Dall’altra parte della barricata?

Laura Tajoli, Antonietta Pedrinazzi


Il ruolo e le funzioni degli agenti di polizia pentienziaria. I problemi legati alla loro professione,difficile, ma ricca e appagante sul piano umano, sono spesso gli stessi vissuti dai detenuti
Lungo il percorso che ci sta conducendo attraverso il sistema penitenziario italiano e internazionale non potevamo trascurare di approfondire il ruolo e le funzioni di chi, nel carcere, lavora quotidianamente: gli agenti di Poliizia Penitenziaria.
Per farci un’idea più precisa dei problemi legati a questa professione, abbiamo intervistato due agenti che operano a Milano. Dietro loro esplicita richiesta, non pubblicheremo i loro nomi, limitandoci a indicarli con le lettere A e B.

Come siete diventati agenti di Polizia Penitenziaria?
A. Abbiamo partecipato al primo concorso pubblico seguito alla riforma del 1990, nel 1993.
Era un concorso per 1200 agenti, su base regionale.

Si trattava di un concorso per accedere al corso di formazione?
A. Sì, come per tutte le forze pubbliche, per accedere al corso di formazione professionale che precede l’effettivo inserimento occorre fare un concorso.
Se ammessi, alla fine del corso si riceve una valutazione e, se l’esito è positivo, è possibile iniziare a lavorare come agenti di Polizia Penitenziaria. Il nostro corso di formazione era della durata di sei mesi.

In Italia ci sono diverse scuole di formazione di polizia penitenziaria.
A. Sì, ci sono sei scuole, dislocate su tutto il territorio. Io sono andato alla scuola di Portici, mentre il mio collega è andato in quella di Monastir, in Sardegna. Il corso prevedeva la formazione, il perfezionamento e anche un periodo di tirocinio.

Quali sono gli insegnamenti previsti?
B. Materie didattiche che comprendono le fonti del diritto, la procedura penale, l’ordinamento penitenziario. Ci sono poi degli insegnamenti chiamati tecniche penitenziarie, e materie definite “accessorie”, perché non fanno punteggio pur essendo importanti, come criminologia e tecnica delle comunicazioni. Questo per quanto attiene all’aspetto didattico. C’è poi un aspetto pratico, che comprende discipline come “armi e tiro” o “arti marziali”.

Come mai avete deciso di frequentare questo corso? Quali sono state le vostre motivazioni di fondo?
A. Sia io che il mio collega siamo “figli d’arte”. Entrambi i nostri padri svolgono o hanno svolto la nostra stessa professione. Immagino, quindi, che siamo stati influenzati dal clima familiare.

Accade spesso che chi sceglie la vostra professione sia “figlio d’arte”?
B. No. Noi lo siamo per caso. I nostri padri, d’altronde, non volevano neppure che intraprendessimo questa carriera, difficile e faticosa. Gli agenti di Polizia Penitenziaria sono in qualche modo discriminati rispetto a quelli delle altre forze di Polizia.

La riforma del 1990 ha migliorato la vostra posizione?
A. La riforma ha sortito un risultato monco. Il nostro corpo manca di un quadro dirigenziale. Noi operiamo senza il regolamento di servizio che avrebbe dovuto sostituire, a partire dal 1990, quello vecchio degli Agenti di Custodia. C’è un disegno di legge che è fermo al Senato (vedi box nelle pagine seguenti, n.d.r.) che prevede di rimediare a questa situazione. Si cerca di crescere. Rispetto agli altri corpi, quello della polizia penitenziaria possiede un ordinamento più avanzato. Per esempio, prevede la libera sindacalizzazione.

Andiamo con ordine. Dopo il corso di formazione dove siete stati mandati? Il corso vi aveva preparato a affrontare le situazioni in cui vi siete trovati a operare?
A. Niente potrebbe preparare a affrontare una situazione come quella che vive chi sta dentro il carcere. Certo, il periodo di tirocinio tutelato, in cui abbiamo svolto più che altro il ruolo di osservatori, è stato molto utile.

