PSICOLOGIA E REGIME CARCERARIO

LA PENA, IL REATO, IL REO E IL PROBLEMA

DELLA RIABILITAZIONE-RIEDUCAZIONE

 

Grazia Arena

Dicembre 2000 da www.psicologiaforense.it

Questo lavoro, nelle due parti distinte di cui si compone, intende proporre  una riflessione sul contesto teorico e operativo in cui si muove lo psicologo penitenziario e sui vissuti che caratterizzano la sua professionalità e, al tempo stesso, fornire un contributo metodologico sul problema centrale dell’Istituzione carceraria, quello della riabilitazione-rieducazione del detenuto.

 

 

Parte prima

 

Il punto di partenza dal quale non si può prescindere verte essenzialmente su tre insiemi concettuali. Il primo, costituito dal sistema di credenze, fa riferimento alla filosofia della pena; il secondo si riferisce al sistema legislativo vigente; il terzo è costituito dal sistema penitenziario (le caratteristiche del carcere in quanto istituzione).

 

 

Il sistema di credenze: la filosofia della pena

In ogni epoca e in ogni società si è cercato di combattere, di contenere, di reprimere il fenomeno della delinquenza, cioè i comportamenti e le condotte lesivi dell’integrità personale e dei principi fondamentali delle singole culture, in quanto è fine precipuo di ogni sistema sociale assicurare, attraverso l’osservanza delle leggi, il mantenimento della sicurezza dei singoli individui nonché dei valori portanti della società stessa.

Lo scopo di assicurare l’osservanza delle leggi che regolano il vivere sociale è stato ed è ancor oggi perseguito utilizzando differenti strumenti e sistemi di controllo. Il principale tra gli strumenti di controllo sociale anticriminoso è sempre stato e continua ad essere quello delle sanzioni penali. In ogni caso “tra sistema penale e sistema extra-penale di controllo sociale esiste un rapporto di proporzione inversa: quanto più si attenuano i meccanismi di controllo extra-penali tanto più si è costretti ad affidare la difesa contro il crimine all’inasprimento del sistema penale” (Mantovani F. 1984).

La pena, è comunque intesa come un “irrinunciabile strumento di controllo sociale, non essendo possibile, senza il ricorso ad essa, organizzare, gestire, far funzionare qualsiasi tipo di società. Questa affermazione, che può suonare ostica alle orecchie di alcuni, è solo frutto di concreto realismo, che nulla concede a tentazioni di eccessiva repressività” (Ponti G.1991). Si è assistito, nel succedersi storico delle varie culture, a un continuo mutare delle concrete modalità secondo le quali la pena viene esercitata, oltre che della indicazione di quali sono le condotte meritevoli di sanzioni penali.

Può ritenersi che nella cultura europea pre-illuministica i fini della pena fossero quelli antichi della legge del taglione e della vendetta. L’intento vendicativo era dunque primario e, per quanto attiene i mezzi, il principio basilare fu quello di reprimere, di vendicare, attraverso la sofferenza fisica del reo in proporzione al male commesso e di dar pubblica testimonianza della sua sofferenza, affinché servisse di esempio intimidativo per tutti. La morte del colpevole era impiegata in modo massiccio e si adottavano svariate modalità di supplizio, graduate nella durata e nella crudeltà in funzione dei delitti e della posizione sociale del reo. La cerimonia del supplizio poteva durare diversi giorni e sempre costituiva spettacolo e pubblica ammonizione. Secondo una gerarchia di gravità dei delitti, reati ritenuti meno gravi prevedevano sofferenze corporali non mortali: mutilazioni o amputazioni (classico era il taglio della mano ai ladri), accecamento, fustigazione. Venivano però usate anche pene patrimoniali, era in uso anche la carcerazione, seppur con modalità estremamente variabili spesso con durata indeterminata. Non fu ignota nel passato la detenzione domiciliare (si pensi all’imposizione subita da Galileo, da parte della Santa Inquisizione, di risiedere  negli ultimi anni della sua vita ad Arcetri, senza potersene allontanare) e furono frequenti la riduzione in schiavitù, i lavori forzati o la deportazione in luoghi lontani.

Nel secolo XIX si verifica un rapido mutare degli strumenti punitivi. In primo luogo, per l’influenza delle idee illuministiche, si generalizza in Europa la redazione di codici penali e di procedura penale la cui osservanza è imposta come principio fondamentale e la cui validità è universale. La politica criminale trova in  Cesare Beccaria il traduttore di quei principi illuministici in materia penale che saranno il vanto dell’illuminismo e della tradizione liberale italiana “......perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi.” (Beccaria C., 1764 ). Questo passo che conclude il trattato “Dei delitti e delle pene” scritto da Cesare Beccaria nel 1746, esprime in modo chiaro il movimento di pensiero, nel quale confluisce tutta la filosofia politica dell’illuminismo europeo, e segna l'inizio di quello che già può considerarsi un nuovo approccio ai problemi della pena, anticipatorio dei futuri interessi criminologici. I principi dell'illuminismo andarono poi strutturandosi e articolandosi nella Scuola Classica del diritto penale, che per quasi un secolo caratterizzò il pensiero penalistico. Tale scuola    ferma la propria attenzione sui presupposti razionali della punibilità contro l’arbitrio e la crudeltà dell’epoca. Muovendo dal presupposto del libero arbitrio, cioè dell’uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, essa pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale movente del male commesso e conseguentemente la funzione etico-retributiva della pena. L’espressione più coerente fu il codice Zanardelli del 1889 che, in un certo senso, succedette al codice napoleonico nella funzione ispiratrice della legislazione penale.

La concezione del reato quale astratta entità di diritto, tipica della Scuola Classica, incominciò ad essere messa in crisi, verso la metà del XIX secolo, dai primi studi statistici utilizzati per l’analisi dei fenomeni criminosi: questi studi, che già possiamo chiamare sociologici, prestarono attenzione anche all’ambiente sociale in cui l’individuo agisce, mentre prima l’azione delittuosa veniva considerata come compiuta da un individuo isolato dal contesto. Il reato venne così, per la prima volta, ad assumere anche il significato di espressione della società, e non più solo attribuibile alla volontà del singolo. Il reato venne visto come “fatto sociale” secondo la concezione di E. Durkheim ( 1858-1917 )  “rappresentava qualunque sistema o fenomeno che fosse generale in tutte le società di un tipo particolare, a un particolare stadio del loro sviluppo”. Anche il delitto costituiva parte integrante della società e non più solo una occasionale aberrazione di certi individui; pertanto il delitto non poteva essere eliminato, anche se era modificabile, nella qualità e nell’espressione, con il mutare del contesto sociale. Nello stesso secolo che vide l'inizio del filone sociologico della criminologia, Cesare Lombroso (1835-1909 ) può a ben diritto considerarsi come il pioniere di un indirizzo di studi basato sulla persona, sino ad allora trascurata. Scriveva Lombroso: “Ho voluto accumulare tutte queste prove di un fatto, che è pur tuttavia, così evidente, perché in esso sta proprio il nucleo di tutta la mia teoria: senza tipo criminale, infatti non v’ha criminale-nato: senza criminale-nato non v’è antropologia criminale. Perciò gli è strano vedere alcuni darsi aria di cultori di antropologia criminale mentre ne negano poi il tipo! Si potrebbe paragonarli ad un fisiologo che non credesse all’anatomia, o ad un pittore che non ammettesse il disegno!” (1897 ).

Saldamente ancorato ai principi e alla filosofia delle scienze naturali dominanti nella sua epoca (evoluzionismo di Darwin, positivismo scientifico, aspettative fideistiche nella scienza e nel progresso come destinati a risolvere ogni problema dell'umanità), Lombroso focalizzò i suoi studi sulla persona del delinquente e sulle componenti ritenute morbose nella sua condotta: ciò rappresentò una svolta importante nei confronti di una concezione meramente legale, morale o sociale del delitto. Valutata con criteri strettamente critici e misurata con metodi più moderni, la maggior parte delle sue indagini è ora priva di valore scientifico; ciò nonostante a Lombroso va l’indiscusso merito di avere per primo impiegato i metodi della ricerca biologica per lo studio dell’uomo autore di reato; di aver fatto convergere l'interesse delle scienze penalistiche, sulla personalità del reo; ...di avere infine per primo dato avvio a un indirizzo di indagine organica e sistematica nello studio della delinquenza (la Scuola di Antropologia Criminale). Le teorie lombrosiane  costituirono la base di un nuovo orientamento giuridico-crimimologico che prese il nome di Scuola Positiva, a sottolineare la fedeltà al metodo scientifico in contrapposizione a quello del pensiero giuridico-deduttivo a cui conferì la Scuola Classica: i dati dell'osservazione empirica  dovevano costituire l’unico punto di partenza per interpretare i fatti delittuosi e proporne i rimedi.

Sinteticamente, la Scuola Positiva considerava il delitto come determinato da predisposizione individuale e favorito da fattori sociali. La pena, quindi, aveva come fine quello di ottenere il controllo delle tendenze antisociali considerando più la tipologia personologica che il genere di reato commesso. Cardine di ogni misura penale era la “pericolosità” del soggetto sia attuale che pregressa o potenziale insita nel comportamento. Così si espresse Enrico Ferri: “Le sanzioni difensive adottate nei riguardi del criminale  devono essere dettate non dalla natura e gravità dell’atto compiuto, ma dal di lui potenziale aggressivo individuale”. Conseguentemente le pene, essendo correlate al delitto, erano prefissate nella loro gravità e durata, le misure di difesa sociale non potevano che essere indeterminate e destinate a durare fintanto che non venisse meno la pericolosità.

Molto importanti furono le influenze della Scuola Positiva sul diritto penale e sulla criminologia, anche se codici totalmente ispirati ai principi sovra esposti non furono mai applicati nei paesi occidentali, tuttavia, la concezione positivista portò comunque all'introduzione, in molti sistemi giuridici, del principio secondo il quale andava tenuto conto, nell’irrogare condanne penali, anche le potenzialità del reo. Ciò si è realizzato secondo due principi:

 

Il pensiero della Scuola Positiva  ha inoltre, seppur in parte, contribuito ad ispirare l'attuale problema di politica penale, consistente nel tentativo di far coesistere la valutazione dei delitti, l’approccio all’individuo, la diversificazione delle sanzioni, la rieducazione, con la salvaguardia dei diritti della difesa, del principio di legalità e della certezza del diritto. In sintesi, una fusione tra i principi maggiormente validi della Scuola Classica e della Scuola   Positiva.

Seguendo lo sviluppo delle linee di tendenza della filosofia della pena e del pensiero criminologico, l’elemento di autentica innovazione verificatosi all’inizio del nostro secolo è rappresentato dal superamento della concezione classica della pena, e dall’introduzione del principio del “trattamento rieducativo e risocializzativo del reo”.

Nel campo penalistico, il decreto del 19 ottobre 1930 n.1398 approva il codice penale Rocco che, sfruttando un discutibile compromesso fra scuola positiva e quella classica, crea un sistema penale di maggiore severità. In questo indirizzo vengono imposte le “norme di vita carceraria” che devono essere idonee a emendare il condannato mantenendo tuttavia alla pena il suo carattere afflittivo ed intimidatorio. Il codice Rocco introduce anche il sistema del “doppio binario”, ancora presente nell’ordinamento penale italiano; oltre alle vere e proprie pene, sanzioni detentive e pecuniarie, collegate ad un fatto costituente reato, sono previste le misure di sicurezza comminate dal giudice in base alla pericolosità del soggetto. Nascono così, sotto il profilo penitenziario, oltre le vere e proprie carceri, gli istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza (case di lavoro, colonia agricola e gli ospedali psichiatrici giudiziari). Il movimento per la riforma dell’ordinamento penitenziario iniziò ufficialmente, in sede governativa, con la nomina di una commissione ministeriale avvenuta nel 1947.

Si moltiplicavano intanto le iniziative di studio, fra i quali ricordiamo quelli condotti da una commissione creata nell’ambito del Centro nazionale di prevenzione e di difesa sociale di Milano. Dopo una lunga fase di lavori, il Parlamento fu finalmente investito dell’esame di un disegno di legge sull’ordinamento penitenziario. Questo disegno di legge conglobava anche la materia concernente la prevenzione della delinquenza minorile, nella prospettiva di riforma della legge istitutiva del Tribunale per i minorenni del 1934. In questa lunga evoluzione storica la legge del 1975 segna un fatto assolutamente nuovo. Per la prima volta, infatti, la materia che attiene agli aspetti applicativi delle misure penali viene regolata con legge. Nell’Italia post-unitaria il settore penitenziario era stato regolato da una serie di disposizioni particolari e dal regolamento generale per le case di pena del 1891. 

 

 

Il sistema legislativo

 

Le fondamentali linee di tendenza della politica penale quali descritte finora, hanno trovato eco anche in Italia. Il momento più significativo nel recepire il principio del trattamento carcerario deve essere considerato quello dell’entrata in vigore della Legge del 26 luglio 1975, n° 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. L’ideologia e i principi della riforma non sono mai stati smentiti, ma estesi nelle concrete realizzazioni dalle successive modifiche alla citata legge, in particolare con la Legge del 10 ottobre 1986 : “Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. E’ da precisare che l’ordinamento penitenziario ha in sé tre differenti contenuti:

 

 

La nuova organizzazione carceraria, in sostanza, dovrebbe rispondere al principio di umanizzazione della pena, garantire il rispetto della personalità del detenuto, e tutelarne i diritti. Prevede, inoltre, le norme relative al vestiario, all’igiene personale, garantisce il servizio sanitario e l’assistenza psichiatrica. Sancisce inoltre le modalità di colloquio con congiunti ed altre persone, garantisce la segretezza della corrispondenza regolamenta il lavoro ed il pagamento dello stesso. Incentiva l’azione rieducativa e risocializzativa attraverso la possibilità di aderire a differenti iniziative e corsi (attività sportive, laboratori artigianali, corsi differenziati, iniziative scolastiche, artistiche ed umaniste). E’ poi regolamentato il sistema disciplinare  con ricompense (encomio, visite premio) e con sanzioni (richiami, ammonizioni, esclusione dalle attività, isolamento). Contro queste ultime è previsto anche il diritto di reclamo agli organi amministrativi del Ministero di Grazia e Giustizia, al magistrato di sorveglianza e ad altre autorità.

