Rapporto dal Convegno di Priola 20 luglio 2002

 

Antonella, Cosimo, Livia


Qualche considerazione sul convegno che si è tenuto sabato scorso a Priola, in provincia di Cuneo; il titolo era "Tutti morimmo a stento: Giustizia e pena di morte".

E' stato un convegno piuttosto interessante, dove però il focus del discorso si è spostato presto sul procedimento penale minorile e sulle critiche alla riforma che il legislatore attuale vorrebbe attuare in materia.

Fra i relatori, sia due avvocatesse che il cappellano del "Ferrante Aporti" (il carcere minorile di Torino), hanno espresso la loro disapprovazione nei confronti di questa riforma. Tutti e tre si sono trovati d'accordo nel considerare l'adolescente una persona in formazione e l'adolescenza una fase di passaggio, in cui le componenti violente e delittuose non vanno intese come sintomo di devianza, ma come espressioni di questa trasformazione. Essi hanno quindi espresso il loro giudizio positivo per quelle pene "alternative" quali attività socialmente utili, la messa alla prova etc…

Dopo il loro intervento è seguita un'intervista a Adriano Sofri che verrà sbobinata in questi giorni.

Aparo, col suo intervento, ha cercato di riportare il convegno a quanto promesso dal suo titolo. Ha detto più o meno quanto segue:

"In Italia la pena di morte non c'è, ma in carcere capita anche di morire di suicidio. Uno stato che non prevede la pena di morte e che, anzi, dichiara che una funzione irrinunciabile della pena consiste nel recupero sociale del condannato, fallisce il proprio bersaglio nel momento stesso in cui un detenuto si procura la morte.

Mantenere all'interno delle carceri condizioni che possono indurre al suicidio è manifestamente in contrasto con l'obiettivo della risocializzazione. La relazione fra detenuto e l'istituzione che lo detiene è così complessa e problematica che, a volte, il detenuto può comportarsi come un bambino che sbatte la testa contro il muro, convinto che la sua testa sia una proprietà dei genitori.

L'isolamento e la morte che a volte ne segue fanno sì che le parti e le istanze che agiscono nell'essere umano interrompano la loro comunicazione; questo accade soprattutto quando una di queste parti è manifestamente problematica, molesta, irrequieta. Fabrizio de Andrè, in tutta la sua produzione, ha voluto ascoltare le voci imperfette dei personaggi delle sue canzoni, comunicando che l'ascolto attento dell'imperfezione umana può portare ad un ampliamento degli orizzonti personali e sociali; in Via del campo un verso dice "..dal letame nascono i fior"

E' vero che in Italia la pena di morte non c'è, ma molti cittadini italiani la vogliono. In realtà, l'essere umano vuole ovunque la morte e la separazione, ma contemporaneamente cerca la vita e vuole superare i confini che egli innalza fra parti di sé e parti del corpo sociale.

Ma che disponibilità ha la società a tollerare le parti oscure di sé che comunque comunicano qualcosa? Purtroppo ha una limitata capacità di farlo perché ciò costa fatica:

Se uno uccide un gioielliere, certo non gli si può dare la medaglia; ciò nonostante, quando si chiudono in carcere le istanze, gli impulsi, i conflitti anche sociali che hanno provocato il reato, si finisce per dimenticare che il reato non è solo l'azione violenta di una persona, ma anche il sintomo di una insufficiente integrazione fra parti in conflitto. Così succede che si chiudono delle persone in prigione, e queste persone, a seguito di questa dimenticanza, possono anche giungere al suicidio in un paese che rifiuta la pena di morte."

A chiudere il convegno è stato poi un filosofo, Gianni Vattimo che è previsto partecipi al convegno sulla sfida di ottobre. Per lui la prima riforma dovrebbe avvenire nelle scuole; infatti dopo la scuola i ragazzi benestanti hanno la possibilità di svolgere diverse attività di svago (giocare a tennis…), mentre i ragazzi meno agiati si ritrovano per le strade, dove è facile che entrino in giri "poco puliti". Per lui non è la pena di morte che suscita il nostro rifiuto, ma la pena in quanto tale. Diceva Vattimo "Quanto più la società è libera tanto più tollera delle trasgressioni; una società è tanto più libera quanto meno è repressiva".

Per quanto riguarda il suicidio lui lo descriveva come "un sacrosanto diritto umano". "Forse non possiamo fare a meno delle carceri e della pena", diceva, "ma bisogna guardarci dentro con un certo senso critico".

