Qualche spunto sull'imperfezione

 

Guido Conti

Il termine imperfezione indica la negazione della perfezione, qualche cosa che è comunque segnata dalla sua mancanza.
Non è possibile pensare la perfezione senza far riferimento ad un modello: si ha perfezione solo come adeguatezza ad un termine di paragone che ne stabilisce la misura. La scelta del modello è sempre arbitraria, si dà perfezione solo come congruenza di certi parametri, anche quelli stabiliti in anticipo, che vengono di volta in volta preferiti in vista dello scopo a cui si fa riferimento.

Per questo motivo la perfezione è il traguardo dell'era moderna della riproducibilità tecnica, che ha dotato le macchine della capacità di riprodurre lo stesso articolo in un numero potenzialmente infinito d'esemplari, tutti uguali, tutti perfetti in quanto indistinguibili dal loro prototipo.
Su questo terreno l'imperfezione ha assunto anche il significato della scarsa funzionalità: nelle apparecchiature il pezzo imperfetto è quello che non aderisce, o non s'incastra nel modo esatto agli altri, che rischia per questo di compromettere il corretto funzionamento del tutto di cui fa parte.
E' interessante notare quali termini figurati siano usati per qualificare questo pezzo imperfetto: sono sintomatici di una certa visione del mondo, e ne è implicita una loro valutazione morale.

La standardizzazione dei prodotti industriali ha però paradossalmente suscitato nella nostra era una domanda inversa; oggi sono spesso più appetibili prodotti che hanno piccole imperfezioni, perché queste testimoniano che quel pezzo è stato prodotto a mano, qualità che ne garantisce l'alto valore aggiunto. L'imperfezione è diventata una raffinatezza se è limitata a piccoli particolari, perché in un certo modo certifica l'unicità del prodotto al quale è riferita. Si potrebbe dire che l'errore della macchina è imperdonabile, perché genera un prodotto difettoso, mentre è accettato quello della mano umana. E' singolare pensare che il manufatto è apprezzato quanto più si avvicina al prodotto della macchina, basta non lo raggiunga mai, altrimenti non ne sarebbe distinguibile.
In definitiva non ci sarebbe alcuna differenza tra un quadro di un grande artista e una sua copia prodotta industrialmente con assoluta fedeltà, è solo il nostro snobismo che ci fa escludere la proliferazione di certi beni come di identico valore. Ciò non avviene per i libri, che anzi sono stati il primo articolo ad essere prodotto in serie, industrialmente, tra i quali il manoscritto costituisce solo una curiosità. Nessuno oggi potrebbe negare quanto questa noncuranza abbia avuto importanza nella diffusione delle idee e della cultura.

Riferita all'ambito umano la perfezione è troppo spesso confusa con la felicità o con il raggiungimento di certe mete, mentre si tratta solo di una semplificazione. La perfezione come idea occupa in primo luogo il campo del visibile: le imperfezioni fisiche si notano per prime perché sono immediatamente individuabili, a colpo d'occhio potremmo dire, dato che il nostro sensorio è tarato sulle differenze.
Anticamente si pensava che le imperfezioni fisiche fossero il segno tangibile di una deficienza di quelle morali, un monito che il buon Dio ci mandava per farci stare in guardia nei confronti di alcuni individui.
Quest'assurdo pregiudizio è stato a lungo presente nella nostra civiltà, e non costituisce solo un antico e dimenticato retaggio; la Germania hitleriana, per esempio, ha cercato di eliminare le imperfezioni fisiche facendo piazza pulita dei loro portatori, o comunque sterilizzandoli in modo che non potessero tramandare ai loro discendenti le anomalie che inquinavano la razza eletta.

