Gli occhi della tigre

Fulvio Cattaneo

10-11-2011  

Aveva appena iniziato a piovere, quando voltai quell'angolo. Nella prima fredda sera d'autunno, la pioggia, del tutto inattesa, era scesa con un improvviso e violento scroscio, costringendomi a stare sotto il più vicino riparo. Se non fosse stato per quel temporale, non potrei ora narrare questa storia.

La strada verso casa, cui ero diretto, era ormai poca ma, da dove mi trovavo, interamente allo scoperto. Il mio riparo, uno stretto balconcino che si affacciava sul lungo viale alberato, era assai misero e se fossi rimasto lì sotto mi sarei infradiciato in breve tempo. Tanto valeva proseguire di corsa verso la mia abitazione. In questo modo, avrei evitato lo stillicidio di un'inutile attesa e mi sarei tolto al più presto gli abiti inzuppati.

Fatto quindi un profondo respiro, mi misi a correre con il temporale che ormai infuriava. Gli occhi fissi a terra, per non scivolare sulle insidiose foglie degli alberi disseminate sul marciapiede, arrivai all'angolo con la stretta via in cui abitavo. Mentre rallentavo, mi preparavo mentalmente a schizzare via non appena lo avessi voltato. Quando penso a ciò che accadde immediatamente dopo, sono tentato di vedere dietro le coincidenze che si verificarono quella sera e, soprattutto, dietro l'insolita e repentina violenza di quel temporale, un'occulta e potente regia volta a realizzare il suo imperscrutabile disegno.

A testa sempre bassa, infatti, stavo giusto allungando la falcata, che andai a sbattere contro un ostacolo imprevisto. Non rimasi tanto sorpreso dalla presenza di quell'individuo, che non avevo proprio calcolata, quanto dalla sua enorme mole. Nei pochi istanti in cui fummo a contatto, ebbi la sensazione di affondare nel suo corpo flaccido. Nonostante lo scontro indolore, ne uscii comunque stordito. L'uomo, infatti, emanava un tanfo di vino che neppure il temporale riusciva a disperdere.

La sua figura mi sovrastava di almeno due spanne e dovetti alzare la testa per guardarlo in faccia. Ciò che potei faticosamente mettere a fuoco, attraverso il velo opaco che in quel momento mi separava dalle cose, fu il volto paonazzo di un uomo di mezza età e con pochi capelli, che mi guardava con un'espressione ebete, senza dire nulla. Dovevo averlo colpito allo stomaco, ma non pareva averne risentito. Si reggeva al muro con una mano e sembrava non essersi reso del tutto conto dell'accaduto. Penso che avesse bevuto così tanto da non accorgersi neppure che pioveva a dirotto. Dalla cintola in su, il suo abbigliamento si riduceva a una camicia a fiori, tenuta fuori dai pantaloni e lasciata aperta sul torace, come fosse piena estate.

Ripresa la mia corsa, solo quando, poco dopo, giunsi davanti al portone di casa, pensai che quell'uomo potesse avere bisogno di aiuto. Mi voltai indietro e vidi la sua nera sagoma in fondo alla via deserta. Non si era allontanata dal punto in cui l'avevo lasciata. Si era solo spostata di lato e, mancandole il sostegno del muro, ondeggiava pericolosamente sul ciglio della strada, a un niente dall'incrocio. Il potente rombo di un motore, accompagnato da un bagliore giallognolo che investì la sua vacillante figura, mi convinse a tornare di corsa indietro.

La sagoma intanto continuava a tenersi sul ciglio della strada, senza cadere. Ogni due o tre passetti si fermava. Pur oscillando vistosamente, appoggiava i piedi come se seguisse una linea diritta e invisibile. Osservandolo, mi ricordava il funambolo, uno così bravo da stare in equilibrio sul vuoto anche senza il bilanciamento delle braccia.

Quando lo raggiunsi, il filo nascosto su cui sembrava procedere lo aveva condotto di poco oltre l'inizio della via, facile bersaglio di qualche scriteriato al volante. Fino a quel momento avevo agito d'istinto. Solo ora mi balenò il pensiero che la mia iniziativa potesse infastidirlo, provocandone magari una reazione violenta. Vista l'enorme mole, avevo assolutamente bisogno della sua collaborazione. Afferrato un lembo della camicia, glielo tirai facendogli ripetutamente segno di seguirmi, nella speranza che capisse la bontà delle mie intenzioni. Fortunatamente si limitò a bofonchiare qualcosa, lasciandosi condurre sul marciapiede del viale senza fare resistenza.

Il successo insperato di quella manovra mi illuse che la parte più difficile dell'opera fosse superata. L'illusione però durò solo pochi attimi, perché mentre pensavo alla mossa successiva, di colpo mi sentii stanchissimo, come se con quel gigante avessi dovuto lottare. L'odore di vino, che gli impregnava i vestiti e mi stava dando la nausea, veniva alimentato da continue e forti zaffate, poiché l'uomo aveva cominciato una specie di monologo in una lingua che non capivo. Inoltre, il fastidio per la pioggia battente e per gli abiti appiccicati addosso contribuiva a rendere la situazione esasperante. Tuttavia non potevo certo abbandonarlo, con il rischio che, nelle sue condizioni, tornasse in strada.

Come se non fosse bastato, guardandomi intorno in cerca di aiuto non vedevo nessuno. I negozi erano ormai tutti chiusi. Avrei fermato un'auto in transito per chiedere soccorso, se solo ne fosse passata una.

L'ubriaco intanto si era appoggiato con la schiena al muro del viale e si reggeva in piedi a malapena. In preda ai fumi dell'alcol, continuava il suo monologo incomprensibile guardando a terra.

- Dove abiti? Casa, home - avevo chiesto inutilmente, ben sapendo che non mi avrebbe risposto. Temendone ora meno una reazione rabbiosa, avevo anche cercato nelle sue tasche un documento, senza però trovare nulla, neanche un centesimo. Gli ultimi soldi li aveva forse spesi per la colossale bevuta.

Qualcosa mi diceva che se lo avessi lasciato solo per qualche minuto, il tempo di correre alla più vicina cabina telefonica per chiamare un'ambulanza (l'era dei cellulari era di là da venire), sarebbe tornato in strada. Adesso era deserta, ma per quanto ancora? Ci dovevo andare con lui e mi chiedevo se mi avrebbe seguito fin là.

Indeciso sul da farsi, continuai a guardare a destra e a sinistra, sperando di intravedere finalmente, se non una figura umana che sfidasse il temporale, almeno il sopraggiungere di un'auto. Tuttavia, per quanto non mi trovassi di notte in un piccolo paese, ma a Milano intorno all'ora di cena, in giro, per un tempo che mi parve un'eternità, non passò anima viva. Solo a ferragosto