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Antonella Cuppari


ICONTRO DEL 17 LUGLIO 2002

Ciao a tutti,
mi metto solo ora a scrivere ciò che mi è "rimasto" dell'incontro di ieri, perché, a volte è meglio prima "digerire" quanto si è introdotto e farlo entrare quindi nel circolo sanguigno.
Comunque: dato che i miei appunti sono un vero "disordine" è probabile che nel mio resoconto ci saranno un mare di imperfezioni, quindi mi aspetto correzioni e integrazioni.

Punto 1: il film sulla sfida ("51 giorni")

Ha presentato il film Sisto, dato che è sua la traccia, e non senza una certa emozione:

"Il nostro intento era quello di trasmettere la nostra esperienza, e i risultati dei nostri incontri, anche ai giovani detenuti del Beccaria. Su suggerimento di Emilia Patruno ecco nascere così l'idea del film; il film rimane e inoltre si presenta in modo più "accattivante". La bellezza di un film sta nella sua capacità di creare un sogno e di dimostrarlo agli altri; in fondo il cinema stesso non è altro che un qualcosa che fa sognare.
Il protagonista del film, un certo signor S., è un detenuto e a seguito della morte di un compagno di cella, lancia una sfida pubblica all'istituzione al fine di far cambiare le cose. E' una sfida pubblica perché se non avesse avuto l'appoggio dei media nessuno se ne sarebbe accorto.
Nel film è presente da un lato la sfida senza via d'uscita (quella del signor S., "aspirante suicida"), dall'altra la sfida costruttiva (quella del signor Z., altro detenuto che fa propria la sfida di Z., ma porta avanti il proprio progetto in maniera più "moderata").
Il protagonista e il suo "alter ego" percorrono due strade diverse ma che tendono allo stesso obiettivo; alla fine del film, le loro strade riescono ad incontrarsi, e solo così il signor S. decide di abbandonare la decisione di suicidarsi."

Salvatore ha integrato quanto detto da Sisto:

"La minaccia di suicidio inizia come ricatto alle istituzioni e deriva dalla sensibilità del protagonista nei confronti dei malati in carcere. Nel film le varie sfide contenute nel film si evolvono:
evoluzione della sfida del signor S: rappresentata dal cambiamento di decisione; dalla minaccia si passa al dialogo. E' una evoluzione che è stata resa possibile grazie all'aiuto dei compagni e altre figure carcerarie
evoluzione del magistrato (rappresentante delle istituzioni): nel momento in cui il figlio del magistrato si ammala di AIDS, questi diventa più sensibile alla problematica dei malati in carcere.
L'aspirante suicida, il signor S., rappresenta una sorta di "guerriero della sfida" mentre il suo alter ego possiamo dire che si occupa più della "parte politica" della questione. Essi portano avanti due sfide differenti ma uguali al tempo stesso."

Da queste iniziali presentazioni sono seguiti commenti, critiche e suggerimenti relativi alla trama del film.

Io personalmente ho espresso ciò che più mi aveva colpito della trama che mi era stata raccontata; in particolare la questione della sfida personale, che però solo nel momento in cui diventa condivisa riesce a produrre qualcosa di concreto. Inoltre, sempre a riguardo del film, vorrei aggiungere che in questa sfida, che inizialmente vedeva contrapposta sfidante e colui che veniva sfidato, i confini tra nemico da sfidare e la sfida stessa che porta avanti il protagonista e il suo alter-ego, si fanno più labili. L'istituzione, rappresentata dal direttore e dal magistrato, a poco a poco vengono coinvolti nella sfida, e il magistrato arriva a far propria la sfida che gli era stata lanciata dallo stesso signor S.

