Che cos'è il male?

Sergio Givone

  Enciclopedia scienze filosofiche

Givone: Sono Sergio Givone. Insegno Estetica all'Università di Firenze. Qualcuno di voi dirà: "Già, ma cosa c'entra l'Estetica con il problema che stiamo per trattare, con il problema del male. Uno pensa all'Estetica  come a una disciplina che ha a che fare, se mai, con l'arte, con la bellezza. Ve lo dico subito, che cosa c'entra. Il male, lo sappiamo, è una realtà di cui tutti facciamo esperienza prima o poi, prima piuttosto che poi. Ma anche se tutti ne facciamo esperienza questa realtà appare misteriosa, inafferrabile, difficile da definire, incombe su di noi, non si lascia catturare. E allora che cosa - ecco il nesso -, che cosa se non l'arte, dove se non nell'arte, cercare una qualche luce? Chi, se non gli artisti, i grandi artisti, ma anche i piccoli artisti, hanno saputo dare figura, dare voce a questa manifestazione di una forza, di una potenza così inquietante come la potenza del male? Ecco perché un professore di Estetica, uno che intende l'Estetica come interrogazione dell'arte, e quindi interrogazione filosofica dei contenuti che l'arte ci presenta forse può dire qualche cosa sul problema del male. Ma prima di entrare in argomento, vorrei che insieme vedessimo la scheda.
 
 
 
PRESENTATORE: Il male appare anzi tutto come una forza cieca e devastante, che incombe sugli uomini e si abbatte su di loro in modo inesorabile. Ad esempio, nell'Ecclesiaste si legge che vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e per l'empio. E questo è il male. Come se il male appartenesse alla condizione umana in quanto tale, indipendentemente dagli sforzi che l'uomo fa per allontanarlo o rimuoverlo. Perciò Marx ha potuto parlare del male come di qualcosa che è nella realtà stessa, prima ancora che nel cuore dell'uomo. Ma già l'antica sapienza greca aveva affermato che il male è nell'essere, tanto che il semplice fatto di nascere deve essere espiato con la morte. Nonostante questo, il male non è veramente tale se non in rapporto con l'uomo, e non solo con l'uomo che lo subisce, ma principalmente con l'uomo che lo fa. Tant'è vero che il male ci fa davvero male là dove vediamo un'intenzione umana di ferire o anche solo una disattenzione, una mancanza di cura, di condivisione, di pietà.
 
Non solo, ma la psicologia ci fa scoprire che il male da noi patito è spesso da noi voluto sia pure in modo oscuro e contraddittorio. Non insegnava già la tragedia greca che noi portiamo la colpa, cioè siamo responsabili del nostro stesso destino? Se portiamo la responsabilità anche di ciò di cui non siamo direttamente autori, faremmo bene a chiederci qual è la nostra posizione nei confronti del male che vediamo dilagare intorno a noi. Certo, non possiamo dirci responsabili dell'orrore che quotidianamente ci investe come documentano i media. Eppure non possiamo lavarcene le mani. E' stato scritto: "Noi non siamo responsabili di tutto il male del mondo, ma siamo responsabili di fronte a tutto il male del mondo". Qui si pone il problema del senso del male. Il male non è una fatalità naturale, ma una realtà terribile, che vede coinvolta la personalità al suo livello più profondo. Certo il tempo sembra poter cancellare anche le ferite più dolorose. Il velo dell'oblio si stende sia sulla vittima che sul suo carnefice. Ma questo non toglie che noi siamo chiamati a prendere posizione sul male, come se il nostro giudizio dovesse valere per sempre.
 
 
 
STUDENTESSA: Buongiorno, professore. Dalla scheda è emerso che il male può essere insito nella natura di ognuno di noi, o eliminabile. Qual è la sua posizione rispetto a questa affermazione?
 
