Una buona storia

 

Livia Nascimben, 01-03-2003

Ieri, per chi non ci avesse seguiti, la compagnia "Senza paura" ci ha raccontato "una buona storia" a bordo del transatlantico Virginian. Luci, musiche, colori, dialoghi e personaggi ci hanno riportati all'inizio del secolo scorso quando un neonato fu ritrovato da alcuni marinai in una cassa di limoni…

La rappresentazione teatrale, tratta da "Novecento" di Alessandro Baricco, su "La Nave" mi ha fatto rivivere le tappe di un viaggio, ma non solo il viaggio di Novecento e dei suoi amici marinai, anche il mio viaggio e il viaggio dei membri del gruppo: dalla necessità di esprimersi, all'impossibilità a volte di farlo come si vorrebbe, al nascondersi dietro la maschera del comportamento deviante o del sintomo, al desiderio e all'impegno di trovare vie di comunicazione meno distruttive e di scendere dalla nave dove si è vissuti protetti per molto tempo, ma che col passare degli anni è diventata una prigione.

Complimenti agli attori Alberto, Ciro, Francesco, Franco, Giuseppe, Ivano, Lello, Luca, Maurizio, Stefano, all'addetto alle luci Donato, allo scenografo Franco, all'assistente alla regia Angelo e alla regista Cristina.

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"Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla." (Novecento, Alessandro Baricco)

A volte però può succedere che le persone non siano capaci di mettere in parola le loro storie, le loro sofferenze e i loro progetti per il futuro; a volte non possiedono gli strumenti per fare del proprio mondo interiore una narrazione, altre volte capita che accanto a loro non ci sia un interlocutore attento in grado di ascoltare, accogliere e legittimare le loro vicende.

Ognuno però ha bisogno di esprimere ciò che ha dentro, di farsi vedere, di non accontentarsi di ciò che gli viene dato dall'ambiente; ha bisogno di trasformarlo e, se non trova le parole e il modo per esserci in maniera non anonima, mette in atto un'azione, un comportamento, produce un sintomo, qualcosa che racconti di sé, seppur in modo confuso, ciò che nemmeno lui riesce a dire a se stesso.

Un comportamento deviante e un sintomo diventano compromessi tra il bisogno di mostrarsi e quello di rimanere nascosti, tra la volontà di essere autonomi e il bisogno di chiedere un aiuto; sono rappresentazioni di un conflitto, dell'incapacità di rappresentare se stessi in rapporto alla realtà interna ed esterna; sono comportamenti che mette in atto un individuo per mascherare conflitti più profondi che sarebbero destabilizzanti: concentrarsi sull'esterno, su ciò che si fa, sulle reazioni degli altri alle nostre provocazioni permette di allontanare e prendere le distanze da quelle mancanze interne che potrebbero minare la nostra sopravvivenza.

E solo quando trovi qualcuno capace di accogliere la tua domanda e ascoltare la tua storia aiutandoti a individuarne la trama, puoi portare sul palcoscenico le sofferenze di una vita intera, le tue paure, le parti di te stesso più imperfette e riscoprire la tua parte creativa e costruttiva, i tuoi desideri, i sogni e i progetti per il futuro.

Mi ha colpito molto la parte finale della rappresentazione: la paura paralizzante di Novecento, all'idea di scendere dalla nave dopo quasi 30 anni vissuti dentro il suo ventre; la sua sensazione di forza e di sicurezza nell'inventare melodie attraverso gli 88 tasti del pianoforte; la sua paura di fronte alle mille luci dentro le case e fra strade che le collegano; la sua scelta di rimanere, protetto e imprigionato nella nave che fino a quel giorno gli ha lasciato lo spazio per coltivare la sua arte; la scelta dei detenuti, attori sul palcoscenico, di cambiare il finale della storia e, diversamente da Novecento, il loro desiderio di scendere da "La Nave" affrontando la sconfinatezza di ciò che li aspetta fuori dalle mura.

"Non è quel che vidi che mi fermò. E' quel che non vidi. Puoi capirlo fratello? E' quel che non vidi… lo cercai ma non c'era. In tutta quella sterminata città c'era tutto tranne… c'era tutto ma non c'era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello, la fine del mondo.

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita… Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.

Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n'è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce ne è. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? A viverla…

Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. E' un viaggio troppo lungo. E' una donna troppo bella. E' un profumo troppo forte. E' una musica che non so suonare. Perdonatemi, ma io non scenderò." (Novecento, Alessandro Baricco)

"Noi invece dalla Nave vogliamo scendere!"
(Una buona storia, compagnia Senza Paura)

26 tasti per le lettere dell'alfabeto, 5 tasti per le vocali accentate, 10 per i numeri, 4 per le operazioni e un'altra serie per simboli e altre funzioni: questi i tasti utilizzabili per scrivere quello che penso e sento; 14 pollici, 65.536 colori e un contenitore in plastica: lo schermo dove proiettare parti del mio mondo, le mie luci e le mie ombre.

Lo schermo del computer per me, come il pianoforte per Novecento e il palcoscenico allestito al terzo raggio per i detenuti, rappresenta uno spazio dove esprimere creativamente parti di se stessi, imparare a collaborare con altri, contribuire alla realizzazione di una serata, di uno spettacolo o di un progetto, inventare suoni e colori da accostare al silenzio e all'oscurità e conoscere le parti di sé lasciate per molto tempo escluse alla vista; uno spazio però che può diventare un'ulteriore prigione se non ci si assume la responsabilità di andare oltre, di accettare di non poter suonare tutte le melodie possibili e scendere dal proprio mondo per incontrare quello degli altri.

Novecento ha rinunciato a scendere dalla nave, i detenuti del terzo vogliono scendere e anche io lo voglio! Desidero impegnarmi per riuscire ad essere me stessa davanti allo schermo e non dietro, insieme alle persone e non a casa in solitudine, nella realtà e non solo nelle mie fantasie.

Se e come e quando ci riusciremo, sarà un'altra buona storia da raccontare…