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A nostro giudizio, il convegno è stato meno stimolante del previsto; tutti hanno viaggiato sulla stessa lunghezza d'onda e abbiamo trovato il clima piuttosto lamentoso; ci aspettavamo qualcosa di più dialettico, dove ci fosse il confronto fra tanti punti di vista. E' pur vero che alcune affermazioni ci hanno fatto riflettere.

A cominciare dalla analogia fra il detenuto e "il bambino che sbatte la testa contro il muro convinto che sia dei suoi genitori". Ci sembra che con questo riferimento Aparo volesse, tra l'altro, indicare il clima di deresponsabilizzazione che il carcere in qualche modo diffonde. Chiudere il detenuto in cella, limitarlo in ogni scelta, non fa altro che mantenerlo in una condizione un po' infantile. Il carcere risponde alla paura della società, che desidera isolare le parti di sé la cui comunicazione è più oscura e meno intellegibile.

Il carcere ispessisce i confini che separano il deviante dalla società; da un lato la società si illude di essersi ripulita di qualcosa/qualcuno che era vissuto come "sporco", dall'altro il detenuto trova conferma di essere un rifiuto abbandonato nella discarica del carcere. Il detenuto si sente in balia dell'istituzione carceraria e giunge, a volte, a comportarsi come se il suo corpo appartenesse più all'istituzione che lo detiene che a se stesso.

Così, ecco che il bambino sbatte la testa contro il muro, ecco che il detenuto tenta il suicidio; suicidio visto come un ricatto, e allo stesso tempo come rivendicazione di possedere ancora qualcosa su cui si può decidere, qualcosa da strappare alla giurisdizione dell'istituzione: il proprio corpo, la propria vita.

Il numero di suicidi in carcere è davvero elevatissimo; questo dovrebbe indurre le istituzioni - ma anche la società stessa che da fuori osserva come spettatrice - a interrogarsi sulle reali motivazioni che stanno dietro a questo gesto.

Il filosofo Gianni Vattimo parla di "suicidio come sacrosanto diritto umano". Questa affermazione ci lascia un po' perplessi. Crediamo che il suicidio possa essere considerato un diritto da chi si trova privato di tutto fuorché della propria vita; ma non che sia un diritto suicidarsi. E' un diritto vivere, vivere dignitosamente, è un diritto poter scegliere le strade che più rispecchiano la nostra personalità, i nostri desideri, quella strada che in qualche modo ci allontana dal vicolo cieco e buio che è il suicidio.

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Al termine del convegno gli organizzatori ci hanno invitato a una cena in un ristorante tipico della zona. Così ci siamo ritrovati riuniti in una tavolata in compagnia di Francesco Baccini, il suo manager artistico, nonché esperto in comunicazione, Dario Zigiotto, e altri.

Tra un piatto e l'altro il prof. ci ha raccontato quanto i detenuti quel pomeriggio fossero stati attivi e creativi durante l'incontro. Su iniziativa di Sisto, infatti, si era intrapresa una sorta di intervista a un giovane detenuto che ha coinvolto tutti quanti e che, con le sue dichiarazioni, ha permesso di recuperare l'atmosfera mentale che accompagna i reati commessi da un adolescente e il modo in cui questi vive il rapporto con se stesso e le sue vittime.

Sentire queste notizie ci inorgoglisce molto e ci fa sentire l'utilità del nostro gruppo.

Dario Zigiotto, dopo aver chiesto qualche chiarimento sull'attività del gruppo, è intervenuto con una serie di considerazioni che dimostravano, tra l'altro, come da pochi accenni lui fosse stato capace di capire i concetti chiave che stanno alla base del nostro lavoro.

Ecco, a grandi linee cosa ha detto di noi:

"Il vostro gruppo è come un'agenzia di cambio di due monete differenti; da una parte la società, dall'altra il mondo carcerario. Due realtà che per comunicare, per far circolare la propria moneta, necessitano di un'agenzia di cambio in grado di convertirla. Il vostro gruppo è come un trasduttore, un convertitore che permette l'incontro di diverse identità. Sì perché l'incontro, il collegamento fa paura; ma voi siete agenzie che permettete la comunicazione senza paura di contagio e nel rispetto dell'identità di ognuno.

Questo incontro in un primo momento può riguardare solo gli estremi della società, e quindi detenuti e gente "comune", ma poi potrà essere estesa in tutti i luoghi dove vi è separazione. Oggi infatti la crisi della comunicazione non è solo fra questi estremi, ma anche nelle relazioni (vedi la famiglia…).

Io spero che ciò che state facendo possa diventare di dimensioni sempre più grandi; ormai il mondo costituito da idealismo e moralismo è entrato in crisi. Si richiede una società in grado di comunicare e trasmettere messaggi."

