Da Newton
Gennaio 1998
 


Ma chi glielo fa fare?

Il coraggio fra genetica e psicologia

 

Flavia Caroppo

Quelli che si lanciano con il paracadute in caduta libera, quelli che saltano da ponti alti cento metri, ma anche quelli che affrontano sfide in campo scientifico, politico, artistico: uno psicologo americano li ha battezzati "tipi dalla T maiuscola", dove la T sta per "thrill", brivido. E il responsabile di questo modo di vivere sul filo del rasoio sarebbe un gene più lungo della norma. Ma anche l'ambiente gioca il suo ruolo.

Walter ha 19 anni, la sua prima grande delusione d'amore e tanta voglia di reagire. Una domenica mattina, su uno dei tanti ponti che sovrastano il fiume Adda, vede una figura lanciarsi a testa in giù, con i piedi attaccati a una corda. Walter non è quel che si dice un tipo atletico: piuttosto timido, ama le imprese spericolate ma preferisce gustarsele sulle comode poltrone dei cinema. Esitante, comincia a salire le scalette di ferro che lo porteranno in cima a quel ponte, a cento metri dal suolo. Il cuore batte forte e le gambe tremano un po', ma arrivato lì, sulla piattaforma vicina al cielo, mentre l'istruttore gli allaccia l'elastico alle caviglie, si sente un leone. Un piccolo passo in avanti ed eccolo librarsi nel vuoto, con un urlo strano, quasi gutturale. Rimbalza una, due, tre volte, tocca l'acqua con le mani, sempre appeso al filo.

Una volta a riva commenta: "E' un orgasmo. Lo voglio rifare, lo devo rifare. Peccato che "lei" non mi abbia visto", e riattacca baldanzoso le scale. Dopo quella prima volta di "bungee jumping" (così si chiama lo sport nel quale ci si lancia appesi a una corda lunga poco meno della distanza dal terreno), per Walter c'è stato il parapendio, l'arrampicata libera, lo sci estremo, le gare in automobile, il paracadutismo acrobatico e parecchie corse sui più arditi ottovolante da luna park, alla ricerca di emozioni sempre più forti: "Ormai non posso più farne a meno, è una specie di droga", commenta, "e cerco sfide sempre più difficili".

Ma che cosa induce alcune persone a sfidare la gravità, a "giocare" e vivere sempre sul filo del rasoio? Il "fattore T" Il brivido è il campo d'indagine preferito dallo psicologo americano Frank Farley, professore della Temple University di Philadelphia, che ha reso famoso il suo nome legandolo proprio allo studio delle personalità che vanno alla ricerca di forti emozioni, per le quali ha persino coniato un nome: "i tipi dalla T maiuscola". In parole semplici, l'umanità sarebbe divisa in due categorie: i tipi che sono alla continua ricerca di brividi emozionanti (detti "T maiuscola", dall'iniziale del termine inglese "thrill" che significa appunto emozione, brivido) e quelli dalla "t minuscola", che invece sono ben lieti di evitare rischi.

"Il fattore t", spiega Frank Farley, "indica quanto a proprio agio ci si senta nell'affrontare le sfide, e spesso nel ricercarle. Queste sfide possono essere fisiche o mentali, a volte entrambe, ed è facile che si possa oscillare tra i due tipi di "t"; quel che conta è l'indole, il marchio di fabbrica che ognuno sa di avere.

Il meccanismo mentale che porta un uomo ad arrampicarsi a mani nude sulla roccia, spingendo all'estremo le capacità del suo corpo, è lo stesso, a mio parere, che ha condotto Albert Einstein a cercare per tutta la vita la legge unica della fisica, in una continua sfida alle capacità del suo cervello e di quello dei suoi predecessori.

Personaggi cruciali "Io credo che il progresso umano sia dovuto in gran parte proprio a "tipi dalla T maiuscola" come Winston Churchill, Pablo Picasso o, appunto, Einstein, personaggi cruciali nel loro campo. Non credo fossero persone che temevano di vivere sul filo del rasoio; accettando grandi rischi sono riusciti a fare grandi cose".

Il coraggio però, come diceva Don Abbondio, uno non se lo può dare; potrebbe allora darsi che l'avventura stia nel nostro Dna? "A prescindere dal ruolo giocato dall'educazione e dall'ambiente, sembra proprio che un gene del coraggio esista", spiega Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell'età evolutiva all'Università La Sapienza di Roma, "e influirebbe in modo decisivo sulla personalità, mettendo l'individuo in condizione di voler fare sempre nuove esperienze: da quelle estreme a una più "modesta" ma instancabile voglia di viaggiare o di cambiare spesso lavoro".

Scoperto da due studiosi del Memorial Hospital di Gerusalemme, il gene (rintracciato sul cromosoma 11 e battezzato scientificamente D4DR), è stato individuato mettendo a confronto due gruppi di persone che, attraverso un questionario, manifestavano una gran sete di avventura oppure uno scarso interesse per le novità e una tendenza a essere più riflessivi e introversi. Si è quindi riscontrato che i primi hanno una versione più lunga del gene, che sarebbe dunque responsabile di un comportamento più "rischioso".