Cosimo ha invece sollevato un'altra questione relativa al fatto che nel film il magistrato agisce solo in conseguenza a un dolore personale. Da questa sua osservazione è seguito un lungo dibattito, in cui si è cercato di capire se l'unico modo per sensibilizzare qualcuno a qualcosa sia un evento personale spiacevole che vede la persona coinvolta in prima persona. Mentre Dino, in accordo con Salvatore e Sisto, dice che è solo con la sofferenza che ci si sensibilizza ad un problema, per Silvia la storia del figlio del magistrato che si ammala di AIDS sminuisce la sfida del carcere. Anche io ho espresso la mia opinione a riguardo e mi trovo d'accordo con Silvia; questo film dovrebbe mostrare qualcosa, una sfida che in qualche modo permette la trasformazione, il cambiamento di qualcosa vissuto come intollerabile. Ma se il figlio del magistrato si ammala di AIDS, cosa ha provocato il cambiamento, la sensibilità di questa persona? La sfida del signor S. o piuttosto la triste vicenda personale?

Emilia Patruno ha accantonato l'argomento e ha chiesto a noi studenti un parere circa "l'appetibilità", la comprensibilità del film.

Secondo Antonio il film può modificare la visione stereotipa del carcere e dei detenuti perché riesce ad avvicinare due realtà che sembrano diverse (quella dei detenuti che hanno prodotto il film e quella della società che va a vederlo) ma che in realtà condividono emozioni simili etc…
Rossella invece, fatica a vedere l'evoluzione del protagonista e vede la sfida del signor S. come una sfida che incita alla morte e non alla vita. E' solo attraverso la figura dell'alter ego che il protagonista viene aiutato. Anche io mi ritrovo d'accordo con Rossella; la sfida che il Signor S. porta avanti è una sfida che erige muri invece di abbatterli, è una sfida con la corazza, è una sfida che parte con un proposito giusto ma che utilizza il ricatto, e il rancore per essere portata avanti. Ecco quindi che il signor Z. può metaforicamente rappresentare quella parte di S. che in qualche modo decide di collaborare, di agire trasformativamente sulla realtà; solo così la parte di S. più narcisistica, più chiusa in sé stessa, riesce a lasciar da parte l'orgoglio, la rabbia e il rancore e accetta di agire in maniera più costruttiva. Il film mostra come così facendo la realtà in effetti comincia a cambiare anche se di poco: un detenuto, vecchio e acciaccato viene scarcerato.
Claudio ritiene che l'appetibilità del film dipende dai dialoghi che vi saranno inclusi che non tanto dalla trama in sé, mentre Tamara sottolinea la necessità di pubblicizzare l'uscita di questo film in modo da far nascere interesse e curiosità a chi "sta fuori". Per Sara, ciò che conta di questo film, è il fatto che è stato girato in carcere. Per lei nel film è più riconoscibile il ricatto della sfida; è attraverso la visibilità del ricatto che la sfida può essere compresa.