E' stupefacente come in un attimo lui sia riuscito a individuare e a riproporre, a modo suo, gran parte di quello su cui noi riflettiamo da tempo. Un'altra cosa che ci è piaciuta molto è l'analogia che ha tracciato tra la nostra e la sua attività:

"In fondo siamo simili; anche io ho il problema di rendere comunicabile la creatività e l'originalità dell'artista. Quando l'artista ha l'ispirazione, l'idea, questa richiede un lavoro sopra, in grado di renderla comunicabile e accoglibile dalle persone. Così mi ritrovo l'arduo compito di trasformare questa sua idea e di restituirgliela facendo comunque credere a lui che il prodotto finale sia comunque suo. E' infatti importante per l'artista credere che il risultato finale sia merito esclusivamente suo, ha bisogno di crederlo. Ma dall'idealità, che fa parte dell'artista, bisogna passare alla progettazione, e per questo è necessaria una competenza che io fornisco."

Da questa conversazione sono nati due spunti per due progetti….. ecco come il discorso di idealità e progettualità si concretizza e si fa progetto reale.


Progetto n.1

Incontro tra il gruppo della trasgressione, Francesco Baccini e Cristiano De Andrè. Incontro dove i detenuti non abbiano solo la possibilità di fruire di un concerto all'interno del carcere, ma dove sia artista che detenuto possono partecipare attivamente. Dario Zigiotto ha parlato di una sorta di paradosso:

"Artista e deviante appartengono a due realtà diverse, l'uno a contatto con il mondo, l'altro tendenzialmente emarginato, ma finiscono per condividere la sofferenza e il sentimento d'esclusione: l'artista, nonostante la sua sensazione di non riuscire quasi mai a comunicare compiutamente ciò che prova, grazie alla musica, riesce tuttavia ad aprire con gli altri una comunicazione godibile e stimolante; chi viola lo spazio altrui, invece, attua col reato una manifestazione diretta e violenta della sua sofferenza, inducendo nel corpo sociale una comprensibile reazione di rigetto."

L'atto deviante e quello creativo nascono entrambi dall'esigenza di superare i confini di uno spazio ristretto, anche se giungono ad esiti assai diversi:

Ecco che questo incontro può rivelarsi propulsivo sia per l'artista che per il detenuto, i quali possono così scambiarsi le proprie diverse esperienze e risalire all'origine delle motivazioni che li hanno indotti a seguire strade così diverse.

I cantanti sceglieranno dei brani che trattino i temi affrontati dal gruppo: imperfezione, trasgressione e sfida.
A questo "mini-concerto" sarebbe poi bello far seguire un dialogo, una discussione dove possano emergere le motivazioni che hanno spinto l'artista a cercare nella musica un canale per allargare il proprio spazio d'espressione, e il detenuto a deviare per ribellarsi ad uno spazio, a dei confini sentiti come troppo stretti.

A questo proposito, ci sembra che questo incontro possa portarci nella stessa direzione cui punta una frase che sul sito riassume gli obiettivi del gruppo: "Immagino la violazione della propria e dell'altrui libertà come uno dei risultati possibili di cellule staminali che abbiano privilegiato una specializzazione, dimenticando gran parte del loro originario potenziale."


Progetto n.2

Utilizzare uno o più scritti di trasgressione.net al fine di creare il testo per delle canzoni da realizzare in collaborazione con Baccini e con Cristiano de André.

Il primo scritto che ci è venuto in mente è "Il jolly e il cavallo bianco", ma tanti altri sono possibili candidati.
In questo modo la canzone non narrerebbe solo la storia di un detenuto (di queste ce ne sono tante in circolazione), ma diventerebbe la testimonianza concreta, il prodotto, del lavoro congiunto del nostro gruppo e di una parte del mondo artistico.
Il signor Zigiotto, in relazione a questo secondo concetto ha anche detto:

"Per far cambiare le persone bisogna risvegliare in loro le emozioni e i sentimenti. In questo la musica riesce benissimo, è una sorta di magia. E' in grado di suscitare intense emozioni"

Ci sembra che mettere in contatto carcere e società utilizzando la musica possa risultare una strategia vincente. La musica e l'alleanza col mondo della canzone possono diventare degli ottimi strumenti per alimentare la comunicazione fra il gruppo della trasgressione e il mondo esterno. Considerati i limiti che inevitabilmente gravano su chi è ristretto in carcere, la musica può costituire quel canale d'espressione che permette ad ogni singola persona di far parte del cerchio della vita.

Ovviamente suscitare emozioni non è sufficiente; ma forse ciò potrebbe costituire il primo passo di un lavoro aperto.