La patata di Platon Karatev
Incontro con Fausto Malcovati

Silvia Casanova

San Vittore - 23-02-2009

Il giorno 23/02/2009 è ospite del Gruppo della Trasgressione il professor Fausto Malcovati, docente di letteratura russa all’Università Statale di Milano.

Il tema che oggi il professore si prefigge di affrontare parte da un romanzo di Tolstoj, Anna Karenina.  Malcovati conosce il metodo di lavoro del Gruppo, chiede pertanto di quali temi ci stiamo occupando, così da interagire al meglio con la materia che abbiamo per le mani.

I temi del gruppo:

 

 

Malcovati prende la parola.

Nella letteratura russa non esistono molti super eroi; dalla seconda metà dell’800 in poi una caratteristica centrale della letteratura è infatti il confronto con la realtà, l’affezione alla storia più che all’ideale. In questo senso Lev Tolstoj è uno straordinario autore che scrive di realtà; la capacità di fantasticare serve a evidenziare che l’uomo, tutti gli uomini, sono ancorati alla realtà e condizionati dalla storia.

Vorrei a questo punto introdurre il tema centrale del testo, partendo appunto dalle ultime tre pagine di Anna Karenina, in cui il personaggio che a noi serve come riferimento non è la protagonista, ma una storia che rimane quasi ai bordi del libro, parallela a quella di Anna: la storia di Levine, un proprietario terriero ricco e politicamente impegnato.

Anna è una donna che crede di innamorarsi di un giovane ufficiale, bello ma stupido; per questo lascia suo marito, serio ma noioso, e suo figlio. Anna scopre, durante le vicissitudini del romanzo, che rompere il legame familiare, seppure stanco e sfilacciato, per costruire un altro legame fondato sulla passione, è un’impresa assai difficile e dolorosa. La nuova storia di Anna non regge il confronto con la realtà, lei è sempre più disperata, si accorge di aver abbandonato il figlio, non riesce a mantenere il ritmo imposto dal rapporto con l’ufficiale e finisce per uccidersi.

Accanto alla storia di Anna però, per tutto il romanzo, corre parallela la storia di Levine, proprietario terriero abbiente, innamorato della stessa donna di cui originariamente era innamorato anche l’ufficiale (sedotto con successo poi da Anna). La donna in questione rifiuta le avances di Levine proprio nella stessa notte in cui l’ufficiale parte per Pietroburgo; a questo punto rimane sola e partirà poi per terre lontane.

Levine vive un difficile rapporto con i suoi contadini, con il suo ruolo sociale e pubblico; nella Russia dell’epoca, infatti, i contadini sono proprietà del signore che possiede la terra (schiavitù abolita solo 8 anni prima che in America). Levine è sensibile alla condizione dei suoi lavoratori, tenta per tutto il romanzo di trasformare questo tipo di rapporto ma fallisce.

Nel frattempo fa visita a Levine il fratello, giovane e scapestrato,  ammalato di tubercolosi. Il ricco proprietario terriero vedrà morire tragicamente il fratello nella sua casa. Qui Tolstoj introduce il primo elemento interessante: il problema della morte che arriva improvvisa a cambiare le carte in tavola.

La disperazione per la perdita del fratello è molto pesante per Levine, che è un personaggio senza fede (pur se di religione ortodossa), possiamo dire un laico; la morte fa sorgere in lui la domanda sul senso della vita.

A metà romanzo la domanda diventa sempre più pungente per il personaggio che non riesce a trovare una risposta soddisfacente. Non trova il senso dell’esistenza nel lavoro, non nell’impegno politico; sembra che questi elementi siano poca cosa rispetto a quello che la domanda chiede.

Levine nel frattempo incontra la donna di cui era innamorato e la sposa. Nonostante questo, la domanda rimane sempre viva dentro di lui con tutto il suo peso. Nemmeno il figlio, il cui annuncio viene dato proprio nel momento della morte del fratello, riesce a tranquillizzarlo. E’ solo alla fine del romanzo che Levine trova una sua risposta; una risposta semplice, quasi elementare, una risposta che permette a Tolstoj di dare il suo senso della natura umana.

 

 

Ora vorrei parlarvi di tre storie, che sono in tre lavori diversi.

 

Guerra e Pace

Il romanzo tratta della guerra napoleonica del 1812, in cui appunto Napoleone invade la Russia. Nella seconda metà del romanzo viene chiamata la “grande guerra patria” perché è il popolo che scende a combattere, un popolo fatto di contadini che si improvvisano soldati per salvare dalla morsa del nemico la loro terra (nella prima parte della guerra, e del romanzo, sono invece gli eserciti scelti a combattere).

