Tersite e Odisseo

 

05/03/2002

Guido Conti

Senza avventurarsi in ricerche etimologiche salta all'occhio che "sfida" deriva dal verbo s-fidare, che aggiunge una "s" privativa al verbo fidare/si. La sfida è quindi la rappresentazione di una lacerazione, di una rottura di accordi espliciti o impliciti o, più semplicemente, di uno status quo che, fino a quel momento, era stato parte integrante della vita. Ad un certo punto scatta qualche cosa, si verifica un cambiamento per cui quello che fino ad allora aveva semplicemente fatto parte di una situazione non viene più ritenuto accettabile.

Per capire un termine è sempre opportuno riferirsi ai suoi modi d'uso, più che alle definizioni che se ne danno; si dice per esempio avere uno sguardo di sfida (intollerabile per i Superiori), oppure sfidare le ire paterne. Questi esempi indicano che l'agente è un ribelle, uno che non vuole più stare "al proprio posto", si preannuncia l'aprirsi di un conflitto, di una lotta. Da una parte, in genere, c'è un rappresentante dell'autorità (non importa se legittima o meno), dall'altra qualcuno che non solo vi si sottrae, ma che si ritiene nell'impossibilità di poter negoziare il proprio ruolo, perciò vi si contrappone risolutamente, pronto allo scontro.

La sfida è sempre rivolta a persone, mai a cose, nemmeno ad enti astratti. E' vero che si dice, per esempio, sfidare la giustizia, o le istituzioni ecc., ma questi sono solo modi di dire, in realtà la sfida è sempre rivolta verso coloro che fungono da rappresentanti di tali organismi.

La sfida contiene in sé, nella sua trama indefinita di rinvii, anche una connotazione cavalleresca. Chi si appella alle regole della cavalleria passa al duello quando, per i due contendenti, ogni altra regola che non sia quella che definisce il setting della sfida ha perso efficacia; il guanto di sfida viene lanciato nel momento in cui ogni possibilità di dialogo o di confronto pacifico è venuto meno.

La sfida interrompe la mediazione, il rapporto pacifico, la possibilità di pervenire ad un compromesso. In questo senso si può parlare di lacerazione del rapporto, ma anche del "discorso": se i rapporti tra gli uomini si possono vedere come delle complicate trame, la "stoffa" di cui sono composte è il discorso, la parola.

Discorso in greco si dice logos, che deriva dal verbo legein, il cui significato arcaico, usato ancora da Omero, era proprio quello di legare, unire, annodare. Dialogo (logos-dia) è, da Platone in poi, il pensiero che si trasmette intersoggettivamente, nella parola parlata tesa alla comunicazione, nel discorso volto a quell'arricchimento reciproco che solo la verità dialettica permette.

Si potrebbe allora vedere la sfida come l'antilogos, il gesto che recide quella rete inestricabile di fili che ci uniscono a qualche ambito. Può essere un gesto liberatorio, ma anche autodistruttivo, violento, regressivo.

La costruzione dei legami è sempre un lavoro complicato, è un processo, che implica il riconoscimento dell'altro come soggetto attivo, un partner portatore di diverse esigenze e punti di vista. E' necessario istituire il confronto partendo dalle basi comuni, ponendo l'accento sui motivi d'unità e non soltanto sulle differenze. Quando vengono meno le condizioni minime per poter svolgere questa attività che distingue l'uomo in quanto tale, cioè come zoon logon echon (un soggetto che nasce dalla parola, che trova il suo fondamento nel discorso con gli altri uomini), si ricade nel mito naturalistico che vorrebbe risolvere i problemi che assillano il nostro mondo complesso in un sol colpo, non importa se di pistola o di bacchetta magica.

Questa disfatta dell'incontro sembra sia la caratteristica della nostra epoca e della società postmoderna e globalizzata. Al contrario di quello che sembrava facile prevedere fino a pochi anni fa, cioè la spersonalizzazione degli individui nelle società di massa, si sta verificando il fenomeno opposto, cioè il trionfo più completo dell'individualismo e della soggettività. Il liberalismo in politica, da tutti ostentato, ne è il supporto ideologico.

Si potrebbe pensare che i protagonisti di grandi sfide siano i meglio titolati a parlarne, quelli che potrebbero aprirci qualche spiraglio su questo meccanismo molto comune, ma che appare più riconoscibile solo in certi casi, quando assume contorni eroici e appassionanti, a volte anche tragici.

In effetti non sembra sia così, il parlarne o lo scriverne appartengono ad una diversa pratica, nella quale è impossibile trovare un ordine delle ragioni, una logica che permetta di risolverne le connessioni causali. Nello stesso momento in cui lascio la vita per inerpicarmi nella significazione, mi inerpico su un altro sentiero, che è quanto mai lontano e incommensurabile con l'esperienza vissuta.

Anzi, la forma della scrittura è antitetica ad un'indagine sulle passioni che non voglia essere meramente descrittiva e d'appendice. Il suo luogo d'elezione gravita tra i bianchi tra le parole, nei margini e nelle glosse, suggerendo un diverso registro che sfora l'ordine espositivo sequenziale del racconto. Questa lettura supplementare implica una riscrittura che ci chiama in prima persona alla partecipazione appassionata, che ci conduce in atmosfere e luoghi che si sovrappongono confondendosi con quelli della nostra memoria, colorandosi in questo modo e assumendo i contorni di cose note, nelle quali ritroviamo parti di noi stessi che avevamo dimenticato.

 

La letteratura

Le tragedie classiche sono i topoi privilegiati delle sfide che contrappongono il singolo all'universale. Prometeo si ribella addirittura a Zeus, padre degli dei, Antigone alla legge degli uomini, Edipo al Fato. Il loro carattere peculiare è l'imparità dei contendenti: vi è autentica sfida quando questa è rivolta ad una potenza infinitamente superiore, tale ardimento è ciò che distingue l'eroe dal comune mortale. Davide può sfidare il gigante Golia, non viceversa. Il suo merito è tanto maggiore quanto più arduo è stato il cimento. Questo mito, che è presente in tutta la tradizione occidentale, opera ancora silenziosamente in molti nostri atti e giudizi. Siamo affascinati dall'immagine del singolo che conduce una lotta senza speranza contro organizzazioni strutturate, indipendentemente dalle ragioni delle parti.

Non solo il subcomandante Marcos, ma anche il bandito corso deve il suo ascendente a questo archetipo dell'immaginario collettivo. Questo però rimane il suo campo d'azione, quando il mito viene trasportato nella realtà crolla, rivelando il suo carattere illusorio e anacronistico, oggi più di ieri.

Le sfide rivelano per prima cosa i nostri limiti e la nostra impotenza, i nostri deboli tentativi di lotta si risolvono in genere in grottesche parodie che ci affratellano più a Don Chisciotte e Tersite che ad Odisseo o Menelao.