I miei primi 50 anni

 

Franco Bomprezzi

L'anagrafe non è un'opinione. Fredda e impietosa annota i giorni, i mesi, gli anni. Sono nato il 1 agosto 1952. C'è poco da fare. Mezzo secolo. A cavallo di due millenni. C'è di che precipitare nel baratro della depressione. C'è da restare senza fiato, sorpresi dal mulinare degli eventi e dalla velocità del tempo.

Ho vissuto tutti e cinquanta questi lunghi anni, senza neppure un giorno di libera uscita dalla mia condizione di persona disabile. Ebbene sì, sono nato con una malattia genetica rara, già pronto per le statistiche e per i certificati, che allora non esistevano, se non quelli di iscrizione all'anagrafe, e poi di battesimo. Grande città gloriosa, quella Firenze che mi ha dato i natali. Come tutti i fiorentini, non rinuncio al mio orgoglio di appartenenza, anche se ho vissuto in giro per l'Italia, dalla Toscana all'Abruzzo, dal Veneto alla Lombardia. Ma allora l'ambulanza, a Firenze – e forse ancora adesso – si chiamava la Misericordia. E i miei primi ricordi (indelebili) sono di sale operatorie e di dolore, per le ossa che si rompevano inspiegabilmente. E poi l'affetto dei genitori e di mio fratello.

La compassione della gente, la scuola elementare fatta a casa, perché proprio non potevo 'rompermi' ogni giorno. La scoperta del mondo dai finestrini di un'automobile usata, l'ingresso nella scuola pubblica, alle medie, prima che ci fosse una legge per me e per quelli come me. La curiosità dei compagni di classe, l'imbarazzo e la bravura improvvisata degli insegnanti. Gli innamoramenti impossibili. La scoperta di essere un po' deforme, l'accettazione della carrozzina. La solitudine, la rabbia. Gli amici, la gioia di vivere. Il viaggio, erano altri tempi, entrando in alberghi inaccessibili, portato in braccio da mio padre. Poi l'autonomia crescente, la prima carrozzina a motore, il vento sulla pelle. La contestazione giovanile, il '68 di provincia, poi l'università sperando di finirla presto, e la voglia di primeggiare e di impormi, a scapito di tutto, senza sconti per me stesso. L'impossibilità di fare la tesi, fra istituti universitari, nella civilissima Padova, inerpicati in cima a scale lunghissime e storiche, compensata dalla fortuna di iniziare subito un mestiere curioso, quello del giornalista.

Sempre sulla mia carrozzina, odiandola e amandola, scegliendo la 'normalità', accettando di essere chiamato di volta in volta invalido, handicappato, portatore di handicap, e poi, di recente, 'persona con disabilità'. Corre davanti ai miei occhi, oggi, il film di una vita in salita, sempre in salita, ma bella. Il mio svantaggio iniziale ha avuto il grande merito di farmi vedere sempre la parte piena della bottiglia, il piccolo miglioramento, il passo in avanti, e non la sconfitta, la delusione, l'isolamento. Ho vissuto l'integrazione sociale a modo mio, a viso aperto, a pugni chiusi. Con durezza, forse. Ma anche con il sorriso sulle labbra.

Non ho mai portato rancore per chi era diverso da me, cioè normale. Ho capito che il mio destino era questo, e ho cercato di apprendere bene la lezione, di non dimenticarmelo mai. Ho sofferto molto, non posso negarlo. Mi sono esposto, ho partecipato alla vita delle associazioni, ho perfino fatto sport, spinto a questo dalla mia compagna di vita e di sogni, che ha vinto la mia pigrizia congenita, e ora mi rimprovera di non fermarmi mai. Ho visto l'anno internazionale degli handicappati, nel 1981, ho letto fiumi di retorica, ho ricevuto buffetti sulla guancia e carezze indesiderate sulla testa, ho perdonato, ho capito, ho metabolizzato tutto.

Ho sognato da ragazzo, vedendo i cartoons dei Pronipoti e sperando che nel Duemila avrei potuto viaggiare su comode astronavi personali, e invece, nel 2002, mi sembra più attuale guardare i Flinstones, e pensare che la clava, in fondo, era un ottimo ausilio. Ho visto in tivù morire Kennedy, e ho ascoltato le parole dolci di Papa Giovanni, ho creduto nella fede, e ho vissuto da laico, non mi sono mai domandato troppo «perché proprio a me?». Ho preferito cominciare a guardarmi attorno, a scoprire che non ero solo, anzi, tutt'altro. E a un certo punto, con i primi capelli grigi e la barba brizzolata, per non parlare della pancia imponente, mi sono detto che era giusto occuparmi da giornalista di quelli come me, per far capire agli altri che cosa vuol dire vivere da persone disabili.

Ho lasciato una scrivania tranquilla per avventurarmi nel mare della nuova navigazione, e ora sono qui, a raccontare a voi questi frammenti di esistenza, e non so se è giusto averlo fatto. Spero che mi perdonerete. I miei primi cinquant'anni non sono bastati a cambiare il mondo, e neppure a farlo molto migliore. Sono un po' deluso, lo ammetto. Ma non dispero, se mi guardo indietro non posso dire che le cose siano rimaste immobili. Non sarebbe giusto, né onesto. Ma ripenso ad uno slogan, che Livia Turco sfilò dai miei appunti per farne il motto della prima (e per ora ultima) conferenza nazionale sull'handicap: «Liberi di vivere come tutti». È quello che vorrei vedere in concreto. E' quello che spero per i miei prossimi cinquant'anni. Perché in fondo, tutto è davvero SuperAbile.

Franco Bomprezzi
direttore editoriale SuperAbile.it