Givone: Io non so se la mia risposta ti sembrerà equivoca, poco chiara, un modo per raggirare il problema, ma te la darò lo stesso, e ti dirò che è vera l'una cosa e l'altra. E' vero che il male può, deve essere eliminato. Se non si potesse, il male non toccherebbe la nostra coscienza morale. Il male è un "no", che noi sentiamo nel profondo di noi stessi, è un "no" che è quasi il riflesso di una voce che ci trascende, come se fosse il principio stesso della vita o Dio, se vogliamo chiamarlo così, a dire questo "no, non deve essere". Dunque, se questo "no" ha un senso, il male deve poter essere eliminabile. Ciò non toglie che noi la potenza del male l'avvertiamo come qualcosa che sempre, comunque, incombe sull'uomo, qualunque cosa faccia, qualunque sia la sua capacità di eliminarlo. Vedremo ora perché, come si può spiegare questo paradosso, che certo resta inspiegato nella sua radice più profonda, ma ragioniamoci sopra.
 
STUDENTESSA: Professore, perché il male esista, è indispensabile che esista anche Dio, che è il bene per il credente. Secondo Lei è necessario, perché Dio esista, che esista anche il male?
 
Io credo che tu abbia impostato molto bene il problema e, in ogni caso, non l'hai impostato nel modo ovvio in cui di solito lo si imposta. Qual è il modo ovvio? Quello che tende a mettere un out out tra Dio e il male. No? "O c'è Dio - si dice - o c'è il male". Se c'è Dio non ci può essere il male, se c'è il male è la prova che Dio non esiste, perché se Dio esistesse come potrebbe tollerarlo il male, no?
 
Io credo che il modo in cui tu hai posto la domanda sia più forte, sia più meritevole di riflessione. Perché? Lo hai detto: perché ci sia il male, ci deve essere il bene. E' di fronte al bene e di fronte a qualche cosa come un assoluto dover essere - dover essere così e non dover essere cosa - che il male appare scandaloso. Se questo assoluto dover essere non fosse neppure pensabile, non ci fosse, abitasse in un suo cielo remoto, al di là della nostra esistenza, allora il male non sarebbe così scandaloso. Il male è scandaloso, il male fa male, potremmo dire, proprio di fronte a questo assoluto paradigma, a questa misura. Da questo punto di vista dovremmo dire - altro paradosso. Ho già usato questa parola rispondendo alla tua, alla tua compagna -, dovremmo dire che il male e Dio stanno e cadono insieme. C'è Dio e dunque c'è il male, c'è il male e dunque siamo costretti a pensare a qualche cosa come a un Dio a cui chiediamo una risposta. Viceversa non c'è Dio e non dico che non ci sia il male, ma il male finisce col perdere la sua, la sua virulenza, la sua scandalosità.
 
Vi sembra che quello che ho detto sia così paradossale da bloccare la discussione? Io mi rendo conto della difficoltà, proprio sulla base di queste due prime domande. La difficoltà in che cosa consiste, la difficoltà a pensare il male? Nel fatto che il male - ecco qui, abbiamo preparato due dadi, non a caso, ma la scheda li richiama -, il fatto che il male è anzi tutto qualche cosa di casuale. I dadi vengono gettati e il risultato nessuno lo può prevedere. Casualità vuol dire che il male cade dove cade, si abbatte dove si abbatte. A chi tocca tocca. Ma se le cose stanno così, allora noi cosa c'entriamo? Noi siamo pure e semplici vittime di qualche cosa che ci trascende, che ci tratta, una forza della natura, che ci tratta come dei burattini. E spesso abbiamo questa impressione: di essere nelle mai di qualcuno infinitamente o di qualcosa di infinitamente più forte di noi che ci tratta come, come dei burattini. Ma anche se questo è vero, è vero anche il contrario. Cioè è vero che il male, il male che noi patiamo, il male che si abbatte su di noi come la grandine, come la pioggia, come un ciclone, ha a che fare con noi. E' qualche cosa da noi oscuramente voluto, o per lo meno è qualche cosa in cui ci riconosciamo.
 