Qui incontriamo uno dei due protagonisti principali, Pierre il nobile, figlio illegittimo che riceve una grande eredità contro il volere dei parenti di sangue. All’interno della guerra, lui che non è inserito nell’armata, assiste alla battaglia di Bradinov, battaglia che si rivela disastrosa per tutti; tant’è che il generale che fa capo all’esercito russo ha proprio in questo momento la grande intuizione che porterà la Russia a sconfiggere Napoleone: l’esercito si ritirerà e lascerà avanzare i francesi fino a Mosca (la capitale al tempo era Pietroburgo, ma Mosca rimaneva il simbolo e il cuore della Russia). Questa decisione apparentemente folle si reggeva sul calcolo lungimirante del generale: i francesi avanzavano ma con loro anche l’inverno; Napoleone sarebbe entrato a Mosca nel cuore del gelo russo, lì non avrebbe trovato rifornimenti vicini e adeguati, tutto sarebbe stato distrutto dall’incendio che gli stessi moscoviti appiccarono nel 1812 a Mosca e Napoleone, stremato dalla fame e dal freddo avrebbe dovuto per forza maggiore ritirarsi. Così avvenne, Napoleone perse la guerra e con essa metà del suo esercito.

Pierre assiste a questa battaglia, si accorge dei movimenti delle truppe, viene trascinato a Mosca. Napoleone, appena prima di ritirarsi, arresta Pierre con l’accusa di essere uno degli incendiari e lo chiude nelle prigioni insieme ai contadini soldati. Qui Pierre incontra Platon Karataev, vicino di “pavimento”; Platon è un semplice contadino, si accorge che Pierre non è un suo pari, che è stato catturato in modo anomalo e ha verso di lui parole semplici che arrivano al cuore di Pierre. Mentre parla, disfa un cartoccio che conteneva una patata e ne offre a Pierre la metà. Pierre è abituato a ben altri banchetti ma, piegato dalla fame e conquistato dalla generosità del gesto del contadino, trova quella patata il cibo più buono della terra.

Pierre ha perso tutto, privilegi, libertà, rispetto; incontra Karataev che non solo capisce subito la sua condizione ma rinuncia per lui a metà del suo pranzo: la storia di Pierre non sarà più la stessa da questo momento. La svolta nella storia del nobile viene firmata da un contadino che gli insegna un nuovo modo di concepire la vita. Platon è l’asse attorno al quale cambia la sostanza etica del romanzo. Tolstoj dice di lui:  “parlava in modo semplice, i suoi proverbi erano pieni di saggezza popolare… diceva cose opposte, spesso una dopo l’altra…”

 

 

Qui vorrei fare un salto e legare a questo che stiamo dicendo un discorso avvenuto tra Massimo Cacciari e il Cardinal Martini sulla solidarietà

Ad un certo punto del dibattito Martini, ragionando sulla sofferenza, attribuisce l’origine della solidarietà al sentimento della compassione: nella parabola del buon samaritano c’è un momento in cui si prova nei confronti del ferito una compassione tale da attivare la solidarietà.

Cacciari ribatte affermando che la capacità di comprendere l’altro non può esaurirsi nel sentimento spontaneo della compassione; si deve fare riferimento al tema più ampio che riguarda il rapporto con l’altro: perché l’altro ci deve riguardare?

Cacciari prescinde dal dettato cristiano, cerca di scoprire fino a che punto l’altro è dentro all’uomo e qui riprendo il gesto di Platon Karataev: l’altro lo riguarda immediatamente e l’asse del romanzo si piega attorno al contadino perché è lui che fa in modo di rivelare a Pierre che l’uomo riguarda l’uomo anche senza che ci sia un rapporto prestabilito.

Pierre è abituato fino a quel momento ad avere rapporti formali, un tipo di rapporto totalmente diverso dal senso di prossimità nuda e cruda che gli trasmette Platon. La questione tra Cacciari e Martini è dunque una questione che riguarda l’uomo da sempre. Cacciari afferma: “In me c’è una società di individui” e Platon, con la coscienza di avere a fianco qualcuno, cede la sua mezza patata.

Cacciari fa un altro riferimento: in greco il termine idiota deriva da “idios” che significa “privato, proprio”; gli idioti sono pertanto gli individui a sé, “privati”, che non sono abitati dagli altri. Bisogna pertanto combattere l’idiozia, quel movimento centripeto che stacca gli uomini dagli uomini.

