Generazione chi?
Maggio 2002

Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet
Adulti e ragazzi, stessa fatica di crescere

 

«I genitori che puntano sull'affettività rischiano di abdicare al ruolo etico»

di Marina Corradi


Che cosa rende tanto difficile educare oggi, e perché tanti genitori avvertono un disagio, come se ciò che hanno ricevuto non fosse più trasmissibile ai figli? C'è una "mutazione" che attraversa i rapporti generazionali?

Risponde Gustavo Pietropolli Charmet, docente di psicologia dinamica: «Indubbiamente c'è una trasformazione del percorso adolescenziale, un cambiamento che rende più problematiche che in passato le relazioni educative. Alla radice di questo cambiamento io vedo soprattutto i nuovi modi di vivere la paternità e la maternità, sviluppatisi nella cultura occidentale».

La mutazione, dunque, sta negli adulti.
« La crisi di autorità del padre ha portato a nuovi modelli educativi: oggi abbiamo un padre molto più affettivo che etico. Cioè un padre molto più "compagno" del figlio, che portatore di princìpi etici. Il nuovo padre vuole essere obbedito per amore, non per autorità. È una rottura con il passato, che è stata preparata a lungo: già la Scuola di Francoforte, negli anni Trenta, immaginava una democratizzazione dei legami generazionali, parallela alla redistribuzione del potere che avveniva nella società. E oggi abbiamo padri che non si ispirano più al loro padre per svolgere il proprio ruolo, ma che in qualche modo hanno accesso alla paternità attraverso la relazione di coppia: è la madre che li "nomina" padri».

Ma come si comporta, concretamente, questo padre diverso da tutti i suoi predecessori?
«Ha con il figlio una relazione molto più precoce rispetto al passato. È presente in sala parto, e fin dalle prime settimane di vita del bambino impara a accudirlo al pari della madre. Questo crea fra padre e figlio una relazione fortemente affettiva: il padre abbraccia, cambia i pannolini, consola. Si assiste a una femminilizzazione del ruolo maschile. Appena trent'anni fa, un uomo che in una città del Sud avesse spinto la carrozzina avrebbe suscitato stupore e forse ilarità. Oggi questo comportamento è socialmente approvato e anzi propagandato dalla pubblicità. Tuttavia, il padre resta comunque più libero di non esserci, di disertare, e in questo caso non è stigmatizzato socialmente come lo sarebbe la madre. Quindi i modelli paterni sono in sostanza due: o il padre affettivo iperpresente, spesso con un unico figlio, in una famiglia mononucleare molto chiusa, oppure il padre che non c'è. In ambedue i casi, assistiamo a una sorta di invocazione collettiva, perché si associa la carenza di valori paterni con la indisciplina o la violenza dei nuovi adolescenti».

E non è vero?
«È vero, ma non si può restaurare per legge un'autorità che non c'è più».

Non ha bisogno, un ragazzo, di un padre portatore di "legge"?
«Ne ha bisogno, e infatti il padre affettivo cerca di farsi anche etico: ma vuole che i suoi valori siano liberamente accettati dal figlio. È un padre che, se dà regole, le dà flessibili, perché anche la trasgressione possa essere, alla fine, senza castigo. Ciò che è cambiato radicalmente, in realtà, è la prospettiva con cui guardiamo ai figli. Non pensiamo più, come è stato per secoli, al bambino come a un piccolo selvaggio da civilizzare, ma come a una creatura naturalmente buona e intelligente, secondo l'idea di Rousseau. E pensiamo che dall'incontro fra l'innata bontà del figlio e la nostra buona volontà, non potrà che venire del bene. Sogniamo che i nostri figli non faranno i soldati, ma i volontari, e che cresceranno nel culto della pace».

Mentre i padri si maternizzavano, le madri che hanno fatto?
«Sono andate tutte a lavorare. Questo ha indotto separazioni molto precoci e abbandoni prolungati dei figli ancora piccolissimi. E il bambino mandato al nido mentre la mamma è in ufficio diventa ai nostri occhi già capace di relazioni, precocemente sociale. Non ha perso la mamma, ci si dice, ma si è arricchito della compagnia dei coetanei. L'idea è: mettiamo i cuccioli in un recinto, e che si divertano. La madre gioisce del precoce successo sociale del figlio, invita i suoi amici, gli fa festeggiare il compleanno da Mc Donald's. La madre oggi vuole bambini autonomi, capaci di tornare a casa e aprire con le loro chiavi e di farsi da mangiare da soli. Non possiamo stupirci, poi, se questi ragazzi "autonomi" sviluppano una fortissima dipendenza dal gruppo degli amici».

Il figlio che «se la cava», è anche affettivamente emancipato? Perché si resta in casa fino ai trent'anni?
«Il 62 per cento dei trentenni è ancora in casa coi genitori. In una convivenza pacifica, perché nella nuova famiglia affettiva non ci sono obblighi, e tutto è stato contrattato. Non c'è più bisogno di rompere, per andarsene. La mamma è contenta perché ha ancora i figli in casa; e i figli anche, perché hanno tutto il tempo per trovare la compagna ideale, il lavoro perfetto».

Però, intanto che trovi il compagno ideale e il lavoro giusto e la casa, passa il tempo, e spesso per avere figli si fa tardi...
«Io credo che dietro alla denatalità, oltre a ragioni sociali e economiche, ci sia un profondo sentimento di inadeguatezza. Il figlio è qualcosa di sempre più impegnativo affettivamente e economicamente, ci sentiamo in obbligo di dargli tutto, e questo fino a quando ha trent'anni e più. È il sentimento di inadeguatezza sviluppa una sorta di depressione dell'istinto materno e paterno».

Non è decadente, una società che sentendosi inadeguata non fa più figli?
«Certo mostra una perdita di sicurezza. In un secolo la cultura della generazionalità si è ribaltata. Cent'anni fa, i figli servivano ai genitori per il lavoro nei campi. Oggi, sono i genitori che ritengono di dovere servire i figli; di qui, un 'estrema consapevolezza e cautela».

Ma accanto alla denatalità, non ci sono altri segni di un malessere che permea i rapporti generazionali?
«Vediamo una moltiplicazione delle adolescenti anoressiche, come non era mai accaduto in passato. Le anoressiche attaccano prima di tutto la propria fecondità: il primo a scomparire è il ciclo mestruale. In un certo senso esasperano il comportamento della propria madre: vogliono realizzarsi solo col lavoro, o con il successo, buttando via la generazionalità. Adesso cominciano a soffrire di anoressia anche i maschi. È la stessa cosa: un attacco al corpo, alla possibilità stessa di generare».