La psicologia, la psicologia del profondo ha detto molte cose su questo, su questo punto così delicato, sul fatto che tutto quello che ci capita è in fondo da noi voluto o comunque è qualche cosa in cui ci riconosciamo. Se non altro perché il nostro modo di reagire fa sì che noi ci riconosciamo nel male che abbiamo patito. Per non parlare del male che noi facciamo. E certo che il male che noi facciamo spesso lo facciamo senza sapere quello che facciamo. Una volta uno dice una parola, la lascia cadere lì, non voleva mica offendere. Eppure da questa parola nasce tutta una serie di cose, di reazioni, a volte pesantissime, dolorosissime. No? Ma anche il male che noi facciamo, non sapendo di farlo, non sapendo e non volendolo fare, è il male fatto da noi, è il male da noi voluto. Per non parlare del male che noi facciamo volendolo fare. Ed è certamente l'aspetto più doloroso,  più grave, più tremendo di questa realtà.
 
STUDENTESSA: Professore, scusi, riguardo a quello che aveva detto prima riguardo al rapporto tra male e religione, Dostoevskij fa dire a Ivan Karamazov che se Dio non esiste tutto è lecito, mentre poi in Delitto e castigo fa vivere a Raskol'nikov un lacerate senso di colpa da espiare attraverso la preghiera. Ecco, io volevo chiederLe come mai questa differenza?
 
Ma due cose. Intanto è giusto evocare Dostoevskij. Io credo che nessuno come lui abbia saputo dire parole profonde intorno a questo problema, gettare luce su questo buio, che è il male.
 
"Se - dice Dostoevskij - Dio non esiste tutto è possibile". Questa sua frase è stata spesso criticata, male interpretata, stravolta, negata, ma c'è qualche cosa di vero in questa, in questa sua frase, di fronte a cui non possiamo chiudere gli occhi. E Dostoevskij ha il merito di ricordarcelo. Che cosa c'è di vero? C'è il fatto, il fatto del "no", di quel "no" originario, di cui parlavo prima. "No, non deve essere". Noi in astratto non sappiamo che cosa sia il male, non lo possiamo definire. Ma di fronte alle singole, alle diverse situazioni in cui il male si manifesta, ecco che anzi tutto ascoltiamo questo "no", questo "no, non deve essere".
 
"Non deve essere " anche se la cosa non mi tocca, anche se avviene a diecimila chilometri di lontananza, anche se io non ci posso fare niente. Tuttavia il fatto che quella cosa succeda suscita un "no" profondo, dal cuore stesso della terra, direi, dalle profondità del cielo. Ecco perché questo "no" ha a che fare con Dio, ha a che fare con un principio che, se vogliamo, lo possiamo chiamare Dio. Io dico: "Se vogliamo lo possiamo chiamare Dio", perché siamo sul piano filosofico, e quindi su questo piano dobbiamo restare. Ecco la verità che ci ha ricordato Dostoevskij.
 
Ma poi c’è la seconda posizione, quella relativa a Raskol'nikov e al suo senso di colpa. Io non vedo contraddizione. Proprio perché il male ci rende tutti solidali nella colpa, cioè tutti in qualche modo ne siamo responsabili, tutti sentiamo questa voce, questo "no, no deve essere", quando qualcosa di terribile davanti ai nostri occhi succede, tutti ne portiamo la responsabilità e ne siamo chiamati a, come dire, liberarne il mondo e a liberare noi stessi. Da questo punto di vista, i due riferimenti che tu hai fatto a Dostoevskij non sono contraddittori, anzi sono strettamente legati.
 
STUDENTESSA: Professore, come può il tempo cancellare il male compiuto verso un altro individuo?
 
Questa è una domanda a cui credo tutti siamo chiamati a rispondere, perché sappiamo che questo avviene. Il tempo cancella, che ci piaccia o non ci piaccia. Potremmo anche dire "fortunatamente il tempo cancella". Se non cancellasse come potremmo vivere con questo peso, questo peso che si accumula, non soltanto nella nostra vita - ne saremmo schiacciati -, ma si accumula di generazione in generazione. Non potremmo vivere. Dunque è giusto che questo avvenga. Ma non c'è ingiustizia più grande che nella cancellazione del male, e non perché si voglia vendetta, ma perché sono le vittime, se mai, che dovrebbero perdonare, non noi.
 