Tornando a Pierre: la vicinanza di Platon trasforma Pierre ma non subito e non completamente. Una volta in fila, sotto i fucili dell’esercito francese, Platon rallenta il passo, stremato dal freddo e dalla fame; Pierre non ha il coraggio di voltarsi a guardare mentre Platon viene ucciso. Spesso è più forte l’istinto di autoconservazione; questo episodio però contribuirà a far sì che Pierre interiorizzi dolorosamente e per sempre il messaggio di Platon, tant’è che quando Pierre fa ritorno a Mosca cambierà radicalmente la sua vita. Tolstoj reintegra Pierre nel ruolo di grande magnate nel seguito del romanzo; non lo trasforma in un povero stupido ma gli consegna la consapevolezza delle leve che lo rendevano arrogante.

Come Levine, anche Pierre si domanda quale sia il senso dell’esistenza; di Pierre si dice: “Non aveva uno scopo perché aveva una fede”. Nella prigionia Pierre conosce qualcuno che, come la sua bambinaia da piccolo, gli racconta, con la semplicità dei gesti, che Dio è dappertutto. Perché Platon mi ha dato la patata? Perché esistono gli altri! Gli occhi di Platon hanno insegnato a Pierre a rispondere alla domanda che Cacciari e Martini si fanno nel nostro secolo e la risposta è “l’Altro”.

 

 

I fratelli Karamazov

Anche in Dostoevskij troviamo dei riferimenti all’importanza dell’altro per l’uomo; concentriamoci sulla storia raccontata dal Monaco presso cui va a svolgere l’apprendistato il fratello minore della famiglia Karamazov. Il Monaco, prima di morire, chiama il giovane perché ascolti un racconto, la storia del “visitatore sconosciuto”.

Zosima prima di diventare monaco era un militare con la fama di essere un uomo molto giusto; durante una sera qualunque riceve la visita di uno sconosciuto che gli racconta la sua vita: si era innamorato di una donna che lo rifiutava e lui l’aveva uccisa. Di questo omicidio fu incolpato un servo, poi processato e condannato (muore durante il processo). Il colpevole intanto vive la sua vita, si sposa, ha dei figli, ma il delitto non gli dà pace; quella sera parla con l’ufficiale della colpa, un peso inaccettabile. Dice che vuole denunciarsi, sperando nella liberazione dal peso attraverso l’assunzione delle proprie responsabilità. Il monaco parla del tema della fratellanza con il prossimo e afferma: “il mondo cambierà quando finirà l’isolamento umano”.

Per isolamento umano il monaco intende l’arroganza dell’uomo di voler sperimentare in sé la pienezza della vita; e aggiunge: “la sicurezza è nella solidarietà umana”. Qui ritorna a proposito il discorso tra Cacciari e Martini: l’uomo accumula e separa e non si accorge di quanto la sua contentezza per il possesso sia vuota. Dostoevskij fa questo discorso nel 1880: l’isolamento è praticato per nascondere l’io colpevole; per morire serenamente il visitatore deve costruire un ponte con cui comunicare con gli altri e poter essere se stesso.

 

Tre morti

Anche in questo racconto di Tolstoj, racconto sotto forma di parabola (all’autore piacevano così tanto i vangeli che ne riscrisse una versione sua), si parla del senso della vita.

Vengono raccontati qui tre modi di morire:

Ciò che dice Tolstoj in merito è che la morte più felice è quella che è in armonia con ciò che ci circonda, parla di quella morte che rispetta un ciclo.

 

In Anna Karenina c’è un passaggio fondamentale: Levine parla con dei contadini per concludere un affare con loro.

Levine: “Come mai “x” ci guadagna?”

Contadino: “Non ci guadagna, si comporta da uomo”.

Levine: “Essere uomo vuol dire non guadagnarci?”

Contadino: “La gente non è tutta uguale; uno vive per il bisogno, l’altro è un vecchio vero, vive per l’anima e si ricorda di Dio”.

Levine riflette sul’argomentazione del contadino; il contadino afferma che uno dei due vive per la pancia e questo è ragionevole e comprensibile; ma l’altro vive per la verità. Tutti possono capire il valore di questo modo di intendere la vita; per cosa si debba vivere tutti lo sanno.

