Giornata delle memorie

Incontro ideato e coordinato da Emilio Pozzi

Carcere di San Vittore

Redazione

26-01-2009  

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini.

Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

“La Città futura”, Antonio Gramsci

 

 

Apre la giornata la direttrice del carcere, dott.ssa Gloria Manzelli.

Prima di presentare gli ospiti, Emilio Pozzi introduce il tema della giornata:

"L’incontro di oggi, si tiene alla vigilia della Giornata della memoria. Il Parlamento italiano ha aderito, nel 2000, alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio “giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto”. 

Il 27 gennaio 1945 erano stati abbattuti, i cancelli di Auschwitz il lager simbolo dello sterminio di sei milioni di ebrei, di mezzo milione di rom e di centinaia di migliaia di civili, detenuti politici. Si vogliono ricordare anche tutti coloro che si sono opposti al progetto dello sterminio e hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. San Vittore non dimentica il sacrificio di coloro che qui hanno subito torture e che da qui sono partiti per i lager o per essere  condotti davanti ai plotoni di esecuzione, all’Arena e al Campo Giuriati, a Milano.

È questa anche un’occasione per onorare le vittime di tutte le guerre, degli eccidi, delle stragi, ovunque siano avvenute e che purtroppo continuano in questo XXI secolo. Il percorso di oggi, con qualche innocente evasione, sarà particolarmente dedicato alla Memoria, uno strumento prezioso, indispensabile."

 

Il prof. Pozzi dà poi spazio ai diversi ospiti.

Umberto Ceriani e Caterina Cidda

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case;
voi che trovate, tornando a sera,
il cibo caldo e visi amici,
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango,
che non trova pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.

Considerate che questo è stato.
Vi comando queste parole:
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi,
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia v'impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
 

Se questo è un uomo, Primo Levi

 

 

Umberto Ceriani e Caterina Cidda avviano poi il

Dialogo tra un professore e uno studente

Studente - Professore, vorrei farle qualche domanda dopo aver ascoltato la poesia di Primo Levi “Se questo è un uomo”: a che serve la memoria storica?  È solo la memoria di un sofferenza vissuta? O è anche altro? Ed è giusto lasciare questa memoria solo a chi si occupa di ricerca, solo agli storici di professione, e non farla entrare, per esempio, anche nelle aule di scuola o, come avviene oggi, nell'aula di un carcere?

Professore - Sono d'accordo con te, questa esigenza è sacrosanta; ma questo purtroppo avviene molto poco; non dico che non avvenga, ma dovrebbe essere più presente. Oggetto della ricerca storiografica non devono essere solo i grandi avvenimenti, politici o militari, e i personaggi importanti della storia; ma devono entrare nella attenzione dello storico il “vissuto”, cioè la soggettività collettiva dei singoli uomini, delle singole donne, perfino dei bambini.

Studente -  Ho visto in America, a Washington un museo straordinario, il Museo dell'Olocausto, che fa fare ai visitatori un percorso emozionante, sconvolgente, per farli entrare, quasi in immersione, negli atroci avvenimenti della Shoà. Non potrebbe essere questo un modo per far imparare la storia più da vicino, a contatto con testimonianze dirette e più coinvolgenti?

Professore - Visto che sei stata in America, sei stata (e se no ti consiglio di farlo) al Museo di Ellys Island? È un' isoletta proprio davanti al porto di New York dove dovevano sostare gli emigranti di tutte le parti del mondo, fra cui moltissimi gli Italiani, che venivano tenuti lì in quarantena per motivi politici, giuridici e sanitari, prima di ottenere il nulla osta per l'entrata negli U.S.A. In quel museo, fra i tanti oggetti, ci sono delle valige di fibra, legate con lo spago, perdute o abbandonate da qualche    emigrante, cui magari era stato rifiutato il visto d'entrata o si era ammalato e morto e non aveva potuto realizzare il suo sogno di disperato. Ebbene, quelle valige sono il simbolo di un'umanità conculcata e offesa; e subito ci fanno venire in mente due cose: una è, come abbiamo visto, l'immigrazione; l'altra, ben più tragica, la deportazione.

In tanti film, sia documentari che di fiction, si vedono i destinati alle camere a gas salire sui vagoni piombati con valige di quel tipo. E allora questo appunto è un oggetto partendo dal quale si possono avere suggestioni che aiutino a comprendere meglio e ad assorbire gli avvenimenti storici.