A questo punto il proff. Aparo interviene cercando di fare il punto della situazione:
" Fino ad ora tutti noi abbiamo affrontato due questioni principali relative al film:
- il tema del RICATTO: il protagonista rappresenta la parte ricattatoria mentre il signor Z, definito da Sisto "alter ego", porta avanti una sfida più affabile.
- La questione del magistrato: il film parte con un ricatto che va avanti fin quando un magistrato comincia a diventare più partecipe. Da qui sono scaturite osservazioni sul figlio che si ammala di AIDS perché questo evento rappresenta un fatto esterno alla sfida portata avanti dal signor S.
A mio avviso il tema del ricatto solleva la problematica della comunicazione; si fa qualcosa di tipo ricattatorio che contiene una comunicazione, un desiderio di riconoscimento. Colui che commette un'azione violenta, ha dentro di sé il desiderio confuso di comunicare il fatto di non essere riconosciuto. Questa esigenza di riconoscimento che sta dietro al ricatto, solo se viene raccolta e ascoltata può far evolvere i ricatto.
Gli elementi che inducono il magistrato ad essere poco attento al problema sollevato dal signor S., non sono solo costituiti dalla sua particolare personalità, bensì anche dal tipo di comunicazione che gli giunge in modo ricattatorio.
Ora vi propongo un esempio pratico, quello di Vito Damone, a cui è stata avanzata una richiesta di trasferimento. Vito non vuole essere trasferito: come può evitarlo? Un modo è quello di fare un gesto eclatante in modo che l'istituzione receda dalla sua scelta. Vito però è qui, e come potete vedere, non si è tagliato; così facendo però rischia che la Giustizia non lo ascolti. Vito avrebbe avuto più probabilità se si fosse tagliato, ma in questo modo avrebbe finito col recedere ad un comportamento arcaico aggressivo.
Nel film vi è un evento eclatante: il proposito di suicidarsi. Bisogna mettere il magistrato nelle condizioni di andare al di là del ricatto in modo che la persona ricattatrice possa da questo riconoscimento, evolvere. Far piovere al magistrato una "disgrazia dal cielo" quale il figlio che si ammala di AIDS, non permette di porre l'enfasi su questo riconoscimento. La mia proposta potrebbe essere quella di pensare al comportamento ricattatorio del magistrato con, ad esempio, suo padre, il quale non risponde simmetricamente al ricatto del figlio, ma ne riconosce il desiderio di essere riconosciuto. In questo modo si può pensare che il magistrato può far proprio l'atteggiamento di accoglienza del padre e può applicarlo anche col protagonista.
Ciò che vorrei sottolineare è che la sfida non è solo interpersonale (cioè fra persone fisiche diverse), ma anche intrapersonale (cioè all'interno della persona stessa). Da questo punto di vista il ricatto può essere visto come sfida regressiva mentre la comunicazione come una sfida propulsiva, comunicazione non solo fra persone differenti,ma anche fra parti di sé che vogliono cose diverse."

Tiziana a chiesto a tutti i detenuti cosa loro volevano comunicare con questo film:

Salvatore: "Con questo film voglio comunicare che solo attraverso la comunicazione le cose si risolvono. Se la comunicazione viene interrotta non si va avanti."
Dino: "Con questo film voglio comunicare che i diritti non possono essere usati in maniera politica, ma vanno riconosciuti. Non si può dire di sì solo in seguito ad un ricatto. E' importante riconoscere la legalità e quindi la persona stessa in quanto tale."
Sisto: "Il film non è indirizzato ai magistrati, ma è un lavoro nostro, un "lavoro artistico". Con questo film noi raccontiamo dove nasce la sfida; la sfida nasce in situazioni estreme, è profonda ed è presente in ognuno di noi. Il mio intento è quello di far vedere "l'occhio del ciclone della sfida"; l'unica sfida vera è quella con se stessi, quella esistenziale."
Riguardo all'intervento di Sisto, volevo soltanto dire quanto io credo veramente che il film rappresenti per loro un lavoro artistico. E' un film che è nato dalla creatività, inventiva e dalle risorse di ognuno di loro; è una prova per loro stessi di quanto di buono essi siano in grado di produrre. E' un lavoro interiore che si è materializzato in qualcosa di concreto… sembra quasi una magia!! Io spero che questo film possa uscire nel migliore dei modi in modo tale che dalla sua riuscita i detenuti possano trarre la certezza e la sicurezza di possedere delle risorse e delle qualità che se incanalate, sono in grado di produrre qualcosa di positivo.
Un'altra espressione di Sisto che mi è piaciuta molto è stata "l'occhio del ciclone"; occhio del ciclone come centro delle dinamiche della sfida, come origine, nucleo di essa. Parlare di ciclone però non permette forse di cogliere il lato positivo di essa; parlare di ciclone sembra quasi considerare la sfida solo in senso distruttivo, e mette da parte ciò che della sfida ne dovrebbe costituire il fine: la trasformazione, la costruzione.
Pippo: "La sfida che secondo me il film porta avanti, ha lo scopo di far capire chi noi siamo; non mostri, ma persone".

