Carnevale a Venezia

Se sappiamo davvero chi siamo e cosa vogliamo, sapremo usare in modo creativo i vantaggi che la maschera ci offre; se dentro abbiamo un deserto, la maschera sarà un artefatto, pura apparenza. Dipende tutto da noi..

 

Erika Riva

Febbraio avanzava e il freddo gli faceva dolere ogni osso.
Le calli erano tutte un fermento per il carnevale imminente. Giù dai balconi pendevano pesanti festoni di stoffa, le gondole si vestivano di nuovo.
Per i sarti era un periodo d'oro: da mesi preparavano sfarzosi vestiti per i signori di Venezia; nessuno avrebbe rinunciato a dare sfoggio della propria ricchezza. Le botteghe erano tutte un va e vieni di garzoni con pizzi, broccati e piume di ogni colore, beni di lusso, misteriosi e magici come il lontano oriente da cui provenivano.

Enrico non poteva dar sfoggio di niente: vestito rappezzato, girava per le strade suonando il violino, affidando la sua sopravvivenza alla carità di chi si fermava ad ascoltarlo.
Enrico era stanco: stanco di vestire i panni del mendicante, di essere visto come un pezzente, di essere tenuto a debita distanza da tutte le dame solo per il suo aspetto.
La maschera del povero gli stava stretta: la sua condizione economica disastrata non gli avrebbe mai dato l'opportunità di farsi un futuro, di amare e di essere ricambiato. Per lui c'era solo la strada.

Nessuno gli si avvicinava, nessuno avrebbe guardato cosa si nascondeva dietro quella marsina lisa e quelle braghe un po' troppo lunghe e larghe.
Prima di cadere in disgrazia aveva frequentato le migliori scuole, aveva viaggiato, visto genti e paesi lontani…ma tutto questo stava debitamente celato nel suo io, nascosto dalla maschera dell'accattone che ormai era il suo biglietto da visita: era quello che aveva da offrire agli occhi dei passanti.

La gente si aspettava da lui che suonasse qualcosa, magari facesse una battuta spiritosa e biascicasse un grazie quando una nuova moneta tintinnava nel suo cappello. Questo volevano da lui perché era il suo ruolo.
Seduto sul ciglio di un canale, gambe penzoloni, Enrico si guardava la punta dei piedi, silenzioso, sguardo mesto.
Gli bastava alzare gli occhi per vedere tutto il meglio della sua città, tutto quello che lui non aveva e avrebbe voluto; si divertiva a passare il tempo così, fantasticando sui nobili abitanti di quei bellissimi palazzi, fingendosi per un po' uno di loro: che bella vita avrebbe fatto! E che pranzi, che serate, sempre diviso tra un banchetto e l'altro, ascoltando buona musica e facendo amabili chiacchierate.

Improvviso, come un fulmine a ciel sereno, un pensiero gli attraversò la mente: avrebbe fatto parte di quel mondo, ancora una volta, almeno per una sera.
Rubare una maschera da una bottega fu un gioco da ragazzi e, detto fatto, nel giro di un minuto non era più x, ma il Marchese del Grillo.
Complice il carnevale, nessuno gli badava: ora era un signorotto come tanti, con vestiti di buon taglio, lustrini colorati e il suo strumento più importante: una maschera che gli copriva il volto e gli permetteva di scrutare il mondo da un altro punto di vista, di valutarlo, di giudicarlo prendendo le distanze.

La maschera era potere: non veniva più allontanato, per le strade le dame gli rivolgevano scherzosi cenni di saluto credendolo un uomo in festa come tanti; l'aria del carnevale contribuiva a mischiare le carte.
Conservava ancora il ricordo di quanto appreso nella prima parte della sua vita e quindi non gli era difficile far bella figura tra la gente: era un buon oratore, affabile e gentile; attaccava bottone con ogni passante, aveva abbastanza esperienze da raccontare per intrattenere i suoi interlocutori. La frenesia della festa rendeva la gente più aperta e disponibile e in un attimo aveva raccolto più di un invito per quella sera.

Gli sembrava un sogno: tutto il meglio di lui veniva a galla, dietro quella maschera poteva essere se stesso e finalmente rivelarsi agli altri.
Ma allo stesso tempo un dubbio crescente si insinuava in lui: il merito di quel successo era suo o della maschera? bastava davvero un vestito elegante per fare la differenza? Che società era la sua, dove l'apparenza contava più del contenuto? E davvero l'apparenza contava più del contenuto?

Seduto su un'elegante poltrona, alla tavola di un uomo che fino a poche ore prima era per lui uno sconosciuto, si sorprese ad osservare i rituali della conversazione, i manierismi di dame e signori che all'improvviso gli sembravano appesantire ogni parola. La forma, l'apparenza, tutti orpelli superflui che però facevano la differenza: chi voleva vivere in quel mondo doveva adattarsi.
"Ogni vita ha le sue regole, ogni ruolo le sue definizioni, non si sfugge. E non è nemmeno tutta falsità -si disse - sono semplicemente regole: ad alcune persone si adatteranno meglio, ad altre meno. L'importante è non renderle così rigide da lasciarsi imprigionare; il vero io deve sempre emergere."

In fondo proprio quei comportamenti, che ora giudicava, erano stati anche i suoi fino a qualche anno prima. "Bisognerebbe scegliersi dei ruoli che ci rispecchino, così la maschera sociale sarebbe molto, molto vicina alla vera identità. In fondo ci sono infiniti modi di essere "uomo", "donna", "mercante" ; non ci sono ruoli fissi in assoluto, ma linee guida, quelle sì; la nostra personalità fa il resto: se sappiamo davvero chi siamo e cosa vogliamo, sapremo usare in modo creativo i vantaggi che la maschera ci offre; se dentro abbiamo un deserto, la maschera sarà un artefatto, pura apparenza. Dipende tutto da noi."

Capì che in fondo la maschera era uno strumento polivalente e pieno di significati: era mediazione, una sorta di codice comportamentale per gestire le relazioni fra l'io e il mondo.
Ma era anche mezzo di difesa, dietro cui nascondersi e prendere tempo per valutare una situazione con il giusto distacco.
Maschera era potenzialità: amplificava i tratti, permetteva di lasciare emergere lati personali sopiti e magari di scoprirne di inaspettati.
Maschera era finzione: quando non si aveva nulla con cui alimentarla o mantenerla viva, diventava soltanto un guscio vuoto.

Le ore passavano e la festa volgeva al termine; già sentiva in bocca l'amarezza di un sogno che stava per finire. Non sapeva cosa avrebbe fatto l'indomani, ma una cosa l'aveva capita: non si sarebbe più fatto tarpare le ali dall'immagine dell'accattone. Chissà, forse avrebbe provato a bussare a qualche teatro: niente di serio, beninteso, una compagnia alla buona, dove non avrebbero badato più di tanto alle sue condizioni; la maschera gli aveva già portato fortuna, quel giorno e forse vestire i panni di qualcun altro in scena gli avrebbe dato l'opportunità di conoscersi e farsi conoscere, finalmente.