Le finalità trattamentali si focalizzano sul principio della individualizzazione del trattamento sancite dagli articoli contenuti nell’ordinamento stesso:

art.1: di carattere generale, sottolinea sia il genere “rieducativo del trattamento che tenda al reinserimento sociale”, sia la “individualizzazione del trattamento in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.

art.13: in esso viene “predisposta la osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale”.…. “in base ai risultati della osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma”.

art.15: circa gli elementi del trattamento la legge è generica:  “…è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive ed agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. Si può cogliere  che non ci sono accenni diretti all'opera dello psicologo, al quale poi però viene chiesto ( artt. 71 e 80 ) di svolgere una specifica attività e di fornire delle relazioni in merito.

art.16: le modalità del trattamento da seguire, in ciascun istituto, sono disciplinate dal regolamento interno, che è predisposto e modificato da una commissione composta dal magistrato di sorveglianza, dal direttore, dall'educatore, dall'assistente sociale. L’art.16, inoltre, precisa che la équipe per il trattamento dei detenuti può avvalersi degli esperti indicati nel 4° comma dell'art.80, in cui si parla tra l’altro, come vedremo di “professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.”

L’ordinamento penitenziario, così come riformato dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, al riguardo così prevede circa le misure alternative alla detenzione:

art. 47: “il provvedimento di affidamento in prova al servizio sociale è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta per almeno un mese in Istituto” e qualora non sussista pericolo che il soggetto compia altri reati.

art.50:  “l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel trattamento  quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”.

art.80: “per lo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica”.

La circolare istitutiva del servizio Nuovi Giunti (N° 3233/5683 del 30/12/87) istituisce, nel quadro della prassi d’accoglimento  dei detenuti “nuovi giunti”, un servizio quotidiano destinato a prevenire i casi di suicidio e di altri casi di violenza, autodiretti e eterodiretti. Tale incarico viene attribuito ai cosiddetti “esperti” in criminologia e psicologia (previsti dalla L.354), con l’obiettivo di conoscere e controllare quei fenomeni di violenza, soprattutto autodiretta che sono sempre esistiti in ambito detentivo, ma il più delle volte ignorati o taciuti: prevenirli attraverso l'accertamento di situazioni personali di fragilità fisica e psichica e la collocazione di questi casi in un reparto  “a rischio”, con particolare sorveglianza e protezione.

Da quanto esposto risulta evidente la posizione del tutto consultiva e facoltativa dello psicologo, al quale poi però verrà chiesto di occuparsi del trattamento e di esprimersi in merito. Ma di questo tratteremo nella seconda parte di questo lavoro.

Il regolamento di esecuzione contiene, del resto, elementi interessanti circa l’attività e l’impiego degli psicologi:

art.1:  “il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. Il trattamento rieducativo... è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale”.

art.4:  “gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di interazione e di collaborazione. A tal fine, gli istituti penitenziari e i Centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, costituiscono un complesso operativo unitario, i cui programmi sono organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale”.

art.27: “l’osservazione scientifica della personalità è diretta all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio alla instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini dell’osservazione si provvede all'acquisizione di dati biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. All’inizio della esecuzione l’osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o dell’internato, a desumerne elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento. Nel corso del trattamento l’osservazione è rivolta ad accertare, attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento”:

art.28:  “la osservazione scientifica della personalità è espletata, di regola, presso gli stessi istituti dove si eseguono le pene e le misure di sicurezza. Quando si ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti, i soggetti da osservare sono assegnati, su motivata proposta della direzione, ai centri di osservazione. L’osservazione è condotta da personale dipendente dall'amministrazione, e secondo le occorrenze, anche dai professionisti indicati ...omissis ... Le attività di osservazione  si svolgono sotto la responsabilità del direttore dell’istituto e sono dal medesimo coordinate”.

art.29: “la compilazione del programma di trattamento è effettuata da un gruppo presieduto dal direttore e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione indicate”.

In questi ultimi articoli,28 e 29, l’osservazione della personalità viene implicitamente demandata agli esperti che collaborano poi al programma di trattamento del detenuto. La più evidente ed immediata osservazione è pertanto quella che riguarda la natura facoltativa ed accessoria dell’inserimento degli psicologi, confermata dal fatto che questi ultimi operatori non hanno ruoli e funzioni precise, come invece le hanno tutti gli altri operatori penitenziari. Prova ne é che non ne sono previste attribuzioni, come lo sono invece, per gli assistenti sociali (art.81) e per gli educatori (art.82), i quali sono regolarmente inquadrati nei ruoli del Ministero di Grazia e Giustizia.

 

 

Il sistema penitenziario

 

A questo punto possiamo chiederci: ma cos’è un istituto penitenziario?

La domanda, in questo contesto, può sembrare provocatoria e quasi irritante, ma molte volte, credo che agli stessi operatori penitenziari non siano chiari i termini della realtà di riferimento, se intesa nel suo insieme di un sistema organizzato di norme ideologicamente orientate.

Il carcere, costituisce a tutt’oggi, nella maggior parte dei sistemi penitenziari contemporanei, la struttura centrale all’interno del sistema delle pene. Nonostante vi siano spinte per diminuirne la portata, l’intensità e la centralità, sussiste pur sempre con tenace persistenza nelle sue varie e differenziate forme. Pur essendo, ormai in vigore, in molti paesi occidentali, misure alternative alla pena detentiva, il fatto che si preveda l’alternativa al carcere, significa che quest'ultimo rimane il termine di paragone, l’istanza decisiva a cui fare ricorso in caso di fallimento di altre vie. “La parola carcere evoca immagini di un ambiente chiuso, controllato, oscuro, di un gruppo separato, isolato, da ignorare” (Bertelli B. 1988). Carcere significa essenzialmente istituzione totale  “la vita quotidiana, il lavoro, il tempo libero, sono appiattiti dall’unidimensionalità spaziale e gestionale: luoghi, regole, imposizioni, poteri, sono in questi diversi ambiti vitali sempre gli stessi, uguali, uniformi”. (Bertelli B. 1988).

Carcere come istituzione, dunque, e come tale presenta sostanzialmente due aspetti essenziali:

 

 

Attraverso ogni tipo di   istituzione “formativa” si persegue innanzi tutto un obiettivo di trasmissione socio-culturale di valori e  di moduli di comportamento, che produrranno come effetto un inserimento e una partecipazione reale degli individui, nell’ambito del piano predisposto a tal fine.

In istituzioni di tipo particolare quale è quella penitenziaria invece, e che proprio per questo si definisce  “totalizzante” , l’obiettivo e la finalità esplicita ed immediata è quella di escludere ed isolare gli individui e di ottenere un livello ottimale di custodia attraverso l’adeguamento dei detenuti a precise norme istituzionali interne, e pertanto  “diverse”  da ogni altra.

Il principio-ipotesi su cui si fonda una tale istituzione è che sia la dimensione organizzativa che quella istituzionale, di fatto possono coprire tutti i principali bisogni degli ospiti: la rassicurazione che ne deriva vale per la realtà esterna, poiché di fatto assicura una custodia perfetta; e vale per la realtà interna perché assicura una vita meno frustrante del prevedibile. Il prezzo da pagare è elevato ed è quello della rinuncia all’autonomia personale e di un adeguamento completo. Inizia in tal modo un processo di identificazione adesiva che ingloba tutti (detenuti, operatori, agenti).

L’organizzazione di tutto ciò è complessa: in essa interagiscono numerosi sottosistemi di cui i principali sono: la popolazione detenuta, il personale di custodia, il personale amministrativo, gli operatori penitenziari. Il tipo di interazione che si osserva è caratterizzato da un sistema piramidale, in un’unica direzione, dall’alto verso il basso. Si evidenzia l’impiego dell’ottica lineare, dicotomica, complementare: giusto-sbagliato, bravo detenuto-cattivo detenuto, contenitore-contenuto, controllori-controllati, superiore-inferiore. Il contatto interpersonale, la relazione, non vengono scelti né evitati, l’unica modalità possibile attiene alla sfera del controllo. In tal modo si realizza l’adeguamento al carcere. Nell’ambito della istituzione carceraria il processo di adattamento-istituzionalizzazione assume un valore preminente, ed impone un processo globale senza spazi alternativi e discrezionali finendo con il coinvolgere anche coloro che dovrebbero essere predisposti al mutamento (gli operatori penitenziari).

Donald Clemmer adopera un termine particolare: “prisonizzazione” che significa “l’assunzione in grado minore o maggiore delle abitudini, degli usi, dei costumi e della cultura prevalente della prigione”. E' stata messa in evidenza l’esistenza di una dimensione autonoma, definita appunto “cultura detentiva”. Il carcere è organizzato con criteri di efficienza per raggiungere l’obiettivo del massimo controllo e della sicurezza; ma la legislazione vuole anche il carcere come luogo di negoziazione, dove le relazioni non devono essere più di tipo duale, lineare, ma dove si deve promuovere le relazioni fra i diversi sistemi interni ed esterni: la famiglia, la comunità sociale. Questi messaggi evidenziano una paradossale ingiunzione, ma ci sono altre considerazioni da fare, una struttura in cui sono rigidamente classificati i ruoli, i compiti, e dove si evidenziano alleanze strumentali per la conservazione della struttura interna con precisi limiti e funzioni che non possono assolutamente essere forzati senza provocare inevitabili conflitti. La rete tra i vari sistemi all’interno del carcere (personale amministrativo, operatori, detenuti) fa sì che tutto resti immutato proprio tentando di cambiare la logica penitenziaria, la quale potrebbe mutare solo effettuando un salto di livello e quindi una trasformazione della struttura stessa.

 

Dopo aver esaminato i tre parametri fondamentali, nei quali si muove lo psicologo penitenziario, l’osservazione di fondo è questa: l’ordinamento penitenziario presenta decise caratteristiche di positività, innovazione e cambiamento, forse a motivo della lunga gestazione (quasi ventennale) e per i profondi mutamenti politico-sociali che lo hanno accompagnato, nel senso di un cambiamento anche qualitativo dei fatti e dei vissuti socio-culturali che hanno portato a tentare una risposta diversa alla criminalità, eppure lo stesso ordinamento che nella sua enunciazione dovrebbe evocare qualcosa di nuovo e di attuale, appare, già in parte, superato.

 

Vediamo come si inserisce a questo punto la figura dello psicologo.

 

 

Lo psicologo nella struttura penitenziaria.

 

Esaminato brevemente l’assunto normativo è possibile a questo punto individuare alla luce di esperienze pratiche successive alla Legge 354/1975, quali sono state le difficoltà incontrate per la sua concreta applicazione. In particolare, per quanto riguarda la utilizzazione dello psicologo ai fini degli obiettivi riabilitativi. In linea generale, uno dei problemi è legato agli enunciati di una riforma penitenziaria da un lato innovativi e dall’altro forse già superati e, nei fatti, dalla insufficiente chiarezza nei programmi e dalla povertà dei mezzi messi a disposizione, da resistenze all’innovazione esercitata a vari livelli da ambienti, forse in parte, non ancora convinti della necessità di dover cambiare, e in parte non in grado di recepire le nuove realtà. Il tutto attribuibile, credo, anche a difetto di formazione degli operatori, ma più in generale a chiunque graviti intorno al pianeta carcere.

E’ immediatamente rilevabile una sproporzione tra la riforma esistente e le risorse destinate: strutture, assolutamente carenti, e persone, “esitanti” perché forse impreparate alla difficile, complessa situazione connessa con le realizzazioni degli obiettivi istituzionali. Questo nonostante le lunghissime  discussioni e polemiche che ne hanno caratterizzato la gestazione, e nonostante, in definitiva, ci fossimo semplicemente adeguati alla Costituzione (art. 27), che prevede che la pena debba tendere alla  “rieducazione” del reo, ai principi della Carta dei diritti dell’uomo (ONU) e alle prescrizioni del Consiglio d’Europa. Strettamente collegate a queste considerazioni sono le analisi degli stessi psicologi : criteri sulla generalità della 354, che risulta da una parte inapplicata e dall’altra superata, soprattutto in relazione alle metodiche di trattamento ed al ruolo dello psicologo, quasi accessorio, subalterno. Nella legge citata non è chiarita la posizione giuridico-professionale dello psicologo, sfumata appare la sua attività, che si caratterizza come precaria, anche per la ristrettezza delle ore concesse in Istituto. Inoltre non è previsto nessun programma di formazione specifico, valido per la messa a punto di sistemi di osservazione e di trattamento comuni. Altre difficoltà derivano inoltre dalle lunghe discussioni in atto, circa i modi e l’efficacia delle varie tecniche e metodi della osservazione e del trattamento.