Vivere per l’anima, è questo che Levine capisce e dice “ho scoperto quello che sapevo”. Non è la ragione, amare il prossimo è contro la ragione; ma ciò che il dogma della Chiesa non comprende lo comprende la fede: la vita non è irreggimentabile in un dogma e a tutti è possibile capire e comporre l’anima nello spazio dell’infinito, non in una volta rotonda. Levine ricompone i pezzi della sua strada attraverso la fiducia che è insita nelle parole del contadino, parole che si rifanno all’ordine etico, diverso dai processi della ragione che hanno tormentato Levine negli anni.

La mezza patata e le parole del contadino parlano di un seme che è nell’uomo, il seme della presenza dell’altro, un seme che non viene mai distrutto completamente.

 

 

A questo punto della giornata si chiede al gruppo di esprimersi circa gli stimoli forniti dal professor Malcovati.

Aparo fa una premessa: i temi affrontati oggi sono di grande portata, si è fatto riferimento al senso della vita e alla capacità dell’uomo di rinnovarsi nonostante le vicende dolorose della storia. Da parte mia, aggiungo che l’uomo non può allargare seriamente gli orizzonti della propria mente fino a quando rifiuta di fare i conti con la propria inclinazione alla mediocrità.

Mario: mi è rimasta impressa la vicenda di Pierre e Karataev; come fa il primo a non voltarsi quando viene ucciso Platon? Un altro passaggio che ho trovato interessante è quello in cui parla il contadino di Levine della questione “pancia/anima”: il motivo per cui viviamo è difficile da tenere a mente sempre; io me lo chiedo spesso e francamente non ho una risposta chiara.

Giuseppe: sulla mezza patata che Karataev regala a Pierre ho da dire che forse Pierre non si rende conto subito della portata del gesto, forse ne afferra il significato solo quando Platon muore; questa è la nostra storia, spesso non basta una carcerazione per capire cosa non abbiamo saputo fare della nostra vita.

Paolo S: ad Anna che abbandona la sua famiglia collego il tema della fragilità che spesso trattiamo al gruppo; Anna lascia la sua famiglia un po’ per debolezza e un po’ per narcisismo. Nei diversi personaggi colgo che la seduzione del potere fa perdere il contatto tra le persone. Più hai potere, più lo brami, più aumenta la tua fragilità. Anche nella storia che viene raccontata al Monaco dal visitatore sconosciuto vedo questa dinamica:  il potere ti allontana da te stesso.

Elena: mi chiedo fino a che punto in tanti ambiti si parla autenticamente di solidarietà.  Si è convinti di saperla praticare, ma tante volte sembra una maschera anche se inconsapevole. Cosa ci impedisce di vedere la nostra ipocrisia? Mi hanno colpito le parole di Mario. Io le riformulo così: ogni giorno posso dare un senso a quello che sto facendo e lo cerco nella concretezza di quello verso cui le mie mani si adoperano.

Paolo B: è difficile fondere i due modi che di vivere che il contadino spiega a Levine (pancia e anima).

Francesco: Elena è sempre molto misurata in quello che dice. La senti oggi la solidarietà in quello che stiamo facendo insieme? A me è rimasto impresso l’episodio dell’assassino che confessa a posteriori il suo delitto. Io oggi capisco che la mia vita ha un senso, per gli studi che faccio con il gruppo, perché ho un posto nel gruppo; domani non so come la penserò. Tutti hanno parlato di Pierre che non si volta quando Platon viene ucciso: nell’uomo c’è sempre un pezzetto di vigliaccheria e penso che vada ripreso uno dei nostri temi importanti che è il pensiero vigliacco.

Silvia: a me è rimasta impressa l’etimologia della parola idiota. Mi piace il discorso che Cacciari fa sull’avere dentro una società, un parlamento, come a me piace chiamarlo. A volte nel mio parlamento le cose non vanno troppo democraticamente, i colpi di Stato prendono lo spazio delle votazioni democratiche e io me ne rendo conto quando ormai Mosca è già stata ridotta in fiamme.

Vincenzo: mi rimane impresso Levine e l’afflizione che prova nel non avere niente in cui riporre fiducia.

Chiara: sulla questione di mettere da parte la ragione per rispondere alla domanda sul senso della vita, la soluzione di mettere al bando l’intelletto mi spaventa. Io credo che sia il percorso della persona che giunge al compromesso con il mondo che fa sentire all’uomo di far parte di un tutto (il ponte tra l’io colpevole e l’altro).

Nicola: mi hanno colpito le parole di Mario; il gruppo parla e io mi accorgo di prendere qualcosa un po’ da tutti. Quando si è parlato di idiozia ho pensato alla mia vita; è solo quando si è alle strette che ci si accorge della propria idiozia; per questo la linea della solidarietà tra gli uomini è profonda e sottile.

