Luci e Ombre

 

Il "CHI" della ricerca

 

Guido Conti


Il Convegno "Luci e ombre nel quotidiano, nel delitto, nell'arte" ha offerto un'occasione d'incontro tra studenti, cittadini e detenuti per dar vita ad un dialogo tra diverse componenti della società sul tema dell'oltrepassamento dei confini, della trasgressione intesa come violazione delle norme che, implicitamente o esplicitamente, vincolano tutti i campi dell'agire umano.
Il problema è stato affrontato dagli studenti del corso di Psicologia della devianza che hanno presentato alcuni loro elaborati dal taglio epistemologico psico-evolutivo su tale questione. Il domandare lavora a costruire una via, questa è una via del pensiero.

Tutte le vie del pensiero, più o meno percepibilmente, conducono a muoversi attraverso il linguaggio.
A questo punto, in considerazione del fatto che tale esperienza sarà ripetuta ed approfondita, mi sembra rilevante chiedersi "chi" si pone queste domande, prima ancora di approfondire il tema in oggetto.

Non è un problema da poco: sappiamo che l'osservatore non può mai considerarsi estraneo al fenomeno osservato, è parte di un tutto che non si può smembrare, se non a costo di approssimazioni e parzialità. Non ci è proprio il punto di vista dell'Assoluto (Ab-solutus), sciolto cioè dalle specifiche contestualizzazioni che ci determinano come esseri finiti, tale che abbia i caratteri della pura oggettività; allo stesso modo non esiste una Verità neppure in elevati regimi d'astrazione, che possano prescindere dal nostro stato esistenziale.
Interrogandomi intorno al chi, per motivi contingenti faccio riferimento ai detenuti, dato che, volente o nolente, faccio parte di tale categoria e forse posso offrire una diversa visione d'insieme dalla mia prospettiva.
Mi rendo conto che trattando di qualcosa che mi appartiene in prima persona mi espongo al rischio della parzialità, del coinvolgimento emotivo, del "punto di vista" ecc.; nello stesso tempo è proprio quello che voglio, dato che non mi sento portatore di nessuna verità apodittica e non sono animato da alcun intento pedagogico.

Studenti, cittadini e detenuti sono tutti parti della società, possono dialogare perché condividono non solo il loro genere d'appartenenza (ohibò, anche i detenuti sono esseri umani), ma posseggono un patrimonio comune di "famiglie di pensieri" che costituiscono lo zoccolo duro a partire dal quale si apre la stessa possibilità del confronto. Dopo aver stabilito le identità, è altrettanto importante marcare le differenze che esistono; ed è inutile ignorarle giacché queste retroagiscono comunque in qualsiasi contesto, ed inoltre, proprio tracciando linee di demarcazione, è possibile far emergere qualche cosa che non era visibile prima di questo intervento.

Le impressioni inviate al sito dagli studenti sulla prima visita al carcere riguardano il luogo, le celle, la custodia, le sbarre, i cancelli. Tuttavia questa è solo l'apparenza delle cose, è la diversità dagli ambienti che siamo abituati a frequentare che richiama in primo luogo e per lo più la nostra attenzione. Al di sotto e nascosto alla vista esiste una fitta trama di rapporti che determinano i detenuti come tali, quello che non si vede è interno al vedere e lo struttura come sua essenza, la sua trama si può cogliere solo con un altro sguardo, come in filigrana attraverso e oltre le rappresentazioni spontanee e immediate. La semplice percezione offre solo una visione uniforme di un continuum, senza le linee di prospettiva che invece danno modo di cogliere i rapporti interni alle cose, le gerarchie, le dipendenze e le estraneità che costituiscono la loro ragion sufficiente che la struttura come un tutto. Diversamente, questo luogo mantiene l'enigmaticità di un geroglifico egizio, del quale cogliamo solo le caratteristiche estetiche, significante muto della nostra incomprensione.