In effetti, sostanziali carenze si rilevano, ad esempio, circa l’osservazione scientifica della personalità, alquanto approssimativa, ancora insufficiente, e non sempre effettuata da personale specializzato. L’applicazione del trattamento per il recupero dell’individuo che ha violato la legge è del resto oggettivamente estremamente difficoltoso, nonostante i numerosi passi avanti compiuti a livelli giuridico e criminologico verso un’ulteriore affermazione dei diritti umani e civili del reo. La struttura del sistema penale in Italia e all’estero, ha subìto delle innegabili  modifiche ed un palese rinnovamento, ma c’è molto ancora da fare, non solo per migliorare le strutture di attuazione e le metodologie d’intervento, ma anche per scardinare la vecchia e ormai superata concezione, ancora vigente nelle masse e ai vertici, che continua a vedere il carcere come luogo sostanzialmente punitivo. Tale residuo di una concezione retributiva della pena, o anche solamente utilitaria, nuoce indubbiamente alla buona attuazione del trattamento.

Ci sono pertanto motivazioni di ordine teorico, ideologico e di attuazione pratica che rendono la soluzione dei problemi, soprattutto quelli relativi al trattamento, piuttosto difficoltosa.

Un discorso sul trattamento è da fare a due livelli: uno riguardante il detenuto  “attuale”, cioè il soggetto che dovrebbe usufruire del trattamento individualizzato, previsto dall’attività di osservazione e trattamento, l’altro riguardante il detenuto da “inserire” ovvero il soggetto che, proprio grazie al percorso individuale svolto all’interno dell’istituto, si progetta nella realtà esterna. E inoltre la pena ed il trattamento sono da intendersi in senso attivo, finalizzati cioè ad operare positive sollecitazioni nella personalità, nei comportamenti e negli atteggiamenti. Agli specialisti non è stato possibile attuare altro che  “tentativi”  di osservazione, non potendo spesso andare al di là di una semplice anamnesi socio-familiare e personale, caratterizzata, spesso, da un linguaggio burocratico, distante dalla descrizione relazionale dell’individuo, oserei dire “informativa” piuttosto che “conoscitiva” e quindi senza poter veramente fare approfondimenti sulle caratteristiche della struttura mentale dei soggetti, per mancanza di condizioni e strutture operative adeguate. A questo proposito appare opportuno sottolineare come le aree di osservazione degli psicologi riguardanti i rapporti del detenuto con gli altri detenuti, con gli operatori, con le istituzioni, con la famiglia, potrebbero essere in grado di aumentare la conoscenza della personalità del recluso favorendo un miglior trattamento dello stesso. Pensiamo, ad esempio, al fatto che usualmente lo psicologo non conosce, nel senso che non effettua colloqui, con i familiari del soggetto o, che spesso non ha conoscenza del compagno di cella oppure dei compagni che il detenuto reputa maggiormente significativi. Il dettato dell’ordinamento penitenziario, è inutile negarlo, è nel senso di un modello clinico della osservazione e suppone l’attuazione di uno schema di questo tipo: diagnosi-terapia-progetto di reinserimento. Ricorda Serra, infatti che:  “la legge in effetti tende a seguire una linea di massima di proiezione all’esterno del soggetto; è la scelta del modello esplicito tesa al reinserimento del soggetto, più che al miglioramento delle sue attuali condizioni di detenuto. Queste ultime, infatti, isolate dalla proiezione del dopo, non farebbero che sottolineare gli aspetti esclusori e stigmatizzanti della pena, aggiungendo ai già devianti nuove e più sottili e pericolose forme di patologia psichica e sociale”.

Nella attuale situazione culturale e legislativa, un obiettivo minimo da conseguire è quello di far diventare in qualche modo “terapeutica”  la struttura istituzionale. Il trattamento dovrebbe consistere  nel mettere in grado gli utenti di percepire nuovi strumenti e di utilizzarli. Riadattarsi è difficile proprio in quanto risulta particolarmente arduo ad alcuni individui conoscere e gestire la propria persona e la propria libertà : e non si attua alcuna modificazione se non si riesce a mettere in grado coloro che dovrebbero usufruirne di esserne consapevoli e soprattutto protagonisti. Occorre infatti recuperare l’individuale più che tendere a rendere più umano l'istituzionale. “L’istituzionale” è certo una realtà forse ineliminabile e quindi campo di operatività e perciò suscettibile di perfezionamento. Ma appare estremamente ingenua  e incerta una operazione di recupero di tale versante, quale quello della espiazione della pena. che da una parte non sembra avere ancora risolto taluni problemi di fondo riguardanti le modalità, e che dall’altra ha certamente bisogno di decristallizzare le attuali soluzioni  “totalizzanti”. L’attuale sistema penale, infatti, tende ad espropriare la facoltà di scelta individuale e la libertà. L’osservazione ed il trattamento, così come vengono ipotizzate nell’Ordinamento Penitenziario, dovrebbero invece essenzialmente essere attuate nella linea di strumenti di recupero anzitutto delle capacità di scelta. Il rapporto degli operatori dovrebbe ricalcare il più possibile il rapporto terapeutico nella sua più moderna accezione cioè favorire un percorso di consapevolezza attribuendo il proprio significato al reato. Nell’ambito di tale rapporto il soggetto perviene ad una conoscenza  della propria esistenza e rivela o meno  la propria propensione al personale progetto esistenziale. A volte si è potuto scorgere che il bilancio esistenziale si  chiude negativamente persino sul piano delle aspettative delinquenziali (anni di galera per ripetuti reati che non hanno fruttato niente) e, soprattutto si chiude negativamente sul piano degli affetti (disfacimento della famiglia e deterioramento dei rapporti sociali). Nella misura in cui gli operatori del trattamento attuano un approccio diretto a comprendere e conoscere i problemi del detenuto, si realizza un incontro terapeutico nell’ambito del quale è rispettata la libertà individuale del soggetto.

Alla riforma dell’ordinamento non è corrisposta una riforma (in termini di formazione/adeguamento) degli operatori penitenziari. E’ evidente quindi quello che è accaduto e che accade negli istituti penitenziari in termini di applicazione di articoli della riforma, quali quelli riguardanti le riunioni di équipes di osservazione e trattamento, i tipi di misure alternative, l’immissione di psicologi, criminologi e di educatori.

Ma cos’è una équipe? Come si articola il lavoro di gruppo, quali ne sono le dinamiche? Cosa vuol dire fare osservazione, quali tecniche utilizzare e quali no, si dispone di mezzi e strumenti adatti? E per i vecchi operatori (il personale di custodia ) i compiti sono mutati? In che senso infine è inteso il dover formulare programmi di trattamento, in prospettiva del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti se non in diretto rapporto e collaborazione con il territorio?

La riforma dell’ordinamento penitenziario ha accentuato una linea di tendenza in senso riabilitativo e risocializzativo della organizzazione interna degli istituti. D’altra parte ci si aspetta che il dettato della legge venga interpretato a favore dei detenuti, ove possibile, non frapponendo, a volte, ostacoli burocratici e impedendo, di fatto, che la riforma venga elusa in aspetti del resto essenziali e vitali. Manca inoltre tuttora una proiezione e un raccordo all’esterno della politica di rinnovamento, creando paradossi e incomprensioni. All’interno degli istituti, l’esterno è concepito solo in termini di pericolo potenziale e di diffidenza talora anche da parte degli operatori stessi che hanno poche occasioni di confronto sia con la Magistratura di Sorveglianza che con gli enti territoriali. A questo ovviamente si aggiunge la difficoltà di pensare ad un progetto di reinserimento che non può e non deve riguardare solo la sfera economico-lavorativa seppur essenziale, in quanto è stato dimostrato che non sempre è sufficiente, ma deve ampliarsi alla conoscenza della capacità relazionale per non lasciare il soggetto nell’ambito esclusivo della sottocultura di appartenenza, con manifestazioni ulteriori di comportamenti antisociali, che costituiscono un rafforzamento dei processi di identificazione e forniscono l’unica possibilità di sopravvivenza.

Il fatto che alla base di tutto c’è il reato, sembra non venga mai preso in considerazione, anzi venga addirittura escluso. Non si parla mai del significato e della funzione che il reato ha avuto e che tuttora assume per la personalità del soggetto.

Sarebbe come parlare della riabilitazione del malato senza accennare alla specifica malattia invalidante. Se il reato ha una funzione, sia pure negativa (nel senso che una cattiva compagnia è una soluzione qualitativamente “negativa”, ad esempio, nell’adolescenza) non possiamo pensare ad un reinserimento senza la possibilità che il soggetto sia in grado o desideri scegliere comportamenti e atteggiamenti diversi per il suo processo di adattamento sociale. A tal proposito si vuole parlare ora di una specifica esperienza lavorativa.

 

 

Una esperienza  alla sezione “Osservazione”

 

Sezione  “osservazione”  o sezione per i  “protetti”  è definita quella limitata area destinata a raccogliere persone differenti e con diversificate tipologie di reati che, appunto, hanno in comune il dover essere  “protetti” . Tali individui non possono essere visti dagli altri detenuti  né possono svolgere attività in comune con altri, in sostanza nella maggior parte dei casi, non partecipano a nessuna delle attività trattamentali che può offrire l’istituzione. In taluni penitenziari si è comunque avvertita l’esigenza di poter svolgere adeguate attività trattamentali e ci si è attivati per la creazione di attività in tali sezioni che consistono nella possibilità di frequentare la scuola, nell’apertura di piccoli laboratori di falegnameria o di corsi di computer. Ma torniamo un attimo al termine “protetti”: come anticipato in tali sezioni vi sono detenuti diversi, individui che hanno commesso reati sessuali nei confronti di donne, di minori, reati di incesto, ex appartenenti alle forze dell’ordine,   collaboratori di giustizia o ex collaboratori di giustizia, a volte troviamo anche soggetti transessuali che anche loro devono essere protetti. L’esigenza istituzionale di “protezione”  dagli altri detenuti spesso non sembra trovare riscontro nel vissuto di tali soggetti che, oltretutto, avendo, taluni, sperimentato sezioni normali in altri istituti, non si vivono in modo diverso da altri individui che hanno commesso reati altrettanto gravi . Quindi che significato simbolico assume il termine  “protetti” ? Forse il fatto che siano reclusi, che non abbiano momenti in comune con altri detenuti, che non prendono parte alle iniziative e manifestazioni istituzionali, che abbiano una ridotta libertà di movimento rispetto agli altri (non vi è possibilità, per esempio, di frequentare la biblioteca, di trovare un lavoro, ridottissima è la percentuale di chi usufruisce di benefici premiali) ha il senso di proteggere loro da se stessi se, appunto, non vogliamo pensare che la pena sia solo vendicativa e retributiva non aderendo dunque ai principi della  riforma penitenziaria.  “Osservare”  e “proteggere”  i detenuti  dalla loro stessa persona, da quegli spazi mentali infantili che hanno abolito ogni differenziazione sessuale e di ruolo (come nei reati d’incesto o sui minori) o coloro che hanno visto crollare un’identità che celava, citando Winnicott,  un “falso sé” (come gli appartenenti alle forze dell’ordine che, tra l’altro, non si ritengono simili agli altri detenuti) o i collaboratori di giustizia che, al di là del significato reale del loro gesto, si “pentono”  come i bambini delle loro malefatte (non a caso in gergo vengono chiamati  “pentiti”).

Se si è certamente d’accordo sull’utilità per gli stessi di essere custoditi e, appunto, protetti dalla loro incapacità attuale di sentire e agire in modo diverso nonché, talora, da una presente  pericolosità sociale, ci si domanda però come è possibile nel sistema penitenziario attuale poter svolgere un’attività di osservazione e trattamento su tali soggetti e attraverso quali fattori poter almeno “tentare” una prognosi sociale. Spesso tale sezione, forse per l'esigenza di tutti : giudici, psicologi, avvocati, agenti di custodia, di essere  “protetti” dal contatto emotivo e relazionale con tali detenuti viene dimenticata nel tempo-spazio dell’operatore che si confonde con il tempo-spazio del carcere nel senso che viene a crearsi un sistema circolare di proiezione in cui tutto viene assorbito dalla “impossibilità” di fare qualcosa, lo psicologo non sa quali attività proporre perché magari quelle più adatte al soggetto non sono accessibili allo stesso, i benefici premiali presupporrebbero più che un’indagine familiare, un momento conoscitivo e di esplorazione delle dinamiche familiari che non viene solitamente fatta e, probabilmente, non è neppure compito delle assistenti sociali ministeriali, il detenuto si lamenta e nella maggior parte dei casi comincia a manifestare ansia di tipo persecutoria e quindi diviene praticamente impossibile sia per il detenuto che per lo psicologo cercare di effettuare uno spostamento dalla realtà esterna, oggettiva, a quella interna personologica e individuale.   Tale modalità non favorisce certo una conoscenza delle difficoltà del soggetto ma un’abile strumento difensivo anche per lo psicologo che, in parte, teme il contatto per paura di lasciarsi invadere, di provare rabbia o disgusto, lo stesso che il soggetto ha provato e vuole trasmettere. La soluzione finale spesso consiste nel lasciar trascorrere tutti gli anni di carcere e nel tornare successivamente nel nucleo di appartenenza senza la possibilità di modificare qualcosa o di poter lavorare con équipes esterne che si occupano   di tali problemi sempre più evidenti e che, certamente, sono indici di un disagio profondo che spesso riguarda l’intero nucleo familiare (pensiamo ai casi di incesto). Anche all’interno dell'istituzione, nelle attività di osservazione e trattamento, spesso non si riesce a cogliere taluni aspetti della personalità, in quanto la maggior parte di detenuti non lavora, pochi frequentano la scuola, esistono processi di stigmatizzazione anche fra loro, molti sono lasciati soli dai familiari oppure i parenti che decidono di star loro ancora vicino, lo fanno schierandosi dalla loro parte. I soggetti si vivono legati agli atti processuali che a tutti i costi desiderano spiegare o negare volendo convincere l’interlocutore. Quale può essere dunque, in tali casi, il ruolo terapeutico dello psicologo? Forse di aiutare il soggetto a conoscere la sua verità; ma è possibile in tale contesto? E’ capitato e, più di una volta, che alcuni riconoscessero la loro colpevolezza, la loro incapacità di gestire le emozioni, ma a chi rivolgersi all’esterno per confidare tali “terribili” desideri? Qualcuno ci aveva provato con il consultorio familiare ma è stato risposto che non era il luogo adatto e, in parte è certamente vero; d’altro canto esistono centri per bambini maltrattati e vittime di abuso psicologico e sessuale, come esistono centri per donne con gli stessi problemi entrambi indispensabili, ma come affrontare il problema dall’altra parte? Solo con un inasprimento delle pene? Certamente no, occorre un impegno profuso e ampio nella conoscenza di tali disturbi e nella capacità di offrire risposte e percorsi da affrontare all’interno del carcere ma anche al suo esterno, attraverso una maggiore collaborazione con la Magistratura e gli enti territoriali, se non si vuole rimanere passivi davanti a fenomeni allarmanti e dover dire che non c’è nulla da fare.  