Ivano: mi ha colpito la morte dell’albero come morte in armonia con quello che ti sta intorno.

Nuccio: mi è venuto in mente Foscolo e i suoi sepolcri; l’albero lascia qualcosa alla vita che sta intorno a lui, io vorrei lasciare qualcosa di buono al mondo perché ho cominciato un cammino e adesso sento che ho qualcosa da dare agli altri. Sulla solidarietà: io penso che nessun uomo possa dire che non ha bisogno degli altri per vivere. Napoleone, pensando così, si è sbagliato di grosso.

Jan:  noi ci diamo delle risposte sul senso della vita che ogni giorno risentono delle condizioni che viviamo.

Aparo: direi che il senso di colpa può essere vissuto come centripeto o come propulsivo. Il peso della colpa può portare all’isolamento, quando il ricordo della colpa ti spossa nella solitudine della notte e ti lascia senza forze per le relazioni del giorno; ma la coscienza della colpa può portare a rinnovarsi e a praticare nuove vie e nuove relazioni sulle quali spendersi.

Gianpietro: mi è venuto in mente quando Nicola ha offerto la coppa piacentina di sua madre al gruppo che aveva lavorato tutta la mattina insieme; anziché mangiarsela da solo l’ha gustata insieme ai compagni di cordata. E verso Malcovati: hai parlato in maniera davvero nutriente…

Io sento la religiosità che pervade tutta la letteratura russa; la fede non è irreggimentabile nei riti e, a questo proposito, mi viene in mente la frase di un romanzo “Dio ha bisogno degli uomini”, in cui il prete diceva ad un certo punto: “Signore toglimi la religione ma lasciami la fede”. La vita che ha a che fare con la considerazione dell’altro: “una persona è una persona attraverso altre persone”.

Secondo: è da due anni che aspetto il professor Malcovati! Mi ha colpito il discorso dell’idiota e ho pensato a un tema che si è trattato al gruppo e che riguarda la maschera.

Malcovati: sulla questione della viltà di Pierre nei confronti di Karataev ho da dire che tutti gli uomini si difendono dal fantasma della morte; essere coraggiosi è spesso molto difficile. Io sono grato alle persone che comprendono il senso della viltà, ad essa si giunge per aver perso una battaglia cruenta dentro di sé. La viltà è anche quella di chi non confessa il suo delitto, ma l’uomo è anche questo: quello che si prende le sue responsabilità e quello che non riesce.

Sulla solidarietà: è più facile parlarne che essere solidali, io se ho una patata e giorni di digiuno davanti non so come mi comporto… mi sono trovato in situazioni in cui ho fatto io stesso una grande fatica a comprendere l’altro e non so ancora se ci sono riuscito fino in fondo. A parole l’altro mi riguarda, ma so anche quanto umanamente faticoso sia da mettere in pratica. La domanda però dobbiamo porcela sempre, anche quando non riusciamo ad esserne all’altezza, anche con le nostre mediocrità. La lotta per la responsabilità è durissima, non si vince una volta per sempre, la questione va riverificata minuto dopo minuto. Lo stesso Levine con la moglie non riesce ad avere un rapporto sereno, una comunicazione gratificante; e Tolstoj fa dire a Levine che dobbiamo verificare di aver davvero capito nel confronto con un contadino (una via meno mediata dalla pressione della ragione e dall’abilità di trovare delle scuse).

Aparo: io penso che si debba imparare a coltivare gli stati d’animo interni, le relazioni e le condizioni ambientali che rendono più probabile le risposte centrifughe rispetto a quelle idiote; confidare nel fatto che la questione possa essere risolta una volta per tutte mi sembra un azzardo… un po’ idiota.

 

 

(Da www.wikipedia.org)

Lev Nikolaevi? Tolstoj  Poljana, 28 agosto 1828 – Astapovo, 7 novembre 1910) è stato uno scrittore, drammaturgo e filosofo russo.

Tolstoj nacque in provincia di Š?ëkino (vicino a Tula). Perse la madre, la principessa Volkonskaja, quando aveva appena due anni. Anche il padre apparteneva all'antica nobiltà russa: un antenato, il principe Petr Tolstoj, era stato uno stretto collaboratore di Pietro il Grande.