Come è possibile riuscire a mantenere sempre il giusto equilibrio?
B. Dipende dal tipo di detenuto che si ha di fronte, se si tratta di un delinquente incallito, che magari appartiene alla criminalità organizzata, oppure di una persona che ha fatto qualche bravata, oppure, ancora, di un innocente (purtroppo ce ne stanno parecchi in carcere!). Quando ho iniziato a lavorare “sul campo” credevo che i detenuti mi avrebbero rispettato per forza, perché ero un agente. Ho imparato, invece, che il rispetto occorre guadagnarselo, senza nascondersi dietro la divisa. Quando gli viene tolta la libertà, un uomo cambia totalmente. Rapportarsi con delle persone private della libertà, costrette per di più a vivere in condizioni di sovraffollamento e di disagio, non è semplice.
A. Per me è stato difficile trovare un equilibrio tra lo svolgimento del mio dovere, operando in maniera intransigente, mettendo in pratica il regolamento e, al tempo stesso, la necessità di comprendere i problemi di una persona con i suoi bisogni, le sue esigenze. Ho lavorato per circa otto mesi al reparto colloqui. L’impatto con la famiglia è il momento più delicato perché entrano in gioco fattori quali l’umiliazione, la vergogna. Al loro posto, non credo che sarei capace di reggere.
B. Io ho iniziato la mia esperienza nel corpo penitenziario in una struttura di massima sicurezza, dove lo spazio per i rapporti interpersonali è davvero poco. In seguito sono stato trasferito in istituto, in un reparto dove sono detenute le persone che hanno commesso i reati a sfondo sessuale oppure i collaboratori di giustizia di scarsa importanza. Persone, queste, emarginate dagli altri detenuti. il nostro compito è garantire sicurezza a chi sta “fuori”, ma soprattutto, a quelli che stanno dentro. La società, però, non è a conoscenza dei diversi aspetti del nostro lavoro, preferisce non pensare all’esistenza del carcere, il carcere dà fastidio.

Come valutare le iniziative all’interno del carcere promosse da “esterni”? Penso a recite teatrali oppure, più di recente, addirittura sfilate di moda...
A. Per il Corpo di polizia penitenziaria sono un elemento di disturbo.
B. Sono un elemento di disturbo dal punto di vista della sicurezza., perché implica un maggiore controllo.
A. Certo, per il detenuto possono essere iniziative che apportano un sollievo, che contribuiscono a attenuare la sua aggressività. È evidente, però, che quando le iniziative si accumulano, per noi diventa diffcile svolgere al meglio il nostro lavoro. Bisogna poi stare attenti al pietismo. Le diverse iniziative hanno senso se poi sono finalizzate a qualche cosa, a un obiettivo concreto. Non serve a nessuno che qualcuno venga in carcere per dire “povero detenuto!” e poi se ne vada lasciando le cose come prima. E poi, bisogna non farsi strumentalizzare da questi meccanismi. Offrire tutto a tutti non serve a nulla. Individuiamo delle persone che sono recuperabili, e inidirizziamo gli sforzi nella loro direzione.
A. Un cantante, un politico, uno stilista che vengono in carcere, la maggior parte delle volte lo fanno per farsi pubblicità.

Gli agenti di polizia penitenziaria, all’esterno, hanno un’immagine poco chiara.
B. La gente non ha una conoscenza storica del nostro corpo. Le cose, come dicevamo, stanno cambiando. Il ministro della Giustizia Diliberto sta facendo molto. Resta il problema della chiusura nei nostri confronti da parte della società. A mio avviso c’è anche un eccessivo vittimismo e pietismo nei confronti della popolazione detenuta e anche nei confronti della Polizia penitenziaria.
A. Lo status giuridico nostro è pari a quello dei Carabinieri e della Polizia di Stato...
B. Ci offende vedere come spesso veniamo trattati dai giornali, alla stregua di aguzzini!