Studente -  Ho trovato in soffitta un vecchio apparecchio-radio col quale, come mi ha detto mio padre, mio nonno durante la guerra ascoltava i notiziari di Radio Londra, a basso volume perché era proibito farlo e c'era sempre il rischio di rappresaglie dei nazi-fascisti. Anche quella radio è un oggetto emblematico.

Professore -  Senza dubbio. E può significare anch'essa due cose: è il simbolo di un formidabile mezzo di comunicazione, cioè di progresso, ma anche quello degli ascolti clandestini, quando sotto i regimi  totalitari le persone dissidenti possono avere dalle libere radio clandestine notizie diverse e più veritiere di quelle che sono diffuse e imposte dai regimi liberticidi.

Studente -  Ci può essere una memoria, oltre che del passato, anche del presente? Cioè una coscienza storica di noi stessi che forse non abbiamo o che stiamo perdendo?

Professore -   Credo di sì; anche se, parlando di memoria come stiamo facendo ora, di solito si pensa a qualcosa che è avvenuto nel passato, prossimo o remoto che sia. Quella del presente è, come hai ben detto, coscienza di sé, coscienza degli accadimenti di oggi. Voglio citare il poeta Borges: “un sovrappiù di memoria può schiacciare il presente”. Cioè a dire che se si vive pensando solo al passato si rischia di non avere la forza di programmare presente e futuro. Ma dimenticare è altrettanto impossibile. Proprio nelle vicende più tragiche del secolo appena trascorso c'è stata in alcuni una vera lotta per la sopravvivenza della memoria. Ad Auschwitz sono state trovate delle bottiglie con dentro dei biglietti che dicevano “quando troverete questa bottiglia io sarò stato distrutto, non ci sarò più”.    

Bisogna ricordare. E' quello che pensava Primo Levi quando era nel campo di concentramento: “devo sopravvivere per far vivere la memoria”. Si sa che le SS, quando si ritiravano dai campi, distruggevano i documenti, i dormitori, i forni crematori, proprio per uccidere la memoria di quella tragedia.

Studente -  Dunque, per la ricostruzione storica del passato è più che mai importante la memoria personale. Ma perché alcuni dicono: “forse è meglio ricacciare tutto nell'oblio e caso mai vigilare senza pregiudizi che certi fenomeni non debbano ripetersi”?

Professore - Beh, a me pare un'affermazione un po' strana e soprattutto  contraddittoria: se veramente ci preoccupiamo che alcuni fatti non debbano ripetersi, direi che è meglio ricordarli che metterli nell'oblio, per lo meno ricordare quali ne sono stati i sintomi che potrebbero generare di nuovo quei fatti. C'è un bel libro di Christopher Browning, “Uomini comuni”, in cui si cerca di capire come un battaglione tedesco, il 101, composto di gente normale, piccoli impiegati, operai, studenti, gente per bene, diciamo, reclutato nell'ultima fase della guerra, si rendesse colpevole in Ucraina, in Polonia, di efferati sterminii di massa degli ebrei e degli zingari; capire come della gente comune si sia potuta trasformare, da normali cittadini che erano, in bestiali sterminatori.

Studente - Beh, se pensiamo ai nativi del nord, del centro e del sud dell'America, intere popolazioni di nativi furono cancellate.

Professore -  I genocidi perpetrati dagli Spagnoli nell'America Latina contro gli Incas, gli Atzechi, i Maya e dagli Americani del Nord contro i cosiddetti Pellerossa sono alcuni dei più terribili casi di sterminio nella storia dell'umanità, la cui memoria ha stentato molto a sopravvivere. C'è stata in Europa uno sforzo per la memoria che sentivano quelli come Primo Levi che stavano nei campi di sterminio. Ma gli Incas, gli Atzechi, i Pellerossa avevano molto  meno strumenti di quanto potessero avere ex-internati ebrei colti e preparati intellettualmente: avevano meno strumenti per trasmettere la “memoria”. Infatti ci sono voluti secoli perché questi genocidi cominciassero finalmente ad affiorare nella coscienza del resto mondo. Anche il cinema di Hollywood ce ne ha messo del tempo per fare piazza pulita degli stereotipi di comodo e rendere giustizia alle vittime massacrate dalla prepotenza colonialista dell'uomo bianco.

Studente - Il mantenere dentro di noi la memoria dei fatti e dei misfatti, anche quelli compiuti dai nostri padri e nonni e bisnonni implica il fatto di sentirsi in qualche misura responsabili o possiamo invece sentirci assolti da ciò che è stato fatto prima di noi?