 

Guerra e pace

In sette anni portò a termine Guerra e pace (1863-1869). La scelta di un tema storico, di fatti avvenuti cinquant'anni prima, non era un rifiuto a partecipare ai dibattiti sulle "grandi riforme", sullo scontro tra liberali e conservatori, sui primi attentati terroristici (o anarchici come allora venivano chiamati), anzi era una risposta proprio a quei dibattiti, agli attacchi dei democratici contro la struttura nobiliare, alla campagna per l'emancipazione della donna.

Molte delle nuove idee furono accolte da Tolstoj con scetticismo. Il suo ideale era una società "buona" e patriarcale, era la purezza della vita secondo natura. In Guerra e pace Tolstoj affrontò questioni fondamentali di carattere storico-filosofico, come il ruolo del popolo e dell'individuo nei grandi avvenimenti storici.

Due sono le date entro cui scorrono gli avvenimenti: il 1805, anno della prima, sfortunata campagna contro Napoleone che si chiude con la sconfitta di Austerlitz, e il 1812, anno della gloriosa guerra in patria che vede insorgere tutto il popolo russo in difesa del territorio nazionale. E se l'ambiente sociale in cui si muovono i protagonisti è l'alta nobiltà moscovita e pietroburghese, il sostrato autentico verso cui tendono è il popolo, la nazione contadina, per lo più passiva, ma che nei momenti cruciali riesce a imporre la propria volontà. Nel ritrarre la nobiltà Tolstoj non nasconde il proprio rifiuto, la propria intransigenza: pone da un lato il clan dei depravati Kuraghin, malvagi portatori di male, di corruzione, e dall'altro i Rostov, serena immagine di una classe in declino, incapace di gestirsi economicamente ma portatrice di valori ancora accettabili. Su questo sfondo si stagliano i tre protagonisti, il cui cammino spirituale sovrasta quelli di tutti gli altri personaggi: il principe Andrej Bolkonskij, fin dalle prime pagine in polemica con la società salottiera pietroburghese, è attratto dal sogno di gloria di un atto eroico (battaglia di Austerlitz), passa poi attraverso stadi di scetticismo e di indifferenza per rinascere alla vita attraverso l'amore per Natasha. La sua morte è un doloroso processo di illuminazione ed elevazione spirituale, simile a quello di Ivan Il'ic.

Anche Pierre Bezuchov entra nel romanzo contestando le idee dei nobili vicini alla corte: ma, personaggio più sensuale di Andrej, viene inizialmente attratto dai falsi valori impersonati dai Kuraghin, che lo spingono a stravizi e a un matrimonio senza amore con la bellissima Hélène, sorella del fatuo e corrotto Anatolij. Il desiderio di autoperfezionamento lo spinge verso la massoneria, ma la maturazione profonda avviene a contatto con il popolo di soldati-contadini durante la prigionia e soprattutto attraverso l'incontro con Karataev, l'uomo giusto per eccellenza. Pierre incarna il vero, profondo tema universale del romanzo (affine in questo a Levin di Anna Karenina e a Nechljudov di Resurrezione): il tema dell'eterna ricerca, del continuo conflitto tra la realtà esterna, storica, e l'individuo che tende alla purificazione interiore.

 

Anna Karenina

Il romanzo successivo, Anna Karenina (1873-1877), è un'opera aggressiva e polemica, che affronta gran parte dei problemi sociali di quegli anni. L'azione del romanzo si svolge in un ambiente che Tolstoj conosceva perfettamente: l'alta società della capitale. Tolstoj denuncia tutte le segrete motivazioni dei comportamenti dei personaggi, le loro ipocrisie e le loro convenzioni, e forse, quasi senza volerlo, mette sotto accusa non Anna, colpevole di aver tradito il marito, ma la società, colpevole di averla spinta al suicidio.

La forza di Tolstoj artista si identificava con la potenza di Tolstoj moralista, il quale toglieva a chiunque l'arbitrio di giudicare, perché solo Dio può giudicare, come è detto nelle bibliche parole dell'epigrafe: "A me la vendetta, io farò ragione". Anna Karenina è l'antecedente di tutta una serie di romanzi del XX secolo, costruiti secondo i principi della psicoanalisi.

In molti punti il romanzo è autobiografico: nel personaggio di Levin, dedito alla conduzione delle proprie terre e alla famiglia, Tolstoj rappresenta se stesso, mentre in alcuni splendidi personaggi femminili (non in Anna) sono riconoscibili certi tratti della moglie, che peraltro aiutò Tolstoj nella stesura dell'opera, consigliandolo su come far procedere la trama.