 

 

 

Parte seconda

 

Questa seconda parte, è stata redatta a distanza di qualche anno  rispetto alla prima. Sono seguite dunque nuove esperienze e conseguentemente nuove riflessioni che avrebbero forse richiesto qualche modifica di quanto precedentemente osservato. Abbiamo tuttavia deciso di lasciare invariato quanto esposto nella prima parte, proprio per poter evidenziare l’evoluzione del nostro interesse. Tutto ciò per rendere ragione delle ripetizioni che inevitabilmente il lettore noterà nelle pagine che seguono.

 

 

 

Sulla rieducazione e riabilitazione

 

       Dopo quanto  detto finora, è lecito domandarsi quale possa essere una valida ipotesi di lavoro che permetta di superare, almeno in parte, l’attuale empasse in cui ristagna il problema della rieducazione del detenuto.        Non vi sono infatti dubbi sul suo fallimento o per lo meno sul fatto che non ha dato  i risultati sperati: per rendersi conto della situazione basta osservare le statistiche sulla recidiva. Ciò che  colpisce è semmai  il fatto che la reiterazione del reato non avviene, tanto, durante la concessione dei benefici premiali previsti dall’ordinamento penitenziario, ma dopo aver riacquistato la libertà, bene prezioso che, ogni detenuto sogna per anni di ottenere.

       Si può pensare, al riguardo, che una forma di controllo esteriore funzioni al posto dell’interiorizzazione di regole e di norme etico-sociali, ma che si tratti di una situazione del tutto temporanea, e che quindi il tempo trascorso in carcere non abbia affatto modificato gli aspetti della personalità legati alla commissione di atti antigiuridici, che vengono perciò reiterati una volta venuto meno lo stretto controllo del regime carcerario.

       Ciò significa che l’ordinamento penitenziario pur avendo contemplato le finalità trattamentali e rieducative in maniera puntuale, non riesce però a sostenerle adeguatamente nella loro attuazione, per cui tutto rimane sul piano programmatico e crea non poche perplessità sull’effettivo impegno rieducativo. L’ordinamento penitenziario,  nell’art.1,  oltre a sottolineare la necessità di trattamento conforme a umanità e tale da assicurare il rispetto della dignità della persona,  precisa che : “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”; se è vero che si prevede che il trattamento sia attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto a specifiche condizioni dei soggetti; se è ancora vero che nell’art.13, si afferma che  “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai bisogni di ciascun soggetto”;  è anche  vero che il trattamento, secondo l’art.15, “è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” il che sembra indicare una visione alquanto semplicistica della processo che deve avvenire perché un soggetto antisociale diventi socialmente integrato. Inoltre, nell’Ordinamento penitenziario, la figura dello psicologo che, dovrebbe avere nella questione, data la natura psicodinamica degli obbiettivi rieducativi, un ruolo primario, è invece, così come delineata dall’art.80,  ritenuta “facoltativa”, mentre la figura cardine rimane quella dell’educatore. Ci sembra che tale incongruenza sia più che sufficiente per farci ritenere le nostre perplessità non del tutto immotivate, e che l’ordinamento penitenziario rischi di ridursi ad una vasta operazione demagogica.

       D’altro canto, il punto di vista del detenuto sulla situazione, non è certo più confortante: ciò che di fatto si osserva, all’interno degli istituti penitenziari, è  prevalentemente una sollecitazione continua, da parte dei detenuti, per ottenere lavoro. Ovviamente  ciò è anche comprensibile poiché, spesso, la necessità sentita come prioritaria è quella  di aiutare la famiglia all’esterno o di non pesare sui propri genitori;  oppure egli non può  contare  che su se stesso, non essendogli rimasto  alcun contatto con il mondo esterno. Non va inoltre dimenticato che, talvolta, l’attività lavorativa è utile per ottenere le stesse misure alternative al carcere o, come nel caso della concessione, da parte della direzione del carcere, di quanto previsto dall’art.21, diviene persino indispensabile. Non solo: alcune attività cominciate all’interno dell’istituto penitenziario possono proseguire anche all’esterno e  si può ben immaginare come i detenuti spesso orientino i loro interessi verso quelle attività. Tuttavia, pur prendendo in considerazione   questo insieme di ragioni, rimaniamo convinti che si tratta di un impegno che da solo non può certo esaurire l’idea del “trattamento”.

       In sostanza, il trattamento viene a coincidere, per così dire, con una sorta di ergoterapia, quindi di lavoro  inteso come “cura”, come processo rieducativo in sé, cosa ben diversa dal risultato di un percorso di rieducazione e risocializzazione.

       Vi è poi il principio della “buona condotta”; che rientra nella logica di un’istituzione come quella carceraria che utilizza un sistema fondato sul premio-punizione; in tal senso si possono leggere, infatti, le ricompense elargite (encomi, colloqui e telefonate premiali) e le sanzioni previste (ammonizioni, richiami, esclusione dalle attività ricreative e sportive, isolamento dalle attività in comune).

In sintesi, possiamo dire che la decisione, da parte del detenuto, di comportarsi “bene”, cioè  di non incorrere in sanzioni disciplinari che  potrebbero, una volta segnalate alla magistratura di sorveglianza, interferire con la concessione dei benefici, altro non è che l’accettazione di un accordo implicito, a seguito del quale vi è una equivalenza di significato tra riabilitazione e “buona condotta”. Certo, è anche ovvio che all’interno di un istituto di pena, il problema primario sia quello del controllo e della sicurezza. Ricordiamo, a tale proposito, che esiste un regime di sorveglianza particolare, riservato ai detenuti che presentano una pericolosità penitenziaria (concetto diverso da quello di pericolosità sociale): soggetti che  con il loro comportamento compromettono la sicurezza o l’ordine degli istituti, che con la violenza o la minaccia impediscono le attività degli altri detenuti e che con la loro arroganza  cercano di esercitare, e di fatto spesso ci riescono, una azione di soggezione nei loro confronti. Tuttavia tali situazioni non sono frequenti, per cui il fare della “buona condotta” il parametro esclusivo della avvenuta riabilitazione non è nemmeno giustificato dall’emergenza .

Quello che sorprende è che non esistano analisi approfondite, nel senso scientifico del termine, di detta situazione. Non ci risulta che qualcuno abbia sottolineato, ad esempio, che questa norma implicita della buona condotta crea un circolo vizioso, in quanto ripropone proprio quello schema relazionale autorità-dipendenza che il detenuto ha rifiutato ed attaccato attraverso l’atto criminoso. Allo stesso modo è palese che il sistema premio-punizione altro non è che il tipico strumento  del conservatorismo più radicale. Non è forse vero che tale sistema  altro non è che la trasposizione del famoso “voto in condotta” nel cui clima  molti di noi sono stati educati? Queste osservazioni sono tanto più ineludibili quanto più richiamano la situazione adolescenziale laddove, del resto, si rivela e prende corpo il comportamento asociale che costituisce, di regola, il prodromo della futura personalità delinquenziale. 

       Per quanto riguarda l’attività occupazionale, essa trova  ampie motivazioni e giustificazioni: tenere il detenuto occupato in attività trattamentali lo distoglie dall’oziare in cella, dal passare il tempo a guardare la televisione o dall’intrattenere rapporti conflittuali sia con i compagni di detenzione, che con gli agenti di custodia ; ma non può diventare al tempo stesso mezzo e fine della riabilitazione; può semmai costituirsi come un’opportunità, talora proveniente dall’esterno. Si pensi  al coinvolgimento di cooperative di solidarietà o ad associazioni cattoliche, piuttosto che ad aiuti dalle scuole, dalle Università o da Comuni per coordinare e programmare corsi, un modo, quindi, perché il “fuori” conosca il carcere. Un esempio di ciò lo si può trovare negli incontri  effettuati tra studenti delle superiori di scuole esterne e studenti detenuti o tra lavoratori esterni e lavoratori detenuti.

Tutti questi problemi di convivenza e organizzazione istituzionale, pur tenuti presenti nell’ordinamento penitenziario, finiscono però col far riservare scarsa attenzione alla verifica di un effettivo risultato rieducativo e riabilitativo. Tuttavia questa situazione non può protrarsi all’infinito: non si possono  ignorare le critiche e le proteste  dell’opinione pubblica, dato che stanno diventando sempre più pressanti.  Non è da oggi che le innovazioni introdotte dalla riforma sono oggetto di  perplessità e critiche, pur accettando le difficoltà connesse al problema. Se non si può perseguire una politica di de-carcerizzazione senza dare per scontati alcuni inconvenienti rispetto alla concessione dei benefici premiali, primo tra i quali quelli che derivano dal fatto che il principio della individualizzazione del trattamento è tutt’altro che facilmente attuabile, data la difficoltà di effettuare prognosi e data la tendenza da parte di persone pericolose di approfittare dell’eccessivo indulgenzialismo per eludere l’esecuzione della pena, tuttavia l’identificazione della pubblica opinione con le vittime dei reati è massivo e quindi ineludibile, per cui continuano ad essere avanzate, da più parti, proposte per limitare la portata delle misure alternative al carcere, escludendone gli autori di reati di particolare allarme sociale (quelli connessi per esempio all’appartenenza alle associazioni di tipo mafioso, al traffico di droga, al rapimento per fini di estorsione, ai reati sessuali ecc).

       Al di là del dibattito, tuttora in corso, sulla necessità della certezza della pena piuttosto che sulla sua durata massima  che, di fatto,  proprio per effetto delle misure alternative risultano indefinite, occorre ammettere che la realtà è che manca una concezione adeguata del processo di rieducazione e che senza di esso i fallimenti e le reazioni ad essi sono destinati a ripetersi. Non è il tempo che manca per la realizzazione di un valido percorso, dato che anche le misure alternative richiedono comunque un lasso di tempo per essere concesse; pensiamo per esempio agli ergastolani che per fruire di permessi devono trascorrere dieci anni in carcere e venti anni per ottenere la semi-libertà o, comunque, ai soggetti che subiscono restrizioni all’accesso ai benefici proprio in conseguenza della tipologia del reato (lasciando chiaramente a parte il discorso sulla concessione della liberazione anticipata). Ciò che manca è, ripetiamo, una concezione scientifica e nello stesso tempo non eccessivamente “astratta” (cioè realisticamente fondata), del concetto di rieducazione che richiede come condizione preliminare una sufficiente comprensione del significato del reato, inteso come aspetto in qualche modo “funzionale” alla personalità dell’individuo.

       Vale a dire che senza valutazione dell’atto delinquenziale come inserito nella economia mentale del soggetto non si può costruire una convincente teoria rieducativa.

       Il dubbio è che tale lacuna concettuale  non sia davvero sentita come tale, ma che invece il detenuto diventi oggetto di attenzione solo in occasioni eclatanti come quelle a cui si riferisce sempre più spesso  la cronaca nera . Sembra che la Giustizia non sia tanto intenzionata a punire la violenza o il comportamento lesivo in sé, quanto il  fatto che tale   comportamento aggressivo  viene posto in essere con modalità “palesemente” in contrasto con le quelle implicitamente accettate dalla Società. Generalmente l’azione punita è quella diretta, caratterizzata da sottrazione o da offesa concreta, evidente, ed è più grave se si lascia cogliere in flagranza.  

       Da qui è naturale che ci si preoccupi di reinserire il soggetto limitandosi a richiedere prove di “adeguamento” senza preoccuparsi se nel detenuto sia avvenuto quel processo a seguito del quale, ci verrebbe da dire, la  asocialità dovrebbe trasformarsi in disponibilità alla collaborazione sociale o almeno ad un adattamento alle regole sociali.

Basti pensare a certi comportamenti chiaramente delinquenziali come l’inquinamento acustico e atmosferico, la sofisticazione alimentare, l’occultamento dei residui tossici delle lavorazioni chimiche ecc., che non vengono di fatto perseguite con la medesima fermezza con cui si perseguono altri reati, pur danneggiando i soggetti molto di più di quanto non accada, poniamo, in una truffa, dato che producono danni alla salute o addirittura modificazioni genetiche che influiscono sulle generazioni future.  Ma questo discorso esce dagli obbiettivi del nostro lavoro, anche perché ci porterebbe lontano.

       Il carcere quindi, si pone, in qualche modo, come un periodo di riabilitazione “coatta” ma rispetto a cosa? Attraverso il lavoro, lo studio, la buona condotta si chiede in sostanza di essere un buon detenuto, come se la risposta a tutto questo costituisse un indice significativo di capacità di reinserimento sociale. Eppure già Michel Foucault spingeva a diffidare di tali adeguamenti istituzionali, con la frase  divenuta storica,  “bravo detenuto, cattivo cittadino”.