Il proff Aparo decide di terminare la discussione sul film con un ultimo intervento:

" Il film parte da un'assenza di spazio; la sfida infatti ha il suo punto centrale nella persona che è in rapporto col suo spazio (spazio non solo fisico ma anche interno). Il rapporto della persona con il suo spazio costituisce la condizione per lanciare una sfida attraverso le uniche risorse al momento disponibili del protagonista: il ricatto. Ma è attraverso l'aiuto di altre persone che il desiderio di superare l'assoggettamento alla tirannia permette il passaggio da una sfida iniziale regressiva (che non porterebbe ad alcun guadagno in termini di spazio) ad una sfida evolutiva."

Punto 2: Il "gioco delle domande a coppie"

Da Diego a Cosimo
D: C'è possibilità che tu un giorno sia in tribunale a giudicare?
C: No, non è nelle mie intenzioni.
D: Qual è stata la tua prima impressione entrato in carcere?
C: L'impatto è stato fortissimo; in queste situazioni entra in gioco l'irrazionalità e fattori di cui non siamo consapevoli.
D: Quale sfida vuoi lanciare adesso col lavoro che stiamo facendo?
C: Voglio lanciare una sfida contro il tiranno, il tiranno come voce interiore che non ci fa essere mai soddisfatti di quello che siamo, ma un tiranno che è anche esterno. E' anche lo Stato che non si occupa di alcune parti di se stesso e che deve essere richiamato. Lo stato però, siamo anche noi che stiamo ragionando su temi di importanza vitale. La sfida che voglio lanciare è una sfida attraverso il dialogo per la crescita.

Da Dino a Silvia
D: Mettiamo il caso che un tuo caro amico si trovi nei guai con la legge; commetteresti un reato per aiutarlo?
S: Col cuore si con la testa no; col cuore farei di tutto per un amico, con la testa cercherei la soluzione migliore possibile per aiutarlo.

Da Sisto a Sara
SI: Pensi che in un futuro potresti "allungare" il limite di una delle tue sfide?
SA: Dipende; questo confine si potrebbe anche accorciare. Molto dipende anche dalla propria esperienza personale, dalle sfide fatte, e molto dipende anche dalla sfida che viene giocata in quel momento.

Da Diego a Sara
D: Tu hai affermato, in un tuo scritto, che non tutti siamo uguali. Io non mi aspettavo di finire in carcere eppure ci sono finito. Tu non pensi che per cause magari sbagliate, anche a te potrebbe accadere?
S: Certo, potrebbe essere. Nel mio scritto io volevo dire che noi siamo sì uguali in quanto persone, ma il nostro lavoro si arricchisce e il gruppo va avanti perché portiamo al suo interno esperienze diverse.

Da Salvatore a Antonella
S: Tu credi che in qualche modo l'amore possa limitare le proprie sfide?
A: Io credo che sfida e amore non siano fra loro incompatibili. Tutto dipende dal tipo di sfida che si porta avanti. Ci sono sfide condivisibili con le persone a cui si vuole bene, sfide che permettono l'allargamento dei confini di tutti; questo tipo di sfide non sono in contrasto con l'amore, anzi si nutrono di esso per essere portate avanti. Poi ci sono sfide che definisco onnipotenti, e che invece rubano spazio altrui e vanno a discapito di altre persone; ecco in questo caso forse la sfida è in netto contrasto con l'amore, amore inteso come riconoscimento, rispetto, affetto per l'Altro da sé.

Da Vito a Cosimo
V: Tu nel tuo scritto hai parlato dell'effetto che ti ha fatto il tuo primo ingresso a S. Vittore: la porta nel muro…. Come lo vivi adesso?
C: Sicuramente in maniera completamente diversa dalla prima, anche se un po' di timore comunque rimane. Del resto è una realtà dura da digerire.

Da Dino a Claudio
D: Pensi che per una persona che commette reati, la mancanza di scrupoli rimuove la paura che il commettere reati comporta?
C: Non riesco a inquadrare bene ciò che tu chiami "mancanza di scrupoli"; io credo che nel momento in cui si compie un'azione, i precetti morali vengono meno e si imbocca una spirale dove difficilmente si può tornare indietro.

