Non era questo il primo sogno

 

Livia Nascimben


Noi del Gruppo siamo stati invitati a Parma a giocare una partita amichevole con un'associazione del luogo che opera nel campo del sociale.

La prima partita l'abbiamo giocata a tavola: tre ore di gioco, alla fine eravamo tutti felicemente stremati! Davanti a piatti tipici parmensi, ci siamo passati la parola ed ognuno che prendeva la palla raccontava un pezzetto di storia del proprio lavoro con l'obiettivo, a fine partita, di individuare differenze e analogie nel modo di operare e costruire un terreno comune per lavorare insieme.

Io ero in squadra ma ho scelto di non giocare dal primo minuto e di iniziare ad osservare il gioco dalla panchina prima di scendere in campo: ho preferito ascoltare ciò che i miei compagni del gruppo e i signori di Parma avevano da dire piuttosto che mettermi subito in gioco, temevo di non avere i muscoli abbastanza caldi e di farmi male cadendo.

Apparentemente seduta in panchina, dentro me stessa giocavo un'altra partita, una partita dura, fallosa fra la mia parte "tiranno" e la mia parte "artista": giocatori esperti con anni di esperienza nel campo della sopraffazione e del soffocamento di ogni slancio vitale contro giocatori desiderosi di esprimersi ma alle prime armi. Insomma, una partita difficile da condurre, ma ancora senza troppi malcontenti nelle due file.

La seconda partita ufficiale l'abbiamo giocata nella cooperativa "La Bula" e altri giocatori si sono uniti a noi: Emilia e 3 ragazzi che lavorano insieme a lei.

La Bula, letteralmente "segatura", cerca di utilizzare e dare vita a ciò che rimane, agli scarti e non solo ai pezzi pregiati di legno. Volontari e persone che sono in contatto con la cooperativa, disabili, detenuti, bambini e famiglie, sono accomunati dalla stessa voglia di sentirsi uniti nel fare; i diversi percorsi, le diverse potenzialità e i diversi pensieri diventano una forza nel portare avanti progetti, tra cui: percorsi di formazione e preavviamento lavorativo di giovani disabili, percorsi di borse-lavoro per detenuti in misure alternative, manutenzione del verde, collaborazioni con enti e cooperative presenti sul territorio.

Ci siamo scambiati molte palle nel corso del pomeriggio: "Tentiamo di portare luce alle ombre di un luogo che si vuole misterioso e ostile e che certamente lo è, ma può esserlo un po' meno se esiste il desiderio di ascoltare e capire", spiega Valeria riguardo al perché loro si occupano di carcere. Noi della Trasgressione chiamiamo i convegni in carcere "Luci e Ombre": cerchiamo nelle zone buie e di confine elementi che possano portare arricchimento anziché distruzione, se fatti dialetticamente dialogare con le spinte in avanti e non tenuti pericolosamente separati dal resto della realtà.

Nel frattempo, la mia partita personale si faceva silenziosamente sempre più aspra, i tiranni erano sempre più inferociti mentre gli artisti sempre più intimiditi dalla prepotenza dei loro avversari: aspettavo il momento "perfetto" per entrare in campo, ma nel ricercarlo stavo, senza accorgermene, ponendo le basi per restare tutta la giornata in panchina, tuttavia sentivo di avere ancora un margine di scelta, la giornata non era conclusa e mi rimaneva ancora qualche ora per tentare di tirare anch'io qualche calcio al pallone.

La terza partita l'abbiamo giocata nel centro storico di Parma a passeggio fra piazze, aree pedonali e viette caratteristiche guidati da Valeria e da un'altra signora volontaria.

Il gioco di luci e ombre, fra le mura di palazzi antichi, chiese e monumenti e gli spazi aperti, creava un'atmosfera quasi magica: si respirava serenità, tranquillità come se il tempo si fosse arrestato e i problemi fossero rimasti in un altro campo di gioco. Forte però era il contrasto con i conflitti che si agitavano dentro me stessa: ormai la mia partita era degenerata, i tiranni avevano preso il sopravvento, non si giocava più per costruire qualcosa insieme; lo scopo sembrava essere diventato quello di censurare ogni movimento e parola potesse essere pronunciata in direzione dell'espressione di sé.