L'imperfezione come idea è spesso confusa e inficiata dal carattere proprio e storico della nostra esistenza: la finitudine.
Tutti viviamo progettando il nostro futuro, finché ci si ferma a questa fase si hanno molte possibilità, molte vie potenzialmente aperte a nostra disposizione.
Nel momento in cui si passa alla fase attuativa, invece, tra le molte possibilità se ne realizza una sola; il nostro campo d'azione si restringe per forza di cose nella messa in opera perché, attraverso la scelta, si lasciano cadere tutte le alternative potenziali.
Ragione per cui, anche nel raro caso in cui riusciamo a compiere alla perfezione quello che ci eravamo proposti, viviamo pur sempre nel muto rimpianto di tutto quello che avremmo potuto fare, ma che non abbiamo potuto esprimere per il carattere finito della nostra condizione. Così si rimane nella vaga insoddisfazione di quanto abbiamo fatto, anche perché spesso, al termine di un compito impegnativo, avvertiamo, oltre al vuoto che lascia la fine di un impegno che ci ha assorbiti intensamente, la sensazione che quanto fatto non ci ha portato proprio tutto quello che ci eravamo immaginati, che la realtà è troppo spesso inferiore alle nostre aspettative.

La finitudine della nostra esistenza è infatti vissuta pur sempre come un difetto, una mancanza in confronto alla pretesa infinitudine divina, cui viene contrapposta in un gioco di antinomie come finito/infinito, limitato/completo, fenomeno/noumeno.

Si rimane così irretiti nella tradizione millenaria dei vari monoteismi, che hanno sempre trattato la condizione umana come un tipo difettivo di quella divina: quest'uomo sempre sofferente, piegato, dipendente. Bisogna risalire alla tradizione greca per trovare, alle sorgenti del pensiero occidentale, un farmaco che faccia da antidoto alla deriva religiosa sulla condizione umana.
Per i greci la perfezione stava nel finito, non nel suo contrario che era fuori dalla loro portata, si trovava perciò solo in quello che poteva essere conchiuso dall'armonia della forma.

Pensandoci bene, è assurdo cercare una pretesa perfezione in qualche cosa che la nostra mente non può arrivare nemmeno ad abbracciare con uno sguardo di sorvolo, la perfezione che possiamo cogliere si trova solo nella misura di quello che siamo in grado invece di apprezzare perché è interamente percepita dai nostri sensi certamente limitati, ma non per questo imperfetti.

A distanza di millenni volgiamo ancora il nostro sguardo ammirato su quello che ci hanno lasciato questi nostri predecessori, nei templi, nei marmi, nelle tragedie, poesia, politica e filosofia.
Anche se non ci hanno lasciato il Canone eterno, dobbiamo esser loro grati perché senza dubbio sono stati coloro i quali vi si sono più avvicinati, facendoci eredi se non altro di un esempio che non ci può lasciar cullare nelle giustificazioni sulla nostra costitutiva imperfezione.

Guardando le opere di questo grande passato si è senza dubbio spronati a dare il meglio di noi, perché è proprio nella ricerca della areth, dell'eccellenza nell'operare e nell'essere che l'uomo per loro realizzava la sua essenza.
Oggi, in un'epoca dove impera il pressappochismo e la ciarlataneria, credo che sia più che doveroso un richiamo alla perfezione, o per lo meno al tentativo verso questa, piuttosto che pascersi rassegnati nel suo contrario per lasciarsi irretire nella consolazione di un destino comune costitutivo della nostra specie, dove possono sparire tutte le differenze perché ci si sottrae alla loro individuazione e misura.

Mi sembra molto difficile sostenere che la genetica premia l'imperfezione, in quanto è proprio attraverso casuali mutazioni del genoma che gli individui progrediscono verso migliori soluzioni adattative. Non esistono infatti soluzioni migliori dal punto di vista genetico se non in rapporto a determinati ambienti che sono in costante cambiamento, ed è molto rischioso confondere l'evoluzione con il progresso, che non ha alcun senso in natura, a meno di cadere in ingenui antropomorfismi.

Dal punto di vista evoluzionistico poi l'individuo (che è quello che conta per noi) è insignificante. Solo la specie conta, ma forse da un punto di vista ecosistemico nemmeno quella, perché è sempre il tutto a venir prima della parte, e qualsiasi specie vive sempre in rapporto ad un complesso e delicato sistema che nessuno di noi è ancora in grado di valutare con precisione.