       In effetti, è paradossale pensare che un individuo, che fino a poco tempo fa viveva e si comportava non aderendo a norme sociali e giuridiche, aderisca ora alle regole carcerarie per qualcosa di più di un semplice adeguamento di convenienza, dato che opponendosi  al quale avrebbe tutto da perdere. Inoltre,  quale interesse può avere il detenuto ad instaurare una relazione sincera  con lo psicologo che è anche colui che relazionerà al Magistrato di Sorveglianza? Occorre anche dire che nella logica premiale vengono inevitabilmente coinvolti gli stessi psicologi in quanto quando si  sentono dire dai detenuti  che “è tutto a posto” per poter accedere ai benefici di legge, cioè che gli stessi svolgono attività lavorativa, effettuano colloqui con i familiari, non hanno rapporti disciplinari da parte della polizia penitenziaria ecc., non riescono a contrapporre un criterio rieducativo alternativo.  Il reato appare lontano, rappresenta il “prima”; inoltre, in virtù di quale logica ci si potrebbe opporre a tale visione delle cose? Tutto ciò porta, talora, ad una sorta di diffidenza reciproca tra lo psicologo ed il detenuto, nel senso che se lo psicologo appare al detenuto come una figura strumentale con cui trovare una sorta di intesa, nel modo di rapportarsi del detenuto,  legittimato da quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, lo psicologo non vede nessuna apertura che possa essere davvero considerata “vantaggiosa”, per cui manca una reale motivazione ad aprirsi ad un rapporto di fiducia che creerebbe più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Certamente può accadere che vi siano detenuti che non cedono al sospetto e al timore di uscirne danneggiati, ma non è certo la regola. Sul versante opposto dobbiamo chiederci: “se anche  gli psicologi che oggi si lamentano di essere in pochi, di non avere lo stesso linguaggio degli addetti alla custodia, e talora anche della direzione del carcere, fossero soddisfatti nelle loro richieste organizzative sarebbero in grado di affrontare adeguatamente il problema rieducativo”? Forse i detenuti potrebbero vedere più spesso lo psicologo, ma allora l’impostazione metodologica e scientifica mostrerebbe (salvo che in rare eccezioni) tutta  la sua approssimazione.

In sintesi, ciò che sosteniamo è che occorre una metodologia fondata su una concezione credibile e scientifica  delle motivazioni che sottendono l’azione criminosa; una concezione che ne spieghi la natura e la funzione. Da qui, riteniamo che  la base di ogni progetto di rieducazione non possa che essere costituita da  una  diagnosi differenziale del reato in termini di significato psicologico  associata alla corrispondente diagnosi di personalità del reo .

       Solo la comprensione della funzione che il reato ha avuto e che assume tuttora per l’individuo, può permettere allo psicologo di verificare quello che potremmo definire “il livello di fattibilità” per l’avvio e l’attuazione di un processo di rieducazione e riabilitazione.

       Le tipologie classificatorie della criminalità come quelle che, ad esempio, sono delineate in qualche Compendio di Criminologia, sono interessanti ma non sufficienti. Certamente,  distinguere, come fa G. Ponti, i Delitti convenzionali o comuni (ciò che abitualmente e immediatamente viene percepito come delitto e che suscita univoche reazioni di disapprovazione) dai Delitti dell'ambiente familiare, (laddove l’ambiente familiare rappresenta un contesto sociale  nel cui ambito si possono realizzare molte condotte criminose specificamente legate alle particolari caratteristiche dei rapporti interpersonali che in esso si realizzano); o la Criminalità economica (reati effettuati all'interno di imprese di tipo commerciale, industriale, finanziario, o produttrici di servizi del terziario, e anche professionali), dalla Criminalità organizzata, da quella politica e dal terrorismo, contribuisce certo a far ordine nella complessità della realtà criminale; tuttavia tali  classificazioni per la loro genericità non permettono,   alla luce di quanto espresso, di rispondere, nemmeno in parte, al problema di cui ci stiamo occupando: rimangono delle categorie generali scarsamente utilizzabili. Pensiamo, infatti, a quale casistica diversificata sia inclusa nell’ambito della delittuosità comune: solo all’interno del reato di appropriazione indebita (da intendersi non nel senso strettamente giuridico del termine), si va dalle rapine commesse con l’utilizzo di armi in locali pubblici (poste, banche, negozi)  al furto in appartamento, al furto di un auto, alle  rapine a danno degli  anziani che hanno appena ritirato la pensione,  alle minacce del  tossicodipendente che agita la siringa utilizzandola come un’arma impropria, al furto del cleptomane, al taccheggio nei mezzi pubblici;  questo limitandoci a citazioni casuali. E all’interno degli esempi fatti, come capire realmente quale sia l’intenzione, il movente psicologico oltre che quello razionale? Se una rapina porta con sé un omicidio o se il tossicodipendente in preda all’effetto di sostanze, trasforma una minaccia in una aggressione, talora con conseguenze mortali, come capire cosa sia davvero successo nella persona, che non si può a volte considerare in preda al panico dato che ha, magari, già subito una dura esperienza carceraria? Queste riflessioni dovrebbero anche  aiutarci  a chiarire che la delinquenza non è diretta conseguenza   del disagio sociale considerato in termini sociologici o economici, ma ha una eziologia psichica complessa. Sappiamo bene, ormai, che spesso il reo è di “famiglia bene” e che si tratta spesso di soggetti ai quali, sul piano materiale non manca proprio nulla, e che il loro delinquere ha altrove le sue radici motivazionali.

       La correlazione fra delinquenza e disagio sociale è, semmai, una di quelle correlazioni che la statistica definisce “correlazioni false”, in quanto la correlazione è spesso apparente, dato che esiste un fattore “terzo” a cui entrambi i termini del rapporto possono essere a loro volta  correlati  acquistando diverso significato.

A nostro avviso, oggi, siamo in possesso di esperienze cliniche così approfondite da poterne astrarre delle teorie avanzate sia sulla natura e il peso delle influenze ambientali (famiglia e contesto gruppale), sia sulla natura e la struttura della personalità delinquenziale, sia, di conseguenza, sul significato delle diverse forme in cui si articola la nosografia criminale.

       Vi è anche la possibilità di rivedere concetti scientifici e convinzioni giuridiche   ormai desueti, che rischiano di far apparire “risibili” alcuni dei più tradizionali istituti giuridici (vedi, ad esempio, il problema della capacità di intendere e volere, l’esclusione delle psicopatie dalla categoria delle malattie mentali deresponsabilizzanti,  ecc), e inducono ad attribuire la natura di mero palliativo a quelle strategie ritenute ancora fondamentali (le attività occupazionali), che potrebbero davvero  divenire “terapeutiche” nella misura in cui, rendendoci conto del loro significato simbolico, potrebbero trovare una utilizzazione del tutto diversa da quella attuale. Persino la pena alternativa assumerebbe un senso diverso se psicodinamicamente orientata (vale a dire se fosse collegata, per esempio, ad inserimenti gruppali adeguati)

       L’impostazione da noi seguita tende dunque alla ricerca di una serie di parametri e di elementi attorno ai quali organizzare un programma di ricerca e analisi differenziata del reato, che consenta, se non di incidere sostanzialmente sul problema della rieducazione, almeno di far luce sulle “vere” difficoltà del processo di rieducazione e riabilitazione previsto dal recente Ordinamento penitenziario.

       Certamente la delusione potrebbe essere grande (forse il timore che la rieducazione sia una “utopia” aleggia come un fantasma). Ne potrebbe infatti esitare la conclusione che solo pochi sono i casi in cui è davvero possibile la rieducazione; tuttavia questo almeno consentirebbe di imboccare, questa volta a ragion veduta, ulteriori  direzioni di ricerca e dosare l’impegno e l’energia degli operatori sociali; evitare le suggestioni demagogiche e ridimensionare le velleità di coloro che agitano facili soluzioni.

Potremmo anche essere costretti ad ammettere che a volte, una concezione meramente “custodialista” della pena è l’unica al momento praticabile.

Da tutte queste considerazioni sulle esigenze di perseguimento della verità come condizione prioritaria per sperare di affrontare il problema con successo, ci sembra di poter dedurre che le direzioni di ricerca dovrebbero essere diverse e riguardare:

 

a) lo studio della personalità antisociale, intesa come configurazione psicopatologica in un più ampio quadro nosografico

 

b) lo studio del significato simbolico dei diversi reati presi in considerazione, questa volta, come un tentativo di costruzione di una nosografia del reato.

 

c) lo studio del significato e delle correlazioni funzionali tra  reato e  personalità del reo. Non dobbiamo dimenticare che l’azione criminosa trova il suo correlato nel concetto psicoanalitico di acting che assume una connotazione complessa all’interno del trattamento psicoanalitico, ma che può essere riassunto come la predilezione dell’azione rispetto alla attività di pensiero.

 

d) lo studio del rapporto tra struttura familiare e comportamento deviante, ponendo tra parentesi il concetto di disagio sociale, concetto prettamente sociologico, privilegiando invece la disamina  delle funzioni positive e negative della famiglia viste in un’ottica psicodinamica.

      

In sintesi si tratta di studiare la personalità antisociale  tenendo conto dell’insieme dei fattori  psicologici e psico-sociali (influenze dei gruppi di appartenenza, ideologia relazionale ecc.), considerando però la  delinquenza essenzialmente come un disturbo della personalità con effetti di disadattamento relazionale e sociale.

       Anche nel caso che tale disturbo della personalità sia stato determinato o sia stato influenzato “essenzialmente” da condizioni familiari  sfavorevoli e da ruoli genitoriali negativi, non per questo cessa di essere tale, per cui non è sufficiente operare esclusivamente nel senso delle condizioni di vita. Offrire al detenuto diverse opportunità da quelle originarie non ottiene automaticamente in lui un cambiamento della sua ideologia delinquenziale.

Ci rendiamo conto che questa connotazione della delinquenza in termini di psicopatologia presta facilmente il fianco a più di una obiezione. Potrebbe sembrare una difesa del “sistema” (“chi lo accetta è sano chi vi si oppone è malato”), oppure una negazione del concetto di responsabilità (se il delinquente è una sorta di  “malato mentale”, non è responsabile). Tuttavia ricordiamo che  il termine “psicopatologia” è da noi utilizzato nella sua accezione più ampia di visione distorta della realtà, in funzione di strutture personologiche e caratterologiche essenzialmente narcisistiche, costruitesi attorno alla sofferenza intollerabile, al disagio e alla intolleranza, a volte genetica’ della frustrazione. Del resto sappiamo che i detenuti “malati di mente” non sono quelli che soggiornano in carcere, ma quelli dichiarati “incapaci di intendere e volere”  e ricoverati altrove. Inoltre è l’ordinamento penitenziario che per primo utilizza i termini “rieducazione” e “riabilitazione” e che parla esplicitamente di “trattamento”.

Il fatto è che il problema della delinquenza e quello correlato della pena sono  alquanto insidiosi e la Società oscilla tra concezioni alternative e inconciliabili che sono il retaggio di una società moralistica   in cui il concetto di colpa e perdono sono centrali. Vale a dire che il concetto di disturbo mentale, per essere applicato alla delinquenza necessità di una concezione laica del comportamento sociale. In cui della necessità non è quasi mai possibile fare “virtù”.

In questa ottica “laica”, in cui lo scopo è di capire la natura dei problemi e non di giudicare, l’analisi differenziata del reato è a nostro avviso ineludibile; il medesimo reato, per quanto la gravità possa porlo, da un certo punto di vista, sullo stesso  piano rispetto ai diversi soggetti,  non riveste lo stesso ruolo nelle diverse personalità. Una uccisione che avvenga in ambito  familiare, perpetrata da un coniuge nei confronti dell’altro, ha un diverso significato, da quello che assume lo stesso reato pur perpetrato  con lo stesso scopo, ma avvalendosi di  un intermediario il quale magari neppure conosce   la vittima designata; o ancora chi commette un omicidio in gruppo (pensiamo per esempio ad alcuni omicidi commessi da giovani adolescenti o appena maggiorenni), non ha lo stesso significato se il contesto è borghese piuttosto che di emarginazione sociale. E ancora, come si nota soprattutto in questi ultimi tempi, la criminalità a sfondo sessuale è quanto di più diversificato ci possa essere in termini di differenziazione motivazionale. Vi è una differenza di personalità tra chi commette un incesto (quindi all'interno di relazioni affettive e familiari) da chi  pone in essere comportamenti pedofili adescando bambini all’uscita della scuola.

Tutte queste sfaccettature del reato, correlate con i diversi aspetti e le differenti strutture di personalità, sembrerebbero perdersi e confondersi nel girone infernale dell’ambiente carcerario. Tuttavia la conoscenza psicoanalitica intorno alla ostinata tendenza delle strutture mentali a realizzarsi attraverso la ripetizione (vedi il concetto di  “coazione a ripetere”) ci induce a pensare che  il  detenuto tenda a riprodurre modalità di atteggiamento e di comportamento che, al di là del cambiamento di stile di vita imposto dalle strutture carcerarie, si ripropone anche nell’ambiente carcerario. Stando così le cose la stessa vita carceraria può diventare significativa in quanto rivelatrice di caratteristiche di personalità (per esempio può essere utile conoscere il tipo di attività che il detenuto predilige: manuale, come lavorare il legno o occuparsi della serra ecc. oppure intellettiva, come l’informatica, il corso di biblioteconomia o lo studio da solo in cella; inoltre se il detenuto privilegia attività di gruppo o individuali; i rapporti con i compagni). Vale a dire che se il reato, specie se reiterato (delinquenza abituale), aveva una sua funzione, ora tale funzione deve pur essere assolta da qualche altro elemento sia pure mimetizzato nel “contratto” di buona condotta.