La soggettività, l'Io, il Sé o l'autocoscienza che dir si voglia, non è qualche cosa che viene prima, che si sviluppa nell'isolamento e poi incontra l'alterità, ma anzi è da sempre che si forma dalla e nella relazione, che da questa prende avvio e si determina, senza la quale neppure esisterebbe. Il Sé, il mondo e gli altri sono elementi complementari che si compenetrano a vicenda costituendo un tutto inscindibile.

Siamo così nati e cresciuti in un mondo dove tali rapporti erano già sviluppati al punto da apparire completamente trasparenti, tanto che non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di pensare che le cose potressero essere altrimenti: questo mondo non lo abbiamo scelto noi, ce lo siamo trovato già bell'e fatto; se avessimo potuto progettarlo a tavolino senz'altro l'avremmo fatto diverso. Ed invece qui, nel Sitz im Leben siamo nella necessità di rispondere all'appello che ci rivolge, e anche quando lo rifiutiamo rigettando l'ethos del vivere comune rispondiamo ugualmente ad esso, anche se in modo difettivo.
Nello stesso stato di mancanza sento spesso detenuti lamentarsi di non aver rapporti con la società civile, non è vero, li hanno, ma nel segno dell'estraneità, dell'indifferenza se non della diffidente ostilità.

E' possibile allora un dialogo? Non mi sto chiedendo se sia auspicabile, su questo siamo tutti d'accordo, mi chiedo se sia possibile, se sia cioè possibile dipanare quella trama, quella ragnatela che ci imprigiona tutti nei nostri ambiti particolari, ciascuno nel suo.
Non so fino a che punto c'entri la volontà dei singoli, e non ne sto facendo una questione di responsabilità: non ci sono colpevoli.
Da parte loro i detenuti, per quanto li conosco, quando dicono di cercare un dialogo, in realtà vorrebbero semplicemente avere - una volta tanto - la possibilità di parlare, di dire la loro. Non è che abbiano alcun messaggio da comunicare a chicchessia, proprio nella parola si manifestano i sintomi di una nevrosi che vorrebbe parlare proprio di quello che più intimamente le appartiene, ma che sempre le sfugge, che è sempre un po' più in là.
Così il discorso, la parola diventa un'arma a doppio taglio, strumento portatore d'umiliazione invece che di liberazione.
Lo si vede tutti i giorni nei Tribunali: lì quotidianamente si confrontano due classi sociali immediatamente distinguibili; l'esito della tenzone contro i professionisti della parola è scontato fin dall'inizio, indipendentemente dalle ragioni delle parti.

L'unico linguaggio possibile fino a pochi anni fa era quello di salire sui tetti e tirare qualche tegola in testa al malcapitato di turno, armi grottesche contro scudi, manganelli, idranti, plotoni della celere in assetto antisommossa. Ora anche questa via è stata abbandonata, è rimasta solo aperta la strada dell'autolesionismo e della rassegnazione.

Quale dialogo è possibile allora?
Il suo luogo d'appartenenza, quello della chiusura del logos occidentale sanziona solo le ragioni del più forte, è quello del buon gusto e del buon senso che ha già deciso tutto in anticipo e aspetta solo una ratifica logica alla sua superiorità; è lo strumento principe del dominio, sotto la sua sudditanza l'unica via percorribile per i meno attrezzati è quella dell'ipocrisia e della dissimulazione.
La verità dei detenuti non alberga nei libri di scuola, nei testi di storia sociale, la cui pienezza è possibile solo nello spazio vuoto di tutte quelle parole senza linguaggio che fanno udire la loro voce a chi tende l'orecchio ad un rumore sordo che proviene da sotto questa storia, il mormorio ostinato di un linguaggio che vorrebbe parlare da solo: senza soggetto parlante e senza interlocutore.

Quando vedo gli studenti, con i loro jeans e zainetti, non posso fare a meno di pensare che molti di loro, consapevolmente o meno, andranno ad ingrossare le fila della repressione. Repressione ancora più sottile e pericolosa, perché non si servirà di idranti e manganelli: per questo non riesco ad amarli, che farci?
Timeo Danaos et dona ferentes.