Noi dobbiamo ricordare, dobbiamo ricordare che il male fatto a qualcuno, che non può più neanche perdonare - la vittima annientata, la vittima distrutta, uccisa -, ebbene questo male vuole, deve essere ricordato, nella condizione che è, tipicamente, la condizione umana, che, per l'appunto, ha bisogno dell'oblio e della dimenticanza per sopravvivere. Per cui davvero noi sappiamo che il male sarà dimenticato, che la vittima, il carnefice, prima o poi, saranno accomunati - pensa che cosa, che cosa triste e tragica questa -, accomunati nella dimenticanza. Sappiamo questo e sappiamo anche che dobbiamo ricordare. Abbiamo qui una clessidra, una grande clessidra, che è il simbolo della nostra condizione, condizione quanto mai contraddittoria, perché da una parte non possiamo vivere ricordando tutto, dall'altra dobbiamo ricordare ciò che non può e non deve essere, essere dimenticato. La clessidra, appunto, che sempre, in tutte le tradizioni, ha questo valore simbolico, di esprimere una contraddizione, la quale non deve essere eliminata, deve essere sopportata, deve essere considerata per quello che è.
 
STUDENTE: Buongiorno. La mia domanda è legata a quella che ha fatto la ragazza, legata alla religione. Il male è una condizione insita nella vita di ogni uomo. E la religione può, come forza del bene, se non annullare questa condizione, almeno stemperarla, per renderla meno intensa?
 
Vedi, intanto è giusto questo riferimento alla religione. Si vorrebbe parlare del male, ignorando la religione, e poi ci si casca sempre dentro. E' inevitabile, è la religione l'orizzonte dentro cui - non questa o quella religione, ma, diciamo, l'orizzonte religioso -, è quello in cui davvero questi problemi diventano drammatici e rivelano tutta la loro forza. Però venendo alla tua domanda, io non userei i verbi che tu hai usato. Non direi che la religione è chiamata a stemperare il senso del male o addirittura ad annullare il senso del male.
 
La religione non fa né l'una cosa né l'altra. Fa qualche cosa di diverso, di molto più importante e più significativo. La religione, per esempio la religione cristiana, ma non soltanto la religione cristiana, parla di espiazione. Che cos'è l'espiazione? Questa è una cosa che davvero fatichiamo a capire in un'epoca come la nostra, un'epoca, si dice, "secolarizzata", "laicizzata", in cui le figure religiose non hanno più presa, e così via. E tuttavia possiamo davvero fare a meno di questa categoria, la categoria della espiazione? Dostoevskij, la tua compagna lo ha ricordato, ha toccato questo punto nevralgico. L'espiazione è un perno, è un asse, intorno a cui ruota direi quasi la realtà tutta intera, è l'asse in forza del quale il male si converte nel suo contrario. Non che il male diventi il bene. Il male resta il male e deve essere ricordato per quello che è. E tuttavia, grazie all'espiazione, cioè grazie a questa accettazione, questo riconoscimento di colpa, il male può diventare un'occasione di bene, può volgersi nel suo contrario.
 
STUDENTESSA: Professore? Ritornando alla casualità del male, la psicologia dice che il male da noi subito è inconsciamente voluto. Se è vera la premessa, il responsabile del male è colui che lo subisce?
 
Beh, io direi che trarre una conclusione di questo tipo sarebbe, quanto meno, affrettato. Però cerchiamo di capire che cosa propriamente dice la psicologia, quando dice quello che tu hai ricordato, e cioè che il male da noi subito è il nostro male, non è tanto il male da noi voluto, è il male nel quale ci riconosciamo, lo specchio. Mi alzo ancora una volta. E' il terzo oggetto. Perché, perché questo specchio? Perché il male, è vero, si abbatte su di noi, è qualche cosa di esterno a noi. E' una forza che noi non possiamo controllare, quasi una forza della natura.
 
E tuttavia, specchiandoci nel male, noi in fondo non scopriamo che il nostro volto. La psicologia allora non fa una semplice equivalenza: male subito = male voluto. Ci invita a cercare nel male subito qualche cosa che non è del tutto esterno a noi, ma qualcosa con cui noi abbiamo a che fare, ha a che fare la nostra anima, la nostra realtà profonda.
 