       E’ chiaro che l’obbiettivo della rieducazione va distinto in due tempi o momenti: il primo riguarda la conoscenza, il secondo la metodologia dell’intervento ed il programma riabilitativo. Si tratta di due momenti distinti ma  interdipendenti: una conoscenza senza una corrispondente metodologia applicativa diventa inservibile; una metodologia non sostenuta da un adeguato referente teorico risente della approssimazione e della superficialità del “buon senso comune”: il programma riabilitativo rimane a livello puramente formale ed è destinato a deludere. Crediamo che questa sia la lacuna maggiore dei progetti che riguardano la rieducazione: vi è una metodologia semplicistica che si avvale di teorie troppo astratte.

       E’ noto che negli ultimi tempi si tende a privilegiare il concetto di modello rispetto alla  teoria: una costruzione concettuale più agile che permette risultati circoscritti ma suscettibili di essere poi collegati tra loro per soddisfare più ampie esigenze. Un modello non è una teoria, dice Donald Meltzer[1], ma un insieme di concetti funzionalmente organizzati tra loro.

Nell’ambito della ricerca criminologica questa ricerca di modelli è quanto mai essenziale  

       L’osservazione della personalità deve, quindi, consistere in una diagnosi dinamica  in grado di descrivere una data personalità in una data situazione; in un modo che richiama il concetto giuridico di “fattispecie” poiché è solo da questa che può scaturire una prognosi  di reinserimento piuttosto che di persistente pericolosità sociale. E’ da tale indagine che si possono astrarre utili indicazioni, al di là del comportamento manifesto, per capire  in quale modo il detenuto  possa usufruire di spazi di libertà a controllo ridotto, oppure, al contrario, se la  fruizione di tali spazi debba avvenire sotto stretto controllo o, a limite, in strutture protette.

 

 

Il punto di vista psicologico tradizionale

 

       Dicevamo delle  correlazioni tra reato e personalità del reo. Questo collegamento non può avvenire senza un discorso preliminare che chiarisca i referenti teorici e l’impostazione metodologica che si intende seguire, e che attinge alla concezione psicoanalitica dello sviluppo mentale

       Ciò che ha nociuto alla psicologia criminale e alla criminologia è sempre stata, a nostro avviso, una impostazione metodologica fondata sulla correlazione tra soggetto e realtà esterna; in altre parole l’impostazione psicologica comportamentista e l’impostazione sociologica. Concezioni che hanno portato a scelte ed atteggiamenti rigidi, improntati a prese di posizione intransigenti avvenute  tra elementi dicotomici, spesso in opposizione tra loro piuttosto che in rapporto dialettico. L’esito non poteva che essere quello che è stato e cioè chiaramente pregiudizievole per la comprensione del fenomeno delinquenziale.

       Da questo punto di vista fu certamente pregiudizievole la contrapposizione tra i fattori costituzionali ed ambientali.

       Se l’influenza costituzionale è considerata fondamentale, allora le cause vanno ricercate con l’anamnesi individuale e  familiare intesa come elemento eziopatogenetico; se invece i fattori ritenuti fondanti la personalità, sono quelli ambientali, la direzione diventa essenzialmente sociologica con una tendenza alla  deresponsabilizzazione  dell’individuo singolo e con un’apertura alla permissività che non permette di capire la differenza tra chi “si ravvede” e chi, al contrario, reitera il crimine, o addirittura lo mantiene come filosofia esistenziale (delinquenza abituale). In tali frangenti, il sistema premio-punizione diventa basilare nella prima concezione, in quanto serve da stimolo e da rinforzo alle tendenze positive e assume, inoltre, una valenza deterrente per le tendenze negative (i concetti base sono dunque quelli di “rinforzo” e di “condizionamento”); mentre alla seconda concezione consegue un atteggiamento permissivo e tollerante, sorta di elemento compensatorio e risarcitorio rispetto alle ingiustizie patite.

       Considerando le cose sul piano storico, possiamo dire che se è vero che la concezione della pena è passata dall’una all’altra concezione, cioè dalla pena come punizione alla pena con funzioni rieducative, tuttavia quest’ultima, mancando di fondamento scientifico rischia di divenire una sorta di “aspettativa di  gratitudine” o di “riappacificazione sociale” che la società si aspetta da  parte del detenuto per non aver troppo infierito su di lui (il che sfocia nel concetto esasperato di “garantismo”).

       L’approfondimento delle conoscenze, in specie quelle psicoanalitiche, sulla natura del processo di sviluppo ha dimostrato però l’unilateralità di ciascuna delle ipotesi sopraddette nella misura in cui alla realtà esterna, oggettiva, costituzionale o ambientale che sia, viene attribuito un valore, un significato, che di per se stessa non possiede.

Ma accenniamo ora, sia pure sommariamente, alla impostazione psicoanalitica che fondata, com’è attualmente, sul concetto nucleare di “relazione interpersonale”, permette nuove prospettive di indagine e di intervento.

 

      

La concezione psicoanalitica della personalità

 

       Pur non essendo ovviamente possibile trattare in questa sede il complesso insieme concettuale della Psicoanalisi, prenderemo comunque in considerazione quegli aspetti che ci saranno utili per comprendere di che cosa stiamo parlando quando ci riferiamo al “significato” del reato.

       Secondo la Psicoanalisi più attuale, la personalità si costruisce, si struttura, in funzione dell’esperienza emotiva (affetti, sentimenti ed emozioni). Vale a dire che la natura della nostra visione della realtà e le qualità che attribuiamo alle nostre relazioni interpersonali, in altre parole, le  “valenze affettive”, dipendono dalle  esperienze emotive ad esse correlate che, dando  luogo ad idee, atteggiamenti e comportamenti in rapporto alla concezione che ci siamo fatti della realtà, concorrono sia a strutturare quell’insieme di elementi personologici ai quali siamo abituati a riferirci con il termine “carattere”, sia  alla formazione di quella che potremmo definire la  “ideologia relazionale”, vale a dire il modo di considerare le relazioni interpersonali.

       Si tratta di una prospettiva molto più ampia di quella consentita dalla primitiva concezione freudiana, che metteva invece l’accento essenzialmente sulla soddisfazione sessuale come “gradiente significativo” della vita di relazione .

       Secondo Freud,  il modo di essere di un individuo, compresi i suoi comportamenti, le sue strategie e i suoi atteggiamenti relazionali, dipende dalle vicende pulsionali; per cui all’origine dell’amore   e dell’odio (e dei  sentimenti a questi connessi) vi é, rispettivamente, la soddisfazione sessuale o la sua frustrazione;  e quindi tutto sembra dipendere dalla disponibilità dei genitori alla gratificazione  delle pulsioni piuttosto che alla loro repressione.

       Amore e odio nella concezione freudiana sono quindi strettamente dipendenti dalle “vicissitudini degli istinti”, come ebbe a dire lo stesso Freud, ed alle loro trasformazioni (di cui tratterò tra poco).  

       Furono i successori di Freud che, cominciarono a considerare le vicende dell’amore e dell’odio in rapporto ad un concetto di sofferenza psichica ben più complesso; questa volta non solo dovuta alla frustrazione sessuale del bambino o alla sua paura di essere punito a seguito dei desideri edipici (angoscia di castrazione); ma collegata alle  emozioni e agli affetti così come si presentano al soggetto nelle sue vicissitudini della crescita e a loro volta correlati alle esperienze di amore, sostegno, protezione o, al contrario, di odio, abbandono, mancanza di cure ecc.

Il clima in cui avviene lo sviluppo è dapprima  un clima di persecutorietà (fame, sete, sonno, dentizione ecc.) , cioè molto diverso da quello felice che si attribuiva un tempo all’età infantile;  più tardi  di ambivalenza (paura-sicurezza, fiducia-sfiducia, speranza-disperazione, egoismo-altruismo ecc.), infine di riconoscimento del valore dell’oggetto, con la messa a fuoco delle aspettative nei suoi confronti (bisogno e desiderio di sostegno, protezione, comprensione, solidarietà, altruismo ecc.); sia pure in una situazione comunque oscillante tra posizioni narcisistiche ed altruistiche.

       Questa evoluzione di pensiero   introdusse  nella Psicoanalisi  un vero e proprio “sistema di valori”, per cui cominciarono a prendere corpo in maniera nuova, concetti come egoismo e altruismo, buono e cattivo, verità e menzogna, invidia e gratitudine, con una conseguente crescita progressiva, in termini di importanza, del concetto di responsabilità quale elemento fondamentale per la maturazione e la stabilità psichica.

       Si  scoprì che il pessimismo piuttosto che l’ottimismo, la fiducia e la speranza piuttosto che la sfiducia e la disperazione (o il scetticismo), derivano dalla qualità e dalle caratteristiche (vere o immaginate che siano) dei rapporti più significativi della nostra infanzia e dalla loro possibile trasformazione nel corso del processo di crescita; dato che sono essi che, una volta  interiorizzati, vanno a caratterizzare  quel “mondo interno” che ciascuno poi tende a riprodurre ed a riproporre a se stesso e agli altri, nella realtà di ogni giorno.

       La caratteristica di questa situazione, quella che la rende problematica, è data dal fatto che, come dicevo più sopra, all’inizio le esperienze emotive  vissute dal bambino sono in gran parte dolorose e soprattutto scarsamente dotate di senso, oltre che ingestibili; una atmosfera “persecutoria” che deve essere bonificata dalla presenza e dalle cure genitoriali, dapprima la madre  successivamente il padre; cure  che solo faticosamente il bambino riuscirà a collegare alle figure reali dei genitori. 

In poche parole, nel periodo neonatale accade al bambino   quello che, filogeneticamente, si ritiene sia accaduto all’uomo primitivo quando attribuiva i mali dei quali non conosceva il significato, agli Dei o ai Dèmoni.

       Sia pure avvantaggiato dal fatto che le percezioni infantili persecutorie sono “fantasmatiche” e quindi irreali, mentre la presenza e la sollecitudine materna è reale, concreta, per cui gli aspetti negativi vengono ancorati alla fantasia (l’orco, la strega ecc.) e quelli positivi alla presenza reale materna, il bambino ha comunque bisogno di questo processo di  “bonifica” che  cambi la iniziale componente paranoica della visione del modo[2].

       Il problema è che, affinché una esperienza negativa sia bonificata c’è bisogno di tempo e di tolleranza, soprattutto di tolleranza della mancanza, dell’attesa.

       Una  intolleranza dell’angoscia, induce infatti il bambino  a ricorrere a meccanismi psichici così detti di scissione e negazione, con i quali allontanerà dalla sua mente, attraverso fantasie difensive, l’esperienza emotiva intollerabile: egli tenderà cioè a negare la realtà che non riesce a sopportare.

       Ora, se non c’è questa capacità di tolleranza, se manca questa disponibilità a procrastinare l’azione, non c’è nemmeno la possibilità di utilizzare il pensiero, quello strumento che permette di verificare criticamente la fondatezza dei nostri timori e la effettiva realtà delle intenzioni altrui.

E’ noto come di fronte ad un impatto emozionale che pensiamo potrebbe indurci ad una azione intempestiva preferiamo “pensarci su”

       Il pensiero nasce infatti dalla sospensione dell’azione e dalla capacità di dilazionare la soddisfazione dell’impulso, come sosteneva del resto lo stesso Freud.

       Se il soggetto è intollerante, se il suo desiderio o se la sua aggressività sono incontenibili, il tentativo di risolvere i problemi attraverso l’azione diverrà la sua regola di vita; quello che a livello psicopatologico si chiama “passaggio all’atto” o acting.

       La tolleranza del bisogno e del desiderio permettono invece  al soggetto di rappresentarsi la situazione, di prenderne le distanze in maniera sufficiente da esercitare la funzione del giudizio.

       Il soggetto asociale, il delinquente, difettano di questa tolleranza: “pretendono” che le loro esigenze vengano soddisfatte immediatamente, mancando di qualsiasi fiducia rispetto alla possibilità che qualcuno si preoccupi di loro e tendono, per così dire, a “passare a vie di fatto”

Non riuscendo a prendere nemmeno momentaneamente la distanza dai loro bisogni e desideri essi non possono inoltre usufruire di quel particolare processo noto come “simbolizzazione” (di cui tratteremo immediatamente) e che  costituisce una discriminante tra comportamento adattivo e comportamento intollerante.

 

 

Il processo di simbolizzazione

 

Il concetto di “simbolizzazione”, in Psicoanalisi, è alquanto complesso: si tratta, in parole semplici, di un processo di rappresentazione, di significazione  attraverso, appunto, l’uso di oggetti-simbolo[3]; un processo del tipo di quello, forse più noto, collegato con la metafora; ma che oltre  all’aspetto rappresentazionale include anche l’aspetto affettivo.

Il simbolo diventa una sorta di contenitore di significati che originariamente non gli sono affatto pertinenti.

Freud non costruì una vera teoria del simbolo; utilizzò soprattutto il concetto di sublimazione[4]; anche se questo comportò una concezione riduttiva del più creativo concetto di simbolizzazione, che può “anche” contenere una funzione di sublimazione, ma senza ridursi, limitarsi ad essa.

In poche parole, ogni cosa, ogni azione è in grado di contenere  simbolicamente il significato del nostro “essere in rapporto col mondo” e quindi di “veicolare” significati.

La simbolizzazione non ha solo  una funzione rappresentazionale, allo scopo di dirottare e scaricare energie pulsionali, ma permette al soggetto di realizzare bisogni e  desideri in maniera indiretta: vale a dire che permette al bisogno di essere soddisfatto anche se non vi sono le condizioni e gli oggetti originari ai quali il bisogno di fatto si riferisce. Per fare un esempio noto a tutti, un artista può riempire la sua solitudine creando una opera d’arte che simbolicamente rappresenti l’oggetto che avrebbe dovuto colmare, nella realtà, tale solitudine.