Da Aparo a tutti
A: Io vi voglio proporre una domanda che mi è stata posta da due persone diverse in momenti diversi. Queste persone sono Luigi Pagano, direttore di questo carcere, e Enzo Funari, psicoanalista. La domanda è questa: "a che serve tutto il lavoro che state facendo? O meglio, al di là di un arricchimento culturale e personale per gli studenti, cosa ne ricavano i detenuti che poi si troveranno di fronte ad una realtà sociale che non sarà sostanzialmente cambiata?". Inoltre Funari ha ancora aggiunto: "Non c'è il rischio che i detenuti, col loro bagaglio culturale, una volta fuori si sentano ancora più frustrati di fronte alla realtà che fa fatica a reintegrarli?

Sisto: Questi due personaggi, a mio avviso, non conoscono né noi né gli studenti. Le conoscenze che attraverso il lavoro stiamo facendo nostre, potranno in un futuro essere estese. Inoltre non sono d'accordo sul fatto che il mondo resta sempre uguale, anzi a dire la verità sono convinto che peggiori sempre più. Voglio però portare un'esperienza personale. Quando spacciavo droga nel mio quartiere un giorno vennero degli studenti universitari con l'intento di fare una ricerca su questa zona di traffico di droga. Io avevo un falso preconcetto degli studenti universitari; li consideravo figli di papà, dei rompiscatole e che in quel momento erano lì a cercare di studiare il nostro disagio. Attraverso il nostro lavoro, ora, ho capito che gli studenti sono completamente diversi da come me li ero raffigurati: studente vuol dire sacrificio e impegno.
Emilia: io volevo rifarmi alle parole che Guido aveva detto nello scorso incontro che ponevano l'enfasi sul fare e non sulla "chiacchiera". Posso assicurare che non per tutti è facile chiacchierare. Da una parte è vero come dice Livia che le chiacchiere sono un fare, ma noi non siamo tutti uguali, siamo insieme per uno scopo comune in cui è normale che ognuno tragga qualcosa per sé. Però è difficile comunicare qualcosa se non si costruisce qualcosa insieme e non si costruisce niente con le chiacchiere. E' importante trovare qualcosa da fare di concreto, altrimenti è molto difficile diventare amici.

Questo intervento di Emilia mi ha fatto molto riflettere. In effetti ogni tanto mi chiedo anche io dove arriveremo, fino a che punto, e che cosa questo nostro lavoro insieme sarà in grado di produrre. A molti miei amici e conoscenti ho parlato della nostra esperienza in carcere, e quando loro mi chiedono quale sia il nostro compito, è difficile rispondere, o per lo meno far capire. Emilia parla di chiacchiere; non credo però che le nostre siano chiacchiere. Chiacchierare significa parlare del più e del meno, del tempo che farà domani, delle novità che sono successe in paese. Noi chiacchiereremmo se ci mettessimo a parlare della situazione carceraria attuale, dei pregiudizi della società e di tante altre cose. Le chiacchiere sono fini a se stesse e si prova piacere nel farle. Parlare, comunicare, è ben diverso; può portare alla riflessione, all'analisi interiore, alla trasformazione e al cambiamento. Cosa si intende veramente per fare? Fare vuol dire agire e produrre e non mi sembra che questo non ci riguardi. Fare è investire le proprie risorse in un progetto personale, significa trasformare se stessi e la realtà che ci circonda. Nel fare secondo me, rientrano gli scritti che uno produce, il film che verrà fatto ma significa anche trasformazione interiore, riflessione personale. Il fare a cui fa riferimento Guido forse si riferisce al risveglio della società, al desiderio di cambiare la situazione attuale in termini di leggi. Mi sembra un desiderio del tutto legittimo, ma che non può essere ottenuto con la rivoluzione, dall'oggi al domani. Richiede una riflessione, un lavoro e un "fare" interiore, che all'interno del carcere soprattutto non è da dare per scontato. Anche io ambisco a un cambiamento più concreto, e spero che questo sia anche il desiderio di tutti. Non siamo legislatori ma abbiamo uno strumento molto potente: la comunicazione. Comunicare è per me il nostro strumento per fare; comunicare fra noi, comunicare col sito, comunicare attraverso i convegni. Sarebbe bello cominciare magari a coinvolgere i media, e spero che questo col tempo avvenga.
Forse per i risultati occorrerà tempo, l'importante credo è che questa sfida che abbiamo lanciato non venga mai accantonata ma portata avanti attraverso l'investimento della nostra creatività e delle nostre risorse.