Questo per quanto riguarda i rapporti con l’esterno. “Dentro”, quali sono le maggiori difficoltà?
A. Il nostro lavoro è appagante sul piano umano. Col tempo si acquisisce una sensibilità fuori dal comune. Si riesce a guardare in faccia le persone e a capire che persone sono. Io ho conosciuto persone con trent’anni di servizio che avevano una percezione ambientale eccezionale. I nostri problemi, però, sono di tipo più organizzativo, e sono gli stessi dei detenuti. Risolverli, significherebbe apportare anche un consistente beneficio a loro. Prima della legge Gozzini del 1986 il carcere era un inferno, sia per noi che per i detenuti. Si doveva ricorrere quotidianamente all’impiego della forza.
B. La legge Gozzini ha insistito sulla necessità della rieducazione. Negli ultimi anni, il sistema penitenziario italiano è molto migliorato. Sulla carta è il migliore al mondo. Occorre però tenere presente che la maggior parte delle persone che si trovano in carcere ci sono già state. Questo significa che il carcere è una scuola di delinquenza. Il carcere non è aperto sulla collettività. La legge istitutiva dell’Ordinamento penitenziario, del 1975, e quelle che si sono succedute, la legge Gozzini e la Simeone, prevedono un sistema risocializzativo che è monco alla base. Si vuole “curare” chi ha commesso un reato, ma non si vuole prevenire la commissione del reato stesso. Come può il minore evitare di entrare nelle fila della delinquenza? Perché non si creano delle strutture alternative alla strada? Una volta che entri in carcere, difficilmente riesci a uscirne.
A. Occorrerebbe applicare un sistema differenziato. Un diciottenne che entra in carcere per la prima volta magari perché ha fatto una bravata e finisce in cella con una persona che deve scontare una pena di trenta anni, nel novanta per cento dei casi diventa un delinquente.

I vostri compiti istituzionali prevedono che voi partecipiate al reinsermento del condannato nella società.
A. Prima di tutto, noi dobbiamo garantire la sicurezza e il controllo dei detenuti. Migliorare significa, nell’ambito del nostro servizio, cercare di creare un clima più collaborativo, e un coordinamento più efficace, che ci aiuti a agire in tutti gli ambiti connessi al sistema carcerario, laddove, per esempio, sono previste le misure alternative. Il carcere è un microcosmo, dove si trovano tutti i tipi di persone, il ricco e il povero, il giovane e il vecchio... Noi siamo un corpo di polizia ma non abbiamo delle sezioni, dei dirigenti, non siamo equiparati agli altri corpi.
B. Le cose stanno cambiando, poco a poco. Alcuni giudici e magistrati stanno riconoscendo che le nostre funzioni vanno anche al di là del controllo dei detenuti. Recentemente, a Roma un Gip (Giudice per le indagini premilinari, ndr) ha richiesto l’intervento di alcuni nostri colleghi per una perquisizione. Noi dovremmo anche occuparci di alcuni interventi particolari all’interno dell’istituto.
A. Mi chiedo perché quando vengono commessi dei reati all’interno degli istituti penitenziari la polizia penitenziaria non possa condurre le indagini interne. Sarebbe anche una questione di opportunità e economicità...
B. Non abbiamo figure carismatiche a capo del corpo, che portino avanti le nostre istanze. Questo reca un danno all’immagine della di polizia penitenziaria.

Come funziona negli altri paesi?
B. A differenza di altri paesi, in Italia c’è la differenziazione dei Corpi. È il sistema migliore perché la divisione dei poteri garantisce una maggiore democraticità.
A. Se vogliamo acquisire maggiore dignità, non dobbiamo andare nella direzione dell’omologazione. Dobbiamo cercare di fare in modo che le nostre specificità siano rispettate e riconosciute.
B. Per molti anni, gli agenti del nostro corpo non hanno potutto effettuare una reale carriera. Inizialmente gli Agenti di custodia avevano un trattamento diverso, anche dal punto di vista economico, rispetto agli altri corpi. Oggi le cose sono cambiate, stiamo meglio. Noi, per esempio, non abbiamo i turni massacranti della Polizia di Stato.
A. Sono cose che ci siamo conquistate duramente, con il nostro lavoro. I miglioramenti che sono sopraggiunti, li abbiamo pagati a caro prezzo. Noi svolgiamo un lavoro durissimo, che richiede anche un briciolo di incoscenza. I rischi che corriamo sono altissimi.