Certamente vi sono situazioni che richiedono di essere soddisfatte realmente e direttamente; la simbolizzazione non può sostituire in toto la realtà, ma solo rendere tollerabile le frustrazioni alle quali inevitabilmente ciascuno viene a trovarsi esposto. L’artista, o l’artigiano o anche colui che ama il suo lavoro non può, ad esempio, con la sua attività, sopperire permanentemente alla esigenza di una soddisfazione affettiva reale, ma può controllarla, dilazionarla, sottoporla a giudizio (ridimensionamento)  senza sentirsi sopraffatto dal bisogno e reagire di conseguenza.

Certo, se le nostre soddisfazioni pulsionali ed emotive fossero esclusivamente simboliche  la vita diverrebbe invivibile; ma risulta altrettanto  nocivo all’individuo e, nel caso del criminale, anche alla società , al contrario, il fatto che il ricorso alla simbolizzazione sia  scarso o nullo, e che l’unico elemento di valore venga attribuito all’azione, peggio se violenta, e su di essa il soggetto  conti in via esclusiva per costringere la realtà alle proprie esigenze.

Possiamo sintetizzare quanto detto come segue:

La mancanza di qualcosa o di qualcuno in grado di soddisfare un bisogno, che permanga nel tempo fino a creare un senso di disagio e di sofferenza  può essere affrontata in tre diversi modi:

 

       a) attraverso una tolleranza dell’attesa: la fiducia e la speranza sono forti e la convinzione che presto il disagio e la sofferenza verranno superati con l’aiuto di qualcuno e per l’avvento di tempi migliori sostiene il soggetto nell’attesa.

       b) con l’aiuto della simbolizzazione: il desiderio viene in parte mantenuto in parte trasformato in desiderio di qualcosa d’altro che, essendo maggiormente  accessibile dell’oggetto di desiderio originario, permette la diminuzione del disagio.

       c) reagendo a seguito della intolleranza dell’attesa (per un eccesso di sfiducia o per la presenza di odio o per l’assenza di esperienze relazionali positive ecc.): in tal caso il processo di simbolizzazione non è accessibile, la speranza è nulla e il ricorso all’azione  è considerato l’unica modalità per ottenere soddisfazione. 

E’ chiaro, anche se le scelte non sono mai univoche, che la scelta delinquenziale riguarda essenzialmente la terza alternativa.

Il problema è aggravato dal fatto che tale ricorso all’azione non è poi in grado di risolvere comunque il problema del bisogno.

       Facciamo un esempio, anche se alquanto banale. Un soggetto a cui venga in mente o   desideri di commettere un furto, come reazione ad una difficoltà economica ritenuta ingiusta e intollerabile, se riesce a trattenersi dal commetterlo, può non solo riflettere sulle altre possibili soluzioni, ma potrebbe anche arrivare a interpretare il suo senso di ingiustizia come dovuto, non tanto alla reale situazione, ma  come un “derivato” da una mancanza affettiva che esige di essere colmata, da un bisogno che richieda una immediata soddisfazione; egli può arrivare anche a rendersi conto che  non ha bisogno proprio di quella cosa che vuole rubare ma che si tratta di una azione-protesta “simbolica” nei confronti di una situazione vissuta come ingiusta. Egli potrebbe addirittura riuscire a collegare tutto ciò con una frustrazione affettiva di antica data e di origine familiare, che ha dato luogo ad una visione distorta della realtà con effetti di generalizzare una visione pessimistica del prossimo (“i commercianti sono tutti ladri”, “gli uomini politici pensano tutti solo alla loro poltrona” ecc.). Una volta messo a fuoco il reale significato del suo desiderio (immancabilmente di natura affettiva), egli  potrebbe scoprire che una parte del suo ragionamento è distorto, o parziale o comunque che  possono essere disponibili altri mezzi di soddisfazione, diversi  dal furto e altre relazioni interpersonali  non necessariamente fraudolente.

       Se il soggetto invece “sceglie”, per così dire, la soluzione dell’atto criminoso e si limita a seguire i suoi impulsi e a rubare  tout court ciò che desidera, essendo impossibilitato a riflettere sul significato che per lui ha il furto, non solo non riuscirà a trattenersi dall’azione delittuosa ma, ignorandone la natura “sostitutiva” sarà costretto a ripeterla in quanto l’acquisizione ottenuta non potrà mai compensarlo dal disagio vissuto, essendo esso, evidentemente di altra natura. Poiché, però, il desiderio è “altro” da quello cosciente, la soddisfazione non potrà che risultare  provvisoria; presto si esaurirà e ricomparirà il desiderio di rubare. Questa è la ragione per cui il ladro continua a rubare anche se il bottino è così ingente da non richiedere ulteriori incrementi.

Certamente anche il furto e la cosa rubata hanno, in un certo qual modo un valore simbolico, ma non promuovono riflessione e giudizio, non veicolano significati, ma sostituiscono “concretamente” l’oggetto originario al quale il bisogno è collegato.

       Possiamo fare un ulteriore passo avanti dicendo che, all’interno di questa situazione, in cui l’azione delittuosa assume   un significato emotivo, anche se non accessibile alla coscienza, il criminale stesso assume  un ruolo simbolico: egli si identifica cioè con un personaggio del suo mondo interiore, del suo “mondo interno”.

       Il ruolo che ciascuno assume nella vita, criminale o meno che sia,  è sempre, prima di tutto,  un ruolo “familiare”: il padre, la madre, lui stesso bambino o adolescente, il fratello, la sorella (indipendentemente che egli abbia davvero fratelli o sorelle). Anche il criminale, come tutti, nella vita sarà un capo, un dipendente, un persecutore, una vittima ecc. così come potrà avere un ruolo lavorativo o professionale; ma comunque il suo ruolo reale corrisponderà  nella realtà psichica (a livello simbolico) a quello di un membro della famiglia che sarà diverso a seconda delle diverse situazioni (o diverse posizioni nella medesima situazione) in cui il soggetto si troverà a vivere e ad operare.

       Se ci è  consentito di essere riduttivi rispetto alla complessità delle situazioni, possiamo fare degli esempi. Il ruolo psicologico assunto in un certo momento da un criminale può essere quello di un figlio che sottrae il nutrimento alla madre egoista (il rapinatore di una banca); oppure un padre dispotico (industriale che tratta male i suoi operai); oppure una madre prostituta (un politico corrotto). Si tratta di situazioni che non sono  simboliche nella misura in cui non servono a rappresentare delle idee, ma a realizzarle. La banca da rapinare non simbolizza una madre egoista, non corrisponde alla idea che sia tale, ma “è” una madre egoista che pertanto è legittimo rapinare.

 

 

Profilo psicologico del criminale

 

Possiamo ora  raffigurarci il criminale come un soggetto che:

 

a)    è arroccato in una posizione narcisistica,

b)    utilizza le parole e le azioni non per comunicare ma per controllare, possedere, sottrarre, ferire, sopraffare e  quant’altro può essere ascrivibile ad una posizione  egoistica,

c)    non tiene in alcun conto il valore e la sensibilità dell’altro.

d)    ritiene la sua ideologia conforme alla realtà delle cose  data la  sua totale sfiducia nelle relazioni interpersonali.

 

Ma dobbiamo anche aggiungere che il criminale non è così per vocazione, ma a seguito dei casi della vita che lo hanno reso intollerabile nei confronti della sofferenza emotiva che evidentemente considera ingiusta, inopportuna, priva di significato e, soprattutto, imputabile agli altri.

Con un termine moderno potremmo dire che il criminale non ha potuto, per tutta una serie di ragioni, usufruire di una “pari opportunità” nell’ambito della vita di relazione e utilizza l’azione al posto del pensiero. E questo indipendentemente dallo “status” economico, in quanto i disagi e le sofferenze lamentate e spesso effettivamente patite, sono di natura emotiva e non materiale

       Il criminale dunque é un soggetto che  essendo  più propenso al passaggio all’azione piuttosto che alla riflessione e all’autocritica, si presenta come sostanzialmente refrattario a qualsiasi sistema di valori sociali. Di conseguenza, si potrebbe ritenere che solo una pena “esemplare” possa indurlo ad un diverso atteggiamento e comportamento.

       Tuttavia, per fortuna,  le cose non stanno proprio così: non essendo la personalità intesa come una  struttura unitaria monolitica.

       Oggi sappiamo che non esiste il delinquente o l’onesto o l’alienato o il sano, ma che ogni personalità è composita, vale a dire che si tratta di una struttura composta di “parti” in rapporto dinamico tra loro, a volte più o meno integrate, altre volte scarsamente in rapporto reciproco. La natura della personalità, da questo punto di vista, non è univoca, ma dipende  dalla parte del Sé che ne ha assunto in quel momento il controllo. Questo va considerato anche  in senso opposto: vale a dire che anche nella persona più onesta  si celano, in qualche parte della personalità, aspetti delinquenziali che potrebbero emergere in determinate situazioni.

Ciascuno di noi possiede quindi parti mature e immature, adulte e infantili, oneste e criminali. Anche nei casi più gravi, più insani, vi è sempre una parte sana della personalità che potrebbe in teoria (con tutte le riserve del caso) arrivare a riprendere il controllo della personalità.

       Se è vero che il criminale è più o meno durevolmente dominato da una parte negativa, narcisista  del Sé, è anche vero che possiede anche altri aspetti di personalità che attualmente sono messi “fuori gioco”, lontani dalla coscienza, ma che particolari condizioni ambientali e soprattutto di rapporto umano, potrebbero rimettere in questione. Certamente le situazioni sono molto variabili: é chiaro che la struttura di un delinquente psicopatico è diversa da quella di un truffatore, così come il narcisismo di un rapinatore è diverso dal narcisismo di un uomo politico corrotto. In certi casi poi il cinismo è atavico e radicato, mentre in altri casi può essere derivato in gran parte (mai esclusivamente) dal clima familiare o extra familiare in cui il soggetto è vissuto. Tuttavia quello che conta innanzitutto è che al di là delle differenze,  la personalità non è strutturalmente monolitica, per cui possiamo sempre  ritenere che sia possibile instaurare un processo di ristrutturazione che cambi l’assetto, per così, dire gerarchico delle parti della personalità.

Ma veniamo ora al processo di rieducazione.

 

 

Il progetto  rieducativo-riabilitativo

 

A questo punto, una volta stabilito che esiste sempre una correlazione tra reato e personalità del reo in termini di significato e di funzionalità, e che esiste sempre  una possibilità di trasformazione e di ristrutturazione di qualsiasi personalità per quanto patologica essa sia,  possediamo  gli elementi teorici per poter costruire un modello rieducativo di natura processuale.

Ci rendiamo conto che  parlare  di fattibilità non significa ancora dir nulla sulle sue probabilità di realizzazione. Quello che sosteniamo è che, comunque, senza un modello che sia in grado di sostenere e di giustificare l’affermazione di fattibilità,  nessuna realizzazione è possibile, a meno che non si voglia credere all’influenza del “caso” o si conti sui “colpi di fortuna”: le conversioni sulla via di Damasco sono oggi alquanto rare

Anche se l’affermazione che segue può sembrare paradossale, dobbiamo dire che il criterio di fattibilità è utile anche qualora la probabilità di realizzazione risulti pressoché nulla.

“Ma, si potrebbe obbiettare,  proprio questo è il punto. Dato che ogni caso di delinquenza è presentato come un caso complesso che richiede una sorta di terapia a lungo termine, la rieducazione diviene impraticabile, data la situazione carceraria di oggi. E nemmeno si può pensare che le cose saranno mai tali da poter essere affrontate nel modo che sembrerebbe implicitamente suggerire l’esposizione appena conclusa”.

Possiamo rispondere che se è pur vero che ciò che caratterizza  il progetto di rieducazione del detenuto è l’aver a che fare con una situazione mentale complessa, in cui  problemi come quello del sovraffollamento, della frequenza dei trasferimenti, della carenza di personale specialistico, della scarsa disponibilità degli stessi soggetti interessati, (per parlare solo degli elementi più evidenti) sono tali da scoraggiare il più perseverante e preparato degli operatori sociali; tuttavia non possiamo nemmeno continuare a contare  su elementi, quale è il “patto di buona condotta”, che non hanno alcuna  ragionevole prospettiva di successo per il fatto che sono fondati su presupposti sbagliati o infondati.

Anche se ciò spesso accade, un tale non può far finta che la propria moglie gli sia fedele per timore di affrontare la sua incapacità di soddisfarne le esigenze affettive: prima o poi la situazione diventerà evidente e intollerabile.

 I fatti di cronaca stanno poi dimostrando che la “benevolenza” non può essere una valida alternativa alla pena utilizzata  come deterrente. Per gran parte dei criminali la tolleranza delle Società è semplicemente vissuta (al di là delle dichiarazioni) un segno di debolezza; anzi è a volte vissuta addirittura come una implicita ammissione di responsabilità sociale. D’altra parte, è naturale che sia così, dato che il criminale cambierebbe partito solo la sua organizzazione mentale avesse  basi diverse da quelle che lo hanno indotto al crimine e che si fonda su una precisa concezione del mondo.

       La stessa faccenda dei “pentiti”, mostra che sul “pentito” si può contare  solo per creare fratture all’interno della criminalità; egli acconsente a collaborare per una serie di ragioni che nulla hanno a che vedere con il “pentimento” che, da questo punto di vista, suona come un termine grottesco. L’utilizzazione del pentito ha sortito tutta una serie di risultati tranne quello di cambiarne la natura; né credo che nessuno si sia illuso che  questo rientrasse tra gli obbiettivi previsti dalla sua utilizzazione.

