Cronaca di un recupero impossibile

 

Rimordi Delia

 

II fatto

Di episodi di devianza sono piene le pagine di cronaca di tutti i giornali. In particolare, alla luce di quanto discusso a lezione, mi ha colpito un caso avvenuto il 2 dicembre 2000 alla periferia di Napoli: un agente di custodia dopo un litigio spara alla moglie, ferendola gravemente e uccidendo la figlia di cinquanta giorni che la donna teneva in braccio.

II background

Di fronte a cosa ci troviamo? La mia opinione è che la situazione riportata nell'articolo del Corriere della Sera possa essere assimilata a quelle dei raptus analizzati in aula. A lezione abbiamo definito come raptus un momento di follia durante il quale il soggetto ha un comportamento particolarmente violento e sanguinario; a mio avviso al gesto dell'agente calza a pennello questa dicitura.

Da quanto si evince dall'articolo, si possono evidenziare due tratti fondamentali del fenomeno: la sua comparsa improvvisa (dato il lavoro del soggetto, si può supporre che questi non avesse mostrato in precedenza altri episodi di devianza); la sua inadeguatezza (sparare alla moglie non è certo quello che fanno tutti i mariti in seguito ad una discussione).

Ma il gesto dell'agente di custodia è stato davvero improvviso, dettato da un momento di follia, o piuttosto la reazione è stata il risultato di una situazione personale e familiare che già mostrava aspetti problematici?
Sembrerebbe impossibile pensare all'infermità mentale del soggetto, dal momento che sia prima che dopo il presunto raptus non ha presentato segni di squilibrio psichico; egli si è addirittura costituito ai Carabinieri, cosa che lascia supporre la piena coscienza gravità del gesto compiuto; inoltre dall'atto di violenza il soggetto non ha tratto alcun guadagno materiale: dobbiamo quindi ritenere che la guardia abbia premuto il grilletto pensando davvero di liberarsi di qualche peso psicologico dal quale si sentiva oppresso da tempo.

Dal testo del cronista traspare l'ipotesi che la tragica lite sia stata causata da un episodio di gelosia. Procedendo sempre per supposizioni (le informazioni sono piuttosto scarse) possiamo immaginare che il problema che tormentava la guardia e sua moglie riguardasse lo spazio di relazione, ovvero quella dimensione affettiva nella quale la coppia dialoga, comunica, risolve le situazioni conflittuali. Si può pensare che ai coniugi questo spazio (fisico e psicologico) mancasse completamente.
In principio il problema doveva essere prettamente pratico: lui lavorava a Milano, lei era rimasta ad abitare a Napoli. Facile quindi immaginare che la coppia si vedesse di rado e che questo comportasse una grande fatica (viaggio lungo, lunghi periodi di lontananza). La separazione fisica deve aver fatto sì che la coppia perdesse unità anche sul piano relazionale, forse suscitando nell'agente di custodia fantasie nelle quali la moglie frequentava altra gente, incontrava altri uomini, facendo così nascere il sentimento della gelosia.

Chiesto ed ottenuto il trasferimento a Napoli, probabilmente con lo scopo di riavvicinarsi alla moglie non tanto per riguadagnare lo spazio affettivo perduto quanto piuttosto per poterla meglio controllare, il soggetto deve essersi trovato in una situazione forse peggiore della separazione: i coniugi erano infatti costretti a convivere con la madre di lei, in attesa che venisse terminata la ristrutturazione del loro appartamento. Questo, insieme alla nascita della figlia, deve aver provocato un ulteriore contrazione dello spazio relazionale: a questo punto è stato sufficiente un momento di tensione, come un'ennesima lite, a far scattare la violenza incontrollata.

