Calma scienziati, io vi rispetto

di Piergiorgio Odifreddi

Un incontro sul lago d'Orta tra artisti, scrittori e intellettuali sul tema "Vedere e pensare",
ossia il rapporto tra mente e percezione

Il pensatore francese (Derrida) parla dei suoi rapporti con la matematica e in particolare con Husserl e del perché i suoi legami con la scienza sono stati fraintesi

Nel 1966 un giovane filosofo francese di origine ebrea e di nome Jacques Derrida tenne una conferenza alla Johns Hopkins University, e scatenò un terremoto intellettuale proponendo un nuovo modo di leggere e interpretare testi che divenne noto come decostruzionismo. Da un giorno all'altro Derrida divenne l'enfant terrible della filosofia continentale, e il decostruzionismo suscitò applausi e fischi nei dipartimenti umanistici.

Nel 1967 Derrida esplose anche sul mercato editoriale, con una trilogia di opere magmatiche e difficili che contribuirono che contribuiscono ad aumentare il numero sia dei suoi estimatori che dei suoi detrattori: La Scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e La grammatologia. Da quel momento i suoi titoli si sono succeduti a girandola, e hanno ormai raggiunto la settantina.

In occasione dell'incontro di Orta, Derrida ha acconsentito ad affrontare con noi il tema del controverso rapporto fra il suo pensiero e la scienza.

Lei deve aver avuto un certo interesse per la matematica, se il suo primo libro è stato un'introduzione alle Origini della geometria di Husserl. Come ci è arrivato?

«Quand'ero studente, negli ..... anni '50, in Francia c'erano due approcci tradizionali alla fenomenologia. Uno, dominato da Sartre e Merleau-Ponty, si concentrava sulle percezioni. L'altro, quello marxista, cercava di legare la fenomenologia alla politica. Io ero invece interessato alla scrittura, e nel suo libro Husserl affrontava precisamente il problema di come la scienza e la matematica possano parlare e scrivere degli oggetti ideali. Husserl pensava che solo attraverso il linguaggio gli oggetti ideali possano essere prodotti storicamente, ed entrare a far parte della tradizione scientifica».

Oggetti ideali nel senso platonico?

Questo è il punto. Husserl si opponeva a Platone, il quale non credeva affatto che le idee dovessero essere trascritte nel linguaggio, che per lui era soltanto un ausilio secondario. Per Husserl, invece, il linguaggio era essenziale per la stessa produzione di teoremi matematici o teorie scientifiche. E io volevo appunto capire il ruolo centrale del linguaggio nella letteratura e, nella scienza».

E questo ruolo sarebbe ciò che lei chiama "logocentrismo"?

«Bisogna anzitutto distinguere il "logocentrismo" da un concetto vicino ma diverso, il "fonocentrismo": l'idea, cioè, che l'oralità sia superiore alla scrittura, che 1a parola sia più presente e più vicina alla vita. Il "fonocentrismo", che è universale, diventa "logocentrismo" con le scritture fonetiche, i cui segni rappresentano appunto dei suoni. Allora l'autorità del logos si trasferisce alla scrittura, in tutti i suoi significati: di parola, ragione, proporzione ... ».

E qual è l'essenza della sua critica a "logocentrismo", nella Grammatologia?

«Più che un errore filosofico, il "logocentrismo" è una struttura culturale Basta pensare al Vangelo secondo Giovanni "In principio era la parola". O al Fedro platonico, in cui il linguaggio diventa una rappresentazione di una rappresentazione, perché la parola scritta rappresenta la parola orale che rappresenta il pensiero. O a Saussure, in cui il linguaggio è il significante di un significante. Io ho cercato di elaborare un concetto di "traccia" completamente generale, che potesse adattarsi sia al linguaggio scritto che a quello orale».

La traccia è ciò che rimane?