Professore -  E' difficile dare una risposta compiuta alla tua domanda. Ma io credo fermamente che un popolo per capire meglio se stesso debba in qualche modo fare i conti col proprio passato. Prendiamo l'Italia: perché è stato il primo paese nel secolo ventesimo in cui è nato e si è sviluppato il fenomeno del fascismo? È giusto e doveroso che gli Italiani si pongano questa domanda. Ma non per dire: “io sono nato, che so? nel '60 o nel '70 o nell'80: e allora, che c'entro io?” Certo, individualmente, soggettivamente non c'entra, ma siccome è parte integrante di una comunità egli vive in rapporto con gli altri e questo rapporto è fatto anche di rapporti col passato. Ecco: chiarirselo questo passato serve a programmare meglio il proprio presente e il proprio futuro. Questo è un punto su cui si deve riflettere.

Studente -  Siamo tornati, ma in realtà non l'abbiamo mai abbandonato, al tema di questa chiacchierata: il senso della memoria, il recupero della memoria.

Professore - Esatto. Il recupero della memoria storica. Quel complesso insieme di tanti individui che costituisce un popolo, una nazione, non ne può davvero fare a meno.

Da un dibattito fra il Prof. Pavone e alcuni studenti, un testo elaborato da Umberto Ceriani.

 

Conclude Caterina Cidda con

25 febbraio 1944, di Primo Levi

Vorrei credere qualcosa oltre,
oltre che la morte ti ha disfatta.
Vorrei poter dire la forza
con cui desiderammo allora,
noi già sommersi,
di potere ancora una volta insieme
camminare liberi sotto il sole.

 

 

Segue la performance del dott. Golfera

 

Viene poi data la parola alla dott.ssa Maria Rosaria Sodano, giudice di Corte d'Appello, che risponde ad una domanda sulla funzione della memoria nei processi.

 

Poi a Donatella Massimilla che porta un intervento su Harold Pinter, regista recentemente scomparso.

 

E' la volta di Roberto Shirer, fotografo e giornalista.

 

Viene aperta poi la parentesi dedicata a Fabrizio De André, con una comunicazione di Angelo Aparo.

Quando si usa il potere per assoggettare l’altro, si finisce per ridurre anche lo spazio per l’espressione della nostra fragilità. Il nazismo ha disconosciuto l’umanità di chi veniva condotto nelle camere a gas, ma anche quella di chi con l’abuso inceneriva la propria coscienza; lo stesso accade quando si usa un’arma o una scrivania per schiacciare le qualità degli altri. Ogni persona che ha potere si trova quotidianamente nelle condizioni di replicare in piccolo il disconoscimento e la tanatofila del nazismo o di assecondare l’espressione delle proprie e altrui qualità.

De André, con i personaggi delle sue canzoni, cerca spazio per quello che la voglia di successo, di potere, di rivalsa tende a far dimenticare: cadute, inganni, morsi, affanni e tuttavia, una bella compagnia:

Disamistade (Ostilità, rancore), Khorakhané (Invito al riconoscimento), Inverno (corsi e ricorsi della speranza), Fiume Sand Creek (I danni del disconoscimento e del potere), Hotel Supramonte (Fragilità e risorse cui fare riferimento nelle cadute e nell’incertezza), Un giudice (disconoscimento della propria imperfezione attraverso l’uso del potere), Don Raffaé (alleanza col potere abusante per l’incapacità di coordinare le proprie risorse e per la latitanza di un’autorità istituzionale che non supporta la funzione positiva dell’agente Pasquale Cafiero), Anime salve (giornate furibonde, morsi e affanni, che bell’inganno sei anima mia, che bella compagnia).

 

Mauro Pagani, subito dopo, ha parlato della capacità di De André di guardare il mondo dando voce a coloro che sono ai margini della scena (“… parla di Raffaele tutolo, ma dà voce a Pasquale Cafiero”). Evocando alcuni ricordi d’infanzia, Pagani si è soffermato sull’impegno di chi si è battuto e ha rischiato durante l’epoca fascista. Ha poi eseguito con rara intensità 3 delle sue canzoni: Creuza de Ma, Sinan Capudan pascia, Davvero Davvero.

 

Il gruppo della Trasgressione ha concluso con una comunicazione a braccio di Mario di Domenico, detenuto a San Vittore. Non c'e stato il tempo di leggere lo scritto di Antonio Iannetta e Antonio Di Mauro.