Da La Repubblica, Giovedì 26-Luglio-2001

Intervista al professor Angelo Aparo,
dopo che un giovane ha ucciso la madre

 

Nei labirinti oscuri del raptus


Silvia Giacomoni

Leggiamo i fatti di cronaca come la storia del giovane di Bergamo che ha accoltellato la madre e ha saputo dire soltanto: «È stato un raptus». E, come sempre in questi casi, ci chiediamo: cosa succede nella mente di un ragazzo? È giusto circondarlo di psicologi e poi processarlo al Tribunale dei minori? È giusto metterlo fuori magari sei mesi dopo il raptus? Ne parliamo con il professor Angelo Aparo che sul raptus ha organizzato un convegno al San Fedele: col giudice Maisto, la direttrice del Beccaria Fratantonio, il penalista Stella, il gesuita Bertagna, la criminologa Merzagora, lo psicoanalista Funari.

Aparo è un siciliano che insegna Psicologia della devianza alla Bicocca, da ventidue anni lavora coi detenuti di San Vittore: «Raptus è un termine che si usa quando non si sa cos'altro dire, di fronte a una cosa che pare inspiegabile. Indica un'assenza di consapevolezza nell'assassino, spesso anche di risorse in chi lo osserva. In latino, raptus significa "afferrato". Come se la persona fosse afferrata da una forza esterna, come se qualcuno agisse al suo posto dopo essersi impossessato della sua capacità di pensare. Il termine raptus può far pensare all'invasamento, e spesso viene usato come ai tempi delle streghe».


E lei, da psicologo, quando dice raptus cosa vuole dire ?

«Nel raptus vedo un gesto che fa esplodere il tunnel che la persona si è costruito, e di cui non vede l'uscita, in seguito a una serie di scelte che hanno progressivamente ristretto il suo spazio di consapevolezza. Pensi ai rapporti coniugali in cui la difficoltà di affrontare un conflitto porta a non affrontarne nessuno, all'incapacità di comunicare».


Sono scelte quotidiane, motivate dal desiderio di stare in pace.

«Non c'è nulla di illegale: cosa c'è di illegale nel decidere di giocare al pallone invece di fare il tema, o di parlare di questo invece che di quello? È un processo che dall'esterno non si può riconoscere: per i raptus non abbiamo dei sensori come per i terremoti. Ma dentro alcuni, la capacità di affrontare il conflitto diminuisce progressivamente fino allo zero, all'esplosione, al delitto».

È quel che succede al bambino piccolo che fa un capriccio? Lui gioca, la mamma vuole dargli la pappa, lui ha fame ma non vuole smettere il gioco, non sa cosa scegliere e esplode.
«Il bambino può cadere preda di una furia distruttiva, rompere i giochi, picchiare la mamma, addirittura desiderare di ucciderla: magari nella sicurezza che tornerebbe a vivere. Anche un adolescente, o un adulto, può uccidere la madre per avere poi la possibilità di resuscitarla, nell'illusione che sia tanto buona e forte da restituirti la sua vita, come tante volte quand'eri piccolo. Che imputabilità ha chi uccide sperando che la vittima resusciti?»

Ma la legge si occupa delle fantasie delle persone o dei fatti concreti?
«Questi sono problemi particolarmente delicati, che impongono di parlare con estrema cura del dolore dei parenti delle vittime e della difficoltà del lavoro del giudice, che deve cercare di stabilire come sono andate effettivamente le cose. È chiaro, poi, che i parenti della vittima non accettano l'idea che l'assassino pensava alla sua resurrezione».

Quando si pensava che le streghe erano possedute dal demonio, le si bruciava. Adesso invece, se uno ha un raptus, poi lo si lascia andare libero.
«Oggi non crediamo più al demonio, si pensa che a possedere la persona sia la malattia, e la malattia non si può certo mettere al rogo. Per questo la persona non viene punita ma viene messa in un ospedale psichiatrico. Dopo uno o cinque anni, o nel caso dell'adolescente anche prima, la malattia può anche non esserci più, oppure essere passata a un altro stadio: e di conseguenza, la persona può essere rimessa in libertà».

Ma questo vuol dire che uccidere la mamma guarisce? Se uno è nel tunnel e lo fa esplodere, torna poi a vedere la luce ?
«Eh no. Noi non stiamo bene o male unicamente in base ai nostri conflitti interni. Anche la realtà incide sul nostro dolore. E il fatto di avere ucciso è una realtà che dà un dolore incurabile. Se si fa esplodere il tunnel, il collassamento c'è stato, c'è stato il matricidio, e nei nostri ospedali psichiatrici è raro che si possano ritessere i frammenti. Certo, l'effetto della tragedia sulla persona è tale che non tornerà ad uccidere in futuro. Ma è difficile che questo evento trovi sufficiente spazio per essere veramente elaborato. Ho conosciuto molti assassini e, mi creda, davvero raramente riescono a elaborare il delitto, a passare dal conflitto fantasmatico al dolore del lutto».

Silvia Giacomoni