«No, no! Può anche essere cancellata. Semplicemente, la traccia è ciò che fa riferimento a qualcos'altro, senza mai essere presente autonomamente. Anzi, la decostruzione del "logocentrismo" non si può separare dalla decostruzione dell'autorità e del privilegio della presenza, sia spaziale e temporale».

Lei ha appena prima enunciato la parola chiave della sua filosofia: "decostruzione".

«La parola deriva da un'espressione di Heidegger, Destruktion, da intendersi come "destrutturazione" e non come "distruzione". Io la uso nel senso di un'analisi dei diversi livelli in cui si stratifica la cultura».

E c'è anche un aspetto complementare, di ricostruzione?

«Preferirei parlare di affermazione di ciò che è rimosso, più che di ricostruzione. Per sottolineare che la decostruzione è qualcosa di positivo, non di negativo».

Leggendo i suoi libri, mi è sembrato di vedere esempi di decostruzione lungo tutta la storia della matematica: Euclide decostruisce Pitagora, Cartesio decostruisce Euclide...

«Certamente la decostruzio ne non è un fenomeno contemporaneo, si è sempre verificata. Quando un filosofo costruisce un si stema, c'è sempre qualcosa che rimane inconsistente e che finisce per decostruirlo automaticamente».

Gli informatici direbbero che ogni programma ha una backdoor insospettata.

«Non si tratta soltanto dell'inaspettato: la decostruzione è l'accadere dell'impossibile, o di ciò che sembrava impossibile».

Uno dei motti del decostruzionismo è che "non c'è niente al di fuori del testo"

«Bisogna stare attenti a non fraintenderlo, intendendo per "testo" un libro: dire "non c'è niente al di fuori del libro" sarebbe sciocco. Il testo va inteso in un senso generalizzato, che arriva a comprendere l'intero mondo come un insieme di tracce: in questo senso, non c'è nient'altro».

Sarebbe come dire che non c'è la metafisica?

«Se si trasforma la fisica in un testo", allora si può dire che "non c'è niente al di fuori del testo", significa che non c'è la metafisica».

E per quanto riguarda la matematica, che legami ci sono con il teorema di Godel?

«Il teorema di Godel, che ho citato fin dal mio primo libro su Husserl, tratta di un tipo di limitazione che potremmo chiamare "omogenea": qualcosa che potrebbe essere decidibile o calcolabile in linea di principio, non lo è in pratica. A me interessa una limitazione più forte, di tipo "eterogeneo" :ciò che non è decidibile o calcolabile nemmeno in linea di principio. E mi interessa per le applicazioni all'etica, o alla politica».

Nel senso che la libertà ha queste caratteristiche?

«In un certo senso, sì. Se sappiamo cosa fare, si tratta solo di realizzare un programma. E' quando non sappiamo cosa fare, che siamo costretti a prendere delle vere decisioni: ad esempio, quando due persone stanno annegando e noi possiamo salvarne una sola. La responsabilità etica, giuridica o politica passa attraverso questa indecidibilità, che è di un tipo diverso da quello logico».

Mi sembra che lei abbia rivelato, anche in questo colloquio, di prendere seriamente la scienza e la matematica. Come mai la sua filosofia è invece divenuta una specie di anatema negli ambienti scientifici?

«Ci sono anzitutto delle beghe accademiche causate dal ruolo che ho, o che si crede che abbia, negli ambienti umanistici americani. E poi c'è una giusta reazione all'uso sbagliato delle metafore scientifiche da parte degli umanisti. La cosa ridicola è che il bersaglio sia diventato proprio io, benché nella Mitologia bianca, in Margini della filosofia, abbia esplicitamente criticato questo uso. Il fatto è che coloro che mi attaccano non leggono i miei libri».

Non sarebbe meglio che umanisti e scienziati parlassero di più fra loro, e si leggessero di più a vicenda?

«Assolutamente. E sono convinto che dovremmo farlo da entrambi i lati, anche se temo di non aver fatto abbastanza io stesso».