E allora? Innanzitutto se l’analisi differenziata del reato mettesse in evidenza tutto ciò, non in termini di opinione, ma come esito di una indagine scientifica, molte inutili diatribe potrebbero essere evitate; in secondo luogo ci si potrebbe davvero dedicare a quella parte della popolazione carceraria che è ricuperabile, per quanto esigua possa essere; in terzo luogo ci si deciderebbe ad impiegare le dovute energie a quella fase di età che è il crogiolo della futura criminalità e che oggi viene liquidata troppo sommariamente attraverso il concetto di imputabilità, cioè l’età adolescenziale.

       Se cioè la criminalità  si rivelasse un problema sul quale si può solo agire preventivamente e non a fatti avvenuti, potremmo  evitare le tentazioni demagogiche che provocano appunto uno  spreco di energia senza, nel migliore dei casi, alcun risultato rilevante e che servono solo a mascherare la nostra impotenza (la questione della sessualità in carcere, i parametri di buona condotta, l’affidamento all’assistenza sociale ecc.).

In sintesi possiamo ribadire che l’analisi differenziata del reato alla luce delle esigenze trasformative della personalità del reo è l’unica via percorribile,  qualsiasi sia il suo risultato. Se tale via non fosse anch’essa percorribile non ci resterebbe altro che affrontare la criminalità dal versante della prevenzione e utilizzando l’unico deterrente della pena “certa”.

 

 

L’analisi differenziata del reato

 

       Si tratta del paragrafo pragmatico o meglio programmatico di questo nostro lavoro.

       La maggiore difficoltà nell’attuare una adeguata analisi del reato deriva dalla particolare mancanza di disponibilità del detenuto e dalla assenza di motivazioni trasformative. Mentre infatti il lavoro clinico che, in fondo, si propone gli stessi obbietti di conoscenza e trasformativi, conta sulla disponibilità del paziente e sulla sua sincerità, nel caso del detenuto queste vengono a mancare, dato  che manca la fondamentale fiducia nella così detta “relazione di aiuto”.

       Accade, nel caso del detenuto, quello che accade nel caso dell’adolescente nel suo conflitto inter-generazionale: la situazione interpersonale è dominata dall’idea che l’altro fa parte, “milita”,  in campo avverso, per cui “non ci si può mai fidare”.

       Per di più si aggiunge, nel caso del detenuto, la natura perversa della sua ideologia relazionale, per cui chi è sincero nei suoi confronti rischia di  porgere  comunque il fianco alla manipolazione ed alla distorsione del significato.

       L’ideologia del perverso è infatti cinica e amorale e può essere riassunta con le parole di D. Meltzer quando, trattando appunto delle perversioni afferma:

“ L’essenza dell’impulso perverso è di trasformare il buono in cattivo, pur conservando l’apparenza del buono, con delinquente sfida di ogni giudizio fondato solo su criteri descrittivi..................”.

Il delinquente distorce il significato di ogni atteggiamento di colui che gli mostra disponibilità,  distorcendone le motivazioni; per cui, continua Meltzer, “I buoni oggetti vengono resi deboli in virtù proprio delle loro qualità, come la esitazione a giudicare senza prove evidenti, la generosità, l’indulgenza, l’esame autocritico, la prontezza al sacrificio, ecc.”

Il rifiuto a giudicare in assenza di prove viene considerato dal delinquente come  equivalente ad un giudizio di innocenza; la riluttanza a punire (e questo ci interessa particolarmente) viene salutata come debolezza, la prontezza al sacrificio come stupidità.

       Questo rende ragione del fatto che nonostante tutte le agevolazioni e la disponibilità mostrata, il detenuto spesso non si perita di reiterare il reato.

       L’analisi differenziale deve quindi tener conto di questi aspetti che danno luogo ad un atteggiamento di insincerità da parte del criminale; da qui la necessità di ottenere sia il materiale anamnestico sia quello  relativo alla personalità del detenuto in maniera indiretta, in quanto le dichiarazioni e le informazioni fornite dall’interessato (i colloqui psicologici) sono spesso  fallaci e richiedono di essere  verificate, in termini di coerenza, sottoponendole a quello che potremmo chiamare  “confronto incrociato”. A tale proposito saranno importanti strumenti come i test proiettivi, l’esame grafologico, il racconto familiare della storia del soggetto, l’esame degli atti processuali, l’indagine sui precedenti ecc.

       Quello che assume un rilievo particolare, come del resto accade nel tradizionale trattamento psicoanalitico, è la utilizzazione della  così detta situazione di transfert. Si tratta del fatto che ogni soggetto tende a rivivere e a riproporre nel presente, nella situazione attuale, atteggiamenti e comportamenti che riflettono pregiudizialmente la sua concezione di vita e la sua ideologia relazionale posti in essere in passato; al punto e con tale convinzione che il soggetto tende addirittura a forzare il suo interlocutore  ad assumere il ruolo che egli ha deciso (inconsciamente) di assegnargli. Il detenuto tende cioè non solo a riproporsi in termini di atteggiamenti, così come gli suggerisce la sua personalità, ma  anche spinge gli altri a corrispondere alle sue aspettative, per quanto pregiudizievoli possano essere.

       In termini più specifici (e secondo un linguaggio tecnico) si dice che il detenuto (come del resto ogni altro soggetto) tende a ricostruire e rivivere le configurazioni e le vicende che caratterizzano  il suo “mondo interno”. I suoi personaggi interni sono quindi una sorta di “personaggi in cerca di autore” di pirandelliana memoria.

Per questo motivo, oltre al materiale indiretto di cui abbiamo fatto menzione sarà indispensabile conoscere qual è lo stile di vita che il detenuto tende a realizzare o ha già realizzato nel carcere. A questo proposito possono essere utili tecniche psicologiche rappresentazionali come lo psicodramma e il sociodramma. 

       Se riteniamo infine che il  problema della delinquenza adulta abbia un antecedente storico nella delinquenza minorile  (ed è difficile smentirlo), non possiamo non concentrare in ogni caso l’attenzione su quella che è certamente la matrice (sia essa considerata generatrice o modulante), dei comportamenti  asociali e cioè la famiglia di origine e il gruppo dei coetanei. Anche la stessa rieducazione del detenuto diventa critica senza la concomitante collaborazione familiare e del gruppo dei pari; da qui l’imprescindibilità dalle tecniche di gruppo.

       Un intervento rieducativo che non metta in moto, parallelamente al trattamento individuale, una qualsivoglia forma di monitoraggio familiare (metodologicamente convincente) è quasi certamente destinato a fallire.

       Del resto questa “complementarietà operativa”, come abbiamo visto, è prevista espressamente dall’Ordinamento penitenziario laddove sono sollecitati  i rapporti tra il detenuto e la sua famiglia.

      

       A questo punto il nostro lavoro  di sensibilizzazione al problema rieducativo potrebbe considerarsi  concluso, anche perché il procedere oltre richiede   impegno di energie e una  stesura di programmi che devono essere correlati ad un approccio concreto al mondo penitenziario.

Vorremmo però aggiungere qualcosa riguardo ai diritti della difesa.

 

 

I diritti della difesa

 

Vi sono, oltre alle difficoltà dovute  alle strutture caratterologiche dei soggetti, anche  degli ostacoli oggettivi  al trattamento rieducativo; dovuti in particolare  alle difficoltà che derivano dalla restrizione della libertà, dai frequenti trasferimenti, dalla burocrazia che rende difficile il rapporto tra detenuto e mondo esterno al carcere, compreso quello stesso con lo psicologo o il rappresentante legale. Difficoltà, questa volta, che sono in gran parte indipendenti dalla volontà del detenuto.

       Abbiamo visto che la posizione dello psicologo nel carcere  non è favorito dall’Ordinamento penitenziario, inoltre occorre fare i conti con le difficoltà oggettive che riguardano il personale di custodia e il problema della sicurezza e infine è la stessa opinione pubblica che ha un concetto di rieducazione difficilmente coniugabile con il rispetto per la personalità del detenuto.

       La posizione dello psicologo in qualsiasi trattamento psicoterapico è in un certo senso passiva, nella misura in cui dipende dalla disponibilità del paziente; tuttavia vi è anche un intervento attivo dello psicologo che consiste nella salvaguardia di quelle che sono le condizioni strutturali senza le quali il trattamento non è possibile. Se  questo può avvenire anche in assenza di una collaborazione dell’utente, come quando si tratta ad esempio di una grave patologia in regime di istituzionalizzazione, non è possibile però senza la collaborazione istituzionale..

       Verrebbe da dire che se è possibile curare lo schizofrenico in situazione di ricovero, attraverso una strutturazione delle condizioni ambientali e di rapporto in totale assenza della collaborazione del paziente, questo dovrebbe essere tanto più possibile  in contesto penitenziario in cui, per lo meno, la capacità di intendere e di volere del detenuto è, almeno per definizione, integra e in cui vi è, da parte del detenuto, una qualche motivazione alla collaborazione.

       Sembra invece che per quanto riguarda il detenuto, i diritti della difesa sostanzialmente cessino al momento della sentenza. Questo però non può essere vero nella misura in cui subentrano quei diritti del detenuto che vanno dal rispetto delle condizioni umanitarie alla applicazione dell’Ordinamento penitenziario sostanziato dal processo di rieducazione e riabilitazione di cui stiamo trattando. Vale a dire che il concetto di rappresentanza legale non viene meno, ma muta la sua sostanza nella misura in cui viene deposto il codice penale e di procedura penale e viene assunto quello dell’Ordinamento penitenziario.

La rieducazione è un diritto del detenuto e non solo un dovere della Istituzione penitenziaria, ma crediamo che la realizzazione di questo principio sia ancora a di là da venire.

 

 

Conclusioni

 

       Dopo un excursus storico sul significato della pena, abbiamo iniziato rilevando le discrepanze esistenti tra l’ideologia della rieducazione e la sua inefficienza sul piano dell’attuazione.

       Abbiamo potuto osservare come la  attività lavorativa che assume il ruolo di una vera e propria “ergoterapia” e che consiste nel porre al centro del progetto rieducativo la  frequenza ai   corsi ed alle attività lavorative, sia importante solo se diviene complementare alla possibilità di crescita personale dell’individuo e non rimanga solo un modo, seppur utile, per non oziare in cella, sostituendosi inoltre ad ogni progetto di analisi personologica.

       Nel corso dello scritto si è anche sottolineato negativamente il ruolo centrale che assume quello che abbiamo definito “il patto di buona condotta” che finisce per essere il perno attorno al quale ruota tutta l’ideologia riabilitativa, permettendo di eludere il problema rieducativo..

       Si è quindi sostenuto la necessità di una  analisi differenziale del reato correlata poi con la specifica personalità del singolo detenuto (individuazione del progetto di rieducazione).     Ne risulterebbe una serie di provvedimenti che possiamo sintetizzare come segue:

 

- La costituzione di una Commissione di studio  per l’analisi differenziale del reato

 

- La creazione di un monitoraggio individuale del detenuto fondato sulla correlazione tra tipo di reato ascrittogli e profilo psicologico, che permetta di seguire il processo rieducativo.

 

- La istituzionalizzazione della pratica gruppale come strumento riabilitativo di elezione per la rieducazione del detenuto, riservando il trattamento individuale solo a quei detenuti con atteggiamenti eccessivamente narcisistici e con tendenze all’isolamento, fermo restando, comunque, l’obbiettivo di un inserimento futuro in un gruppo.

 

-  La utilizzazione della anamnesi individuale e familiare e di tecniche rappresentazionali e proiettive come strumenti di conoscenza ambientale e di indagine psicologica del soggetto, onde superare il problema della scarsa disponibilità alla comunicazione, tipica del detenuto.

 

-  L’istituzione di comunità non esclusivamente a carattere lavorativo per i detenuti che non possono utilizzare di progressivi contatti con la famiglia di origine o coniugale; strutture in cui trascorrere anche l’eventuale misura alternativa con la presenza di educatori volontari, una sorta di passaggio dal carcere alla libertà avente natura “transizionale”.

 

       Certamente ancora altri sono i problemi che caratterizzano il problema rieducativo  (ad esempio il problema della sessualità in carcere) ma sarebbe un errore affrontarli singolarmente senza poterli inserire in un più vasto progetto di indagine e di trattamento.

Il presente lavoro ha solo lo scopo di proporre una visione del progetto e del processo rieducativo del detenuto, fondandoli su basi scientificamente attendibili e in grado di orientare nella scelta degli obbiettivi e delle strategie.

 

 

 

[1]Insigne psicoanalista inglese autore, tra l’altro, di un interessante studio sulla importanza delle funzioni familiari  per lo sviluppo psicologico del bambino:

Donald Meltzer: Il ruolo educativo della famiglia - Torino

[2] E’ evidente come le esperienze negative siano estremamente deleterie se avvengono in un’epoca in cui il bambino è “naturalmente” portato a vivere il mondo come persecutorio; in tal caso, anziché una bonifica vi è una drammatica conferma della natura malvagia del mondo.

[3] Il termine “oggetto” va inteso nel senso sintattico di “complemento oggetto”, si tratta dunque  di cose, luoghi, immagini, persone, situazioni, utilizzate come simboli.

[4] Con sublimazione si intende la canalizzazione e lo scarico delle energie pulsionali (libidiche e aggressive) in direzioni e con modalità sostitutive rispetto alle originarie. Il processo avverrebbe in due tempi: il primo riguarda la trasformazione dell’energia istintuale (ad esempio da sessuale in non sessuale) il secondo l’utilizzazione della attività sostitutiva.