Diego: Così come i convegni servono per crescere, così anche in carcere le cose cominciano a cambiare quando c'è comunicazione. Questa esperienza, personalmente, sta aiutando a crescere.

Sara: Io non credo che la società resti uguale; nel corso del tempo, i rapporti fra le persone cambiano, così come il modo di vivere. E poi cosa dovrebbe fare un detenuto per tutto il tempo che sta in carcere?

Salvatore: Credo che ognuno di noi sappia benissimo la realtà che lo aspetterà fuori, ma a differenza del passato abbiamo qualcosa in più.

Dino: Io credo che Pagano abbia voluto fare una domanda provocatoria. Io penso che la cultura faccia innalzare, permette di non portare agli estremi le conseguenze dei propri gesti. E' un vantaggio per la società; innalzare la cultura permette anche a noi di essere meno pericolosi.

Antonella: Secondo me la domanda di Pagano e Funari non è provocatoria ma tocca un problema reale e veramente importante. In effetti noi stiamo portando avanti un lavoro con i detenuti, mentre la società fuori resta pressoché immutata nei propri pregiudizi. Io credo che non si può far tutto in pochi e non ci possiamo porre mete onnipotenti del tipo "cambieremo il mondo". Noi stiamo agendo su un aspetto del problema che è molto complesso. Io credo che il nostro lavoro possa fornire ai detenuti, un bagaglio, un'eredità che una volta fuori possa permettere di affrontare la realtà non difficile per un ex-detenuto. Credo che ciò che stiamo facendo possa in qualche modo fungere da antidoto contro il giustificazionismo. Di fronte ad una realtà dura che non concede spazi, è facile reiterare nel reato e in qualche modo giustificarlo… "in fondo se non mi danno alcuna possibilità io che altro devo fare?". Ecco quello che secondo me i detenuti possono trarre da questo lavoro insieme.

Pippo: Io spero tanto, attraverso il nostro lavoro insieme, di poter crescere soprattutto per i miei figli.

Emilia: Forse il nostro lavoro è velleitario. L'importante è che il sogno che noi portiamo avanti non sia solo un sogno buttato là. E' solo dimostrando che si affrontano le critiche. La risposta alla domanda di Funari e Pagano non può essere data ora ma solo fra un po' di tempo, dopo che si saranno prodotti risultati concreti.

Ivano: A me Funari e Pagano hanno fatto un po' arrabbiare. Io sto cambiando; non mi interessa se la società è uguale a prima; ciò che più conta per me è il fatto che sia io ad essere cambiato.

Dino: Noi abbiamo il diritto di sognare e avere l'ambizione di essere l'inizio di una cosa grande che prima non è mai stata fatta.

Il proff. Aparo dopo aver ascoltato le varie risposte, ci svela di averne data anche lui ai diretti interessati:

"Noi la forza di cambiare la società non l'abbiamo. Noi facciamo la nostra parte, ma perché la "torta" riesca alla perfezione sono necessarie anche altre cose."


Dopo avervi tenuto incollati per sette interminabili pagine, e dato che sono attaccata al computer da circa 4 ore credo sia giunto il momento (per il momento) di salutarvi.
Aspetto vostre considerazioni e opinioni.
Ciao a tutti.

P.S. Ho qui la vostra cartolina, ma non so bene in quante parti devo dividerla. Se avessimo avuto un punto di incontro abituale avremmo potuto appenderla nel nostro "luogo di lavoro", ma dato che non è così dovrete accontentarvi dei frammenti di questa cartolina. Ciao a tutti.

Antonella