Lo sapevo, da quel momento avrei sofferto irrimediabilmente, avevo fatto diventare la panchina uno spazio blindato strettissimo dove stare: mi sarei sentita incapace di reagire, non mi sarei servita, per stare bene in compagnia, delle relazioni di un anno di lavoro nel gruppo, dei legami d'amicizia nati nei mesi passati insieme condividendo fatiche, parti imperfette di noi stessi e piccole o grandi conquiste. In qualche modo avevo deciso di stare dietro ad un muro e di fatto così è successo: mi sono tirata indietro fino all'ultimo, non ho partecipato alla costruzione di nessun discorso, ho guardato da lontano gli altri divertirsi insieme, non ho mai chiesto la palla e quando qualcuno me l'ha lanciata mi sono girata per non prenderla.

E mentre io ero chiusa fra le mie mura è iniziata un'altra partita: era giunta l'ora del convegno! Aparo ha presentato il film "Campo Corto", Emilia le interviste fatte in occasione della serata ai detenuti perché "almeno con le parole" fossero presenti anche loro, ed insieme hanno evidenziato il nostro modo di operare all'interno e all'esterno di San Vittore: lavorare non per i detenuti portando beni di prima necessità a persone sofferenti, ma lavorare con i detenuti per costruire qualcosa di comune che possa arricchire le parti di società che stanno al di qua e al di là delle mura di cinta, come ha spiegato Emilia, e cercare attraverso l'impegno di recuperare il proprio sogno e nella realtà ricercare gli strumenti per accudirlo e per dargli concretezza, come ha sottolineato Aparo.

"Non era questo il primo sogno. Non era questo amico il primo sogno. Non era questa donna il primo sogno. […] Per tutti un altro amore era il primo sogno. Manciate di sogni buttati a mare." Per i detenuti il primo sogno non era certamente quello di passare parte della propria vita dietro le sbarre; le circostanze storiche non hanno permesso loro di riconoscere e far progredire il primo sogno ed ora cercano, in un ambiente che tende a promuovere la passività delle persone piuttosto che a supportare le spinte, a volte confuse, alla progettualità, di lavorare insieme ad altri per ritrovare uno spazio per dar voce ai propri bisogni e alla propria creatività.

Anche io ieri avevo un sogno, un sogno che nel corso della giornata è abortito. Il mio primo sogno non era tornare a casa delusa, amareggiata e arrabbiata con me stessa per non essere stata capace di giocare insieme agli altri. Il mio primo sogno ieri non era tornare a casa per ritirarmi sotto le coperte. Volevo stare bene, questo era il mio primo sogno.

Desiderare qualcosa però non basta per raggiungerla, spesso si devono fare i conti con le resistenze al cambiamento, con le paure che esprimersi può far nascere e a volte risulta molto faticoso lottare per raggiungere la propria meta.

Entrare in carcere implica trovarsi di fronte a esempi eclatanti di sogni abortiti, relazionarsi con chi ha significativamente distrutto la propria vita e ferito quella di altri ti porta più facilmente a vedere i limiti e i muri che nella quotidianità impediscono alle persone di esprimersi in modo sufficientemente equilibrato ed articolato. Io sono stata e mi sono sentita spesso sola nella mia vita, accostarmi al mondo carcerario mi ha permesso di vedere meglio parti di me stessa tenute isolate dietro muri alti e spessi, lavorare con un gruppo di persone mi dà la possibilità di agire su me stessa mentre insieme si cerca di realizzare un progetto comune.

A Parma non ho giocato la partita "Parma-Milano" e ho perso quella con me stessa; questo scritto vuole essere un pallone lanciato al gruppo in serenità, la condivisione di come io abbia vissuto questa esperienza e, come i fiori lanciati in aria dai detenuti protagonisti del film "Campo Corto", l'affermazione del desiderio di superare un ostacolo e un tentativo di rendere fecondo il dialogo fra parti tiranniche e parti più creative di me stessa.

E allora, non mi resta che salutarvi e darvi appuntamento alla prossima partita!