Ma attenta. Non è solo la psicologia a dire questo. Già le tradizioni religiose - pensa alla tragedia greca, che è una forma di tradizione, è una forma di religiosità -, ci ricordava questo: la colpa. Dice la tragedia greca: "Sei responsabile del tuo destino". Colpevole vuol dire questo: "Tu porti la responsabilità del tuo destino".
 
Ma come, il destino è una forza necessaria, è una fatalità, il fato per l'appunto. Che cosa c'entro io? Eppure i greci, i grandi scrittori tragici non hanno fatto che interrogarsi su questo enigma
: il destino è il mio destino, del destino io porto la colpa. Anche se siamo in un ambiente, in un ambito completamente diverso, quello della dogmatica cristiana, anche il Cristianesimo ci parla di qualche cosa di analogo: l'idea del peccato originale.
 
Noi portiamo la colpa di qualche cosa di cui non siamo colpevoli, ma che è un nostro destino. Sono assurdità queste! Attenzione a liberarci un po' troppo alla svelta di questi, di questi problemi. Attenzione, perché allora come potremmo spiegare il senso di solidarietà - lo dicevo prima - di tutti nella colpa, il fatto che tutti siamo uniti nella colpa. Come possiamo spiegare il fatto che si presenta davanti a noi un innocente ferito o comunque un essere umano come noi sofferente, ferito a morte dal male? Noi non gli abbiamo fatto niente, tuttavia dobbiamo rispondergli, rispondere di lui, perché responsabilità vuol dire, rispondergli e rispondere, entrambe le cose.
 
STUDENTE: Buongiorno. Prima si faceva cenno al voler annullare il male. Diciamo a diminuirlo. Ma si può dire che la vita non avrebbe senso senza il male? In fondo anche la religione cristiana interpreta la vita come la possibilità di espiare un colpa originaria.
 
E' vero. Si parla infatti in teologia di felix culpa, cioè di una colpa, il male, però felice, perché rende la vita quella che è: vita umana, vita non soltanto di chi vive in un paradiso terrestre ed è inconsapevole. Qualcuno dice che l'unica via a Dio - forse lo dice giustamente, consapevolmente - è l'esperienza del male, ma questo non significa che il male debba essere, come dire, considerato una condizione necessaria e quindi in qualche modo voluto.
 
STUDENTE: Ma è stato anche immaginato un mondo utopico, in alcuni film, e si è sempre arrivati alla conclusione che non può esistere proprio la vita senza il male, diciamo.
 
E' vero, è vero anche questo, tant'è vero che l'utopia spesso si converte - anzi forse inevitabilmente e sempre - in un universo concentrazionario, in un universo dove il male dilaga, il male trionfa. Ma perché? Perché l'utopia ha chiuso gli occhi di fronte alla realtà del male. Il fatto che il male sia una realtà, di nuovo non deve portarci a introdurlo forzatamente nella realtà stessa. Non sta a noi. Il male c'è. A partire di lì reagiamo, cerchiamo di eliminarlo, convertiamolo in qualche cosa d'altro, espiamolo. Ma tutto questo non significa che il male debba esserci e sia addirittura qualche cosa in sé e per sé di buono.
 
STUDENTE: Professore, si può fare una gerarchia nel male e nella sofferenza, che da questo male viene provocata? Cioè il rapporto che ci può essere tra male e sofferenza?
 
Io distinguerei intanto, a questo proposito, tra sofferenza e dolore, se noi andiamo a vedere alla radice, troviamo la possibilità di distinguere queste due realtà: la sofferenza da suffero, implica una sorta di patimento: noi "sopportiamo", "soffriamo" qualche cosa, che si impone a noi. Dunque è il momento della calamità, quello della sofferenza, calamità appunto nel senso di ciò che si abbatte su di noi. Dolore invece, implica già una sorta di consapevolezza, un essere consapevoli, un volere che ciò che è stato non sia, un offrirsi all'espiazione. Ecco questa sorta di gradazione - tu dicevi gerarchia -, che può essere fatta, anzi deve essere fatta. Non parliamo poi della distinzione tra male subito e male fatto, male fatto inconsapevolmente, male fatto consapevolmente e così via.
 
