sconvolge i ruoli sociali e affettivi condivisi, quando sorprende e rischia di rimettere in discussione ogni cosa, ogni principio di sicurezza, ogni legame dato per scontato. E di lasciarci in balia della nostra possibilità di essere come siamo e, insieme, totalmente diversi.