Da quello che si legge solitamente sui giornali, i due grossi problemi del carcere sono la penuria di agenti di Polizia penitenziaria e il sovraffollamento, due problemi, ovviamente, collegati.
B. Ogni anno, le leggi Finanziarie tagliano i fondi e le risorse. Persone che fanno il concorso per entrare nel nostro corpo ce ne sono anche troppe.

Eppure il presupposto che sta alla base della struttura carceraria italiana è tutti siano recuperabili.
B. Rieducare le persone è interesse della collettività. Reinserire una persona che ha settanta anni e che per quaranta è stata un boss camorristico, mi sembra francamente improbabile. Intervenire, invece, su una persona che è alla prima detenzione che magari ha diciotto anni, è una cosa diversa. Quindi, cechiamo di non offrire tutto a tutti, ma non precludiamo niente a nessuno.

Che ruolo avete nella rieducazione dell’individuo detenuto?
B. Il detenuto si rapporta con noi in un modo che differisce da quello adottato con lo psicologo, con l’ispettore, con il prete. Possiamo vedere nella quotidianità come si comporta una persona, quali sono i suoi problemi. Spesso siamo quelli che portano vera solidarietà al detenuto. Noi siamo quelli che fisicamente salviamo loro la vita, diamo una parola di conforto. la rieducazione non la fanno gli psicologi, la facciamo noi. Dobbiamo comunque agire nell’ambito dei limiti istituzionali, senza mai oltrepassarli. Non dimentichiamo che la sicurezza è la nostra massima priorità.

Dovreste garantire la sicurezza del detenuto anche fuori dal carcere.
A. Certo. Per problemi di organico, non ci è possibile, ma noi dovremmo anche effettuare i piantonamenti fuori dalle camere dell’ospedale, sorvegliare i detenuti agli arresti domiciliari, accompagnare i detenuti extracomunitari che devono essere espulsi, e così via, purtroppo siamo troppo pochi, e questi compiti vengono svolti dalla polizia di Stato. Questo, del resto, è quanto previsto dalla legge.

Questo per quanto attiene al discorso sulla sicurezza.
B. Per quanto riguarda l’aspetto rieducativo, l’articolo 5 della legge 395 dice anche che l’agente “partecipa anche alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo del detenuto”.
A. Nell’equipe di osservazione e trattamento che è istituita all’interno del carcere vi è anche un ispettore della polizia penitenziaria. Questo è il solo aspetto che, legalmente, coinvolge l’agente nel reinserimento sociale del detenuto.
Occorre tenere presente che noi non siamo assistenti sociali. Non siamo neppure, però, come spesso ci dipingono, degli aguzzini.
Cerchiamo di farci rispettare prima di tutto rispettando gli altri e facendo bene il nostro lavoro. I compiti dell’agente, di fatto però, si svolgono nel momento in cui la persona viene inserita all’interno della struttura: viene immatricolata, e di lei si occupa l’ufficio matricola, viene perquisita...
B. Nel tempo abbiamo acquisito una certa professionalità e sensibilità. Occorre prestare un’attenzione particolare. Un pezzo di carta, una penna, possono diventare vere e proprie armi. Un orologio, una fede, possono diventare strumenti di corruzione. Ci sono gli agenti del casellario che si occupano del sequestro e della conservazione di questi oggetti.
Ci sono agenti che collaborano con il personale medico e con gli psicologi, ci sono poi gli agenti di sezione.
Agenti che svolgono il servizio di sicurezza per il muro di cinta, agenti che si occupano del servizio di sicurezza al reparto colloqui, agenti che si occupano della manutenzione dell’istituto, della contabilita...il carcere ha le stesse dimensioni della società, e al suo interno accadono mille cose di cui occorre prendersi cura.