Prendendo come vero quanto detto finora, possiamo allora escludere che il raptus sia un atto improvviso.
Certo, non esiste la premeditazione: il giovane non ha mai pensato a come uccidere la moglie, non ha pianificato le azioni da compiere, il momento favorevole per sparare. Ma il gesto è stato "preparato" nel tempo dal continuo logorarsi della situazione psicologica e familiare: il grilletto è stato premuto non solo dall'agente di custodia ma anche dalla moglie.
Sono pienamente concorde, infatti, sul fatto che questo genere di gesto non potrebbe esistere senza avere alle spalle una relazione problematica o fallita e condivido anche l'idea che, pur essendo lui il colpevole materiale, una parte della responsabilità, magari anche molto piccola possa essere attribuita alla vittima.
Certo non giustifico; anzi, condanno il gesto dell'uomo. Però mi domando anche che cosa è stato fatto per far sì che non si arrivasse a una situazione così esasperante da portare una persona a puntare una pistola contro la donna che ama. Senza togliere le responsabilità penali dell'omicida, trovo giusto riflettere anche sulle responsabilità morali delle persone che vivevano con lui.

II recupero

Domandiamoci che cosa sarà adesso di quest'uomo: verrà arrestato, giudicato, condannato e infine sconterà la sua pena in carcere. Subirà anch'egli la contraddizione della legge che prevede che la detenzione abbia sia scopo coercitivo che educativo; verrà cioè rinchiuso fra quattro mura senza avere la possibilità né di usare produttivamente questo tempo né di mantenere un rapporto attivo con la società che dovrà poi un giorno riaccoglierlo. Non avrà gli strumenti per poter riflettere sul gesto commesso perché la struttura carceraria non è in grado di fornirglieli e non solo non potrà far progressi sulla strada del cambiamento, ma si troverà addirittura a regredire dal punto di vista psicologico. Egli vivrà infatti in una cella piccola, sovraffollata, completamente priva della personalizzazione tipica del proprio alloggio, sottoposta a frequenti controlli, il tutto unito all'impossibilità di coltivare le proprie passioni e ì propri interessi, in una condizione generale di infantilizzazione del detenuto.

Ma per un uomo che ha commesso un reato come questo, legato ad una relazione fallita, quanto potrà essere utile scontare una pena simile? E' vero che la struttura carceraria offre la possibilità ai detenuti di essere seguiti da uno psicologo (oltre che da altre figure come per esempio quella dell'educatore ), ma è altresì vero che l'ambiente, insieme al fatto che lo specialista fa comunque parte di quel sistema che lo ha condannato, certo non aiutano l'instaurarsi di una relazione costruttiva. Così come è concepito attualmente il carcere viene meno alla sua funzione educativa: è utile alla società, ma non al condannato.

Come fare quindi per far nascere i presupposti per una reale crescita del detenuto? Creare spazio materiale dove questo manca è piuttosto problematico sul piano pratico. Sviluppare uno spazio psicologico e relazionale dove i reclusi possano esprimersi liberamente, terreno fertile per l'autocritica e la crescita del sé, è invece questione di buona volontà. Questa sarebbe la soluzione più utile alla guardia carceraria colpevole dell'uccisione della moglie, ma purtroppo, da quanto ho potuto apprendere durante il corso sulla devianza e per quanto so dall'esperienza reale, situazioni come queste sono molto rare.

Questo accade perché, come abbiamo visto, lo Stato dà molto più peso all'aspetto punitivo della pena piuttosto che al lato educativo della stessa. Per fortuna le eccezioni esistono, anche se poco numerose e poco conosciute.
Proprio per uscire dall'anonimato di solito queste esperienze (come ad esempio quella del "Gruppo della trasgressione" che opera all'interno del carcere di San Vittore di Milano) cercano di andare oltre il lavoro introspettivo legato al singolo soggetto, creando un contatto diretto tra il "dentro" e il "fuori".
Per ottenere questo scopo, essendo i detenuti impossibilitati ad uscire, i partecipanti invitano "la società" ad entrare in carcere a stabilire un dialogo ed inoltre inviano nel mondo esterno i prodotti (scritti, film, pagine web). Penso che il coinvolgimento delle persone, siano esse uomini famosi o gente comune, sia il modo migliore per poter sperare di cambiare l'attuale situazione carceraria e quindi per renderla più adatta alle reali necessità dei detenuti.