Ma come agisce il gene? Intervenendo nel meccanismo di regolazione della dopamina, un neurotrasmettitore cerebrale che controlla le sensazioni di piacere e l'emotività. Gli individui che ne posseggono la versione allungata reagirebbero in maniera più forte agli stimoli esercitati dalla dopamina sul cervello. Complessivamente, stimano i ricercatori, circa il 15 per cento dell'umanità si troverebbe ad avere la copia allungata del gene. Il ruolo delle endorfine "Un'altra possibile ragione che invoglia ai comportamenti estremi", aggiunge Anna Oliverio Ferraris, "è legata alla percezione del pericolo. Lo stato di emergenza favorisce l'innalzamento di altre componenti chimiche del cervello, le endorfine, che vengono prodotte dal cervello quando proviamo stress o dolore al fine di ridurre gli effetti di queste condizioni. Al termine del lancio, o di una spericolata corsa sulle giostre, l'individuo ha un maggior livello di queste sostanze chimiche nel cervello e si sente particolamente bene. E' il senso di sollievo per essere ancora vivo, che a volte può diventare una vera e propria necessità".

Ma questa volontà di sfidare la morte, di mettersi alla prova, a volte può diventare patologica. E' il caso di chi pretende di andare in surf sul tetto dei treni in corsa, oppure di chi guida l'auto bendato, magari contromano, mettendo a repentaglio non solo la proria vita ma anche quella degli altri. "Certo, alcuni vedono in questi "giochi proibiti" una sfida alla morte, e sicuramente un sottile desiderio di autodistruzione c'è", continua Oliverio Ferraris. "Secondo me, però, un giovane ricerca tali sensazioni perché si sente forte, perché è guidato da sentimenti positivi più che da quelli negativi. Si trova al massimo della salute fisica, della forma, dei riflessi, della velocità e quindi si mette alla prova con l'idea di vincere, che è un'idea positiva.

Questi ragazzi sono spesso alla ricerca di autostima e della stima degli altri, quindi della propria identità. Ma queste bravate restano poi scisse dalla vita quotidiana, rimangono un fatto a sé: è una tipica condizione della nostra società postmoderna, fatta di tanti frammenti".

La sicurezza di sé riduce ovviamente la paura, e la noia porta a cercare un'evasione ogni volta diversa, ma non per tutti l'esigenza è di tipo fisico. "Infatti, e qui entra in gioco la cultura. Le persone che hanno orizzonti culturali e sociali più vasti possono provare la loro abilità in campo musicale o in quello artistico, scientifico... I giovani che hanno un background culturale più ristretto hanno minori possibilità di scelta per mettersi alla prova, e quindi inevitabilmente si orientano verso l'attività fisica e motoria".

 

Educare al coraggio

E' proprio in questi ambienti dagli orizzonti "limitati" che l'esigenza di sensazioni forti può portare alla devianza, a meno che non entri in gioco il ruolo educativo della famiglia, che è fondamentale soprattutto nell'infanzia e nella delicata età adolescenziale. "C'è sempre la possibilità di incanalare la ricerca di emozioni estreme verso un costruttivo continuo miglioramento delle proprie capacità", afferma l'esperta. "L'importante è che i genitori non commettano l'errore di limitare le esigenze dei ragazzi, imponendo loro dure regole di comportamenti "leciti", mentre in realtà non fanno altro che proiettare sui ragazzi i propri timori. La paura è utile, solo gli incoscienti non ne hanno, l'educazione al coraggio però va potenziata portando il ragazzo a capire il pericolo, a sapere come controllarlo. Tutto questo in una scala che consenta di essere preparati a prove ogni volta più difficili, senza sopravvalutare mai i propri limiti fisici e l'esigenza di sicurezza degli altri. A volte questo può essere un buon esercizio per far riscoprire la capacità di osare anche a quei genitori che "si sentono ormai troppo vecchi per certe cose"".

Può sembrare paradossale, ma è stato sperimentato che persino quando la temerarietà diventa devianza manifesta, è proprio la paura che viene chiamata in causa come terapia d'urto. In America esiste un centro per minori "difficili", che mira a recuperare i ragazzi impegnandoli in attività quali domare cavalli selvaggi. "La nuova tendenza dei corsi di recupero per deviati", conferma Anna Oliverio Ferraris, "è quella di mettere i soggetti alla prova fisicamente, di combattere la loro noia facendoli emozionare per cose lecite. Insomma si cerca di far capire loro, mettendoli nella situazione concreta, che sfidare la montagna aggrappati alla parete solo con le mani è molto più emozionante che entrare in un supermarket con la pistola stretta in pugno". Pare dunque che i coraggiosi facciano muovere il mondo. In ogni caso, qualcuno può porsi una lecita domanda: siamo sicuri che ci voglia più coraggio a saltare per gioco da un ponte che a vivere normalmente la vita quotidiana?