STUDENTESSA: Allora, ha parlato ora di un male voluto dall'uomo e un male che è dovuto invece da fattori esterni. Quindi possiamo fare una, non so, una scala gerarchica? Quindi possiamo valutare peggiore il male voluto dall'uomo rispetto al male che si abbatte su di noi senza alcuna premessa?
 
Beh, sì è vero, bisogna fare una differenza tra il male che si abbatte su di noi e il male che noi facciamo volendolo fare. Su quest'ultimo punto io credo valga la pena fare un'osservazione. Il male voluto è come se non lo si incontrasse nel mondo. Uno dice: ma come non si incontra il male, il male voluto? No, però uno si rivolge all'autore di questo male, l'autore di questo male dice: "Sì, lo faccio perché sono spinto a farlo, non posso fare diversamente, lo faccio a fine, a fine di bene".
 
La capacità dell'uomo di giustificarsi, di compiere le azioni peggiori nella forma del bene, ha dell'incredibile. Io ricordo di aver visto recentemente i filmati delle ultime ore di Hitler, nel bunker. E sapete che cosa ha lasciato detto, in una sorta di testamento finale, che contenesse il senso della sua vita? Questo: "L'umanità mi sarà sempre grata per quello che ho fatto". L'umanità mi sarà sempre grata: ha dell'incredibile; ma uno potrebbe allora dire che lì non c'è male voluto, che lui credeva di fare il bene?
 
Eh, no, attenzione! La mistificazione, l'automistificazione è una forma del male, delle peggiori, per la quale si può parlare a pieno titolo di male intenzionale, voluto, anzi, addirittura, di fascinazione per il male, di male a cui ci si abbandona in una sorta di vera e propria libidine nel fare il male, anche se ci si nasconde.
 
STUDENTE: Professore, buongiorno. Secondo Lei il bene e il male non sono forse entità, espressioni o quant'altro di un processo, insomma la vita, che l'uomo cerca di illudersi e di riuscire a capire, e quindi poi di dominare. Quindi, secondo Lei, l'uomo può riuscire, conoscendo il male e il bene, a dominarlo?
 
Mah, la speranza è questa: che l'uomo possa dominare il male, dominare questa forza distruttiva e tremenda che è il male, e quindi, e quindi fare il bene. La tradizione filosofica e religiosa, che sta alle nostre spalle, che ha costruito l'orizzonte dentro il quale noi stessi viviamo è molto più pessimistica. Ci dice il contrario. Ci dice che l'illusione di dominare totalmente il male, fino ad annullarlo e trasformare il mondo in una sorta di paradiso terrestre per l'appunto è una illusione, una delle più funeste. Questo non significa che allora il male bisogna semplicemente accettarlo come un dato di natura. No. Ma per l'appunto l'una cosa e l'altra. Il male è forse una realtà ineliminabile, non di meno dobbiamo fare di tutto per vincerlo, perché, se così non facessimo, non potremmo neppure parlare di coscienza morale, quindi di coscienza del male stesso.
 
STUDENTESSA: Professore, ho letto una Sua intervista e Lei praticamente ha detto che il pagano accetta il male in modo migliore rispetto magari a un cristiano, in quanto il pagano vede l'evolversi della vita, quindi accetta il male, accetta la morte, accetta qualsiasi evenienza, mentre magari il cristiano, vedendo, non so, credendo in un premio finale, non riesce ad accettare queste cose e non vede, come ha detto Lei, in Dio stesso il male, il Dio che si è praticamente, è andato alla morte per la sua libertà, e quindi comprende in se stesso il male. Volevo chiedere una spiegazione.
 
Ma vedi io non so a quale intervista tu ti riferisca, non mi riconosco - può darsi che abbia detto esattamente queste cose, domani potrai arrivare con ... e dire: "No, Lei l'ha detto, guardi sì, forse", ma si commettono anche degli errori -, non mi riconosco completamente in quello che tu hai detto, ma almeno in parte sì. Cioè che ci sia una differenza tra il modo, diciamo un po' genericamente, il modo pagano di concepire il rapporto dell'uomo con il male e il modo cristiano di concepire lo stesso rapporto, ecco questo credo sia indiscutibile.
 
Per il greco antico l'uomo è un'ombra, che sulla scena della natura, la natura che eternamente resta ed è inattaccabile dal male, perché tutto ciò che avviene, avviene in funzione dell'eterna generazione della natura, ecco, per il greco antico sì, l'uomo è un ombra, ma il male è qualcosa di relativo, di relativo a quest'ombra, e quindi qualche cosa in definitiva di umbratile. La natura, la realtà, che vive eternamente, non è toccata dal male. Per il cristiano invece il male ha a che fare non solo con la vita sua, dell'uomo, ma con la vita stessa di Dio. Un mondo senza redenzione - e questa è una categoria cristiana, non greca - è un mondo, in definitiva fallito. Ma se fallisce l'opera della redenzione, allora Dio stesso, Dio stesso fallisce. E al cristiano questo appare insopportabile, insostenibile. In altre parole, il male è qualcosa di così scandaloso che dall'uomo arriva fino a Dio, scavalcando la natura.
 
STUDENTESSA: Professore, buongiorno. Volevo sapere se è possibile definire il male dal punto di vista scientifico.
 
Mah, c'è chi ha provato a farlo. Lorenz, per esempio, l'etologo, non so se tu conosci questo studioso. E la conclusione, a cui è arrivato, sai qual è? E' che il male non esiste. Dal punto di vista strettamente scientifico, non si può parlare del male. Si può parlare certamente di malattia, di morte, di processi distruttivi. Ma per l'appunto tutto ciò non ha a che fare con la coscienza, non ha a che fare con la coscienza morale. Allora è più giusto parlare di processi all'interno della natura, che di scandalo, come noi abbiamo parlato, o di rifiuto assoluto, di "no" metafisico, il "no" che proviene dal cuore stesso della, della realtà, e così via.
 
STUDENTESSA: Come si spiega Lei il fascino esercitato dal male e da Satana nell'Ottocento, nel corso dell'Ottocento, sui poeti romantici?
 
E' vero, c'è questo fascino, esercitato dal negativo, dal male sui poeti. Ma io parlerei non tanto del fascino esercitato dal male sui poeti. Parlerei piuttosto del fatto che i poeti hanno capito, meglio di quanto non abbiano capito i filosofi forse - ecco perché prima parlavo della necessità di interrogare filosoficamente le grandi opere d'arte -, i poeti hanno capito che il male può essere una forma di seduzione, di fascinazione. Cioè il male non è soltanto qualche cosa che si oppone all'uomo, qualche cosa che al suo puro e semplice apparire scatena nell'uomo una reazione contraria, una reazione di opposizione. L'uomo spesso - e i poeti hanno avvertito, hanno avuto la sensibilità per dirlo -, l'uomo spesso si abbandona al male come a qualcosa di fascinoso, come a qualcosa per il quale merita di vivere, anzi, peggio ancora, merita di morire, merita di autodistruggersi.
 
 
Dovremmo dire che qui il male celebra davvero il suo trionfo. E' un capolavoro questo, che il male, se vogliamo vedere la sua, la sua raffigurazione sensibile, Satana, il demonio, ecco compie qui davvero il suo capolavoro, là dove riesce a convincere il soggetto che la sua stessa distruzione è la forma più alta e se non altro più piacevole di vita, è una forma oscura e contraddittoria di felicità.
 
Ma, detto questo, che cosa dovremmo ancora dire? Che davvero il male non cessa di sconcertare, di stupire. E' una realtà che va al di là. E' una realtà che incontriamo nel nostro cuore, che non vive se non nel nostro cuore e tuttavia va al di là, infinitamente al di là di noi. Questo significa che il problema filosofico del male non può trovare una soluzione. Può, deve sempre di nuovo essere posto, perché almeno questo, dobbiamo riconoscere, è essenziale: avere consapevolezza della problematicità di ciò di cui qui stiamo parlando, di ciò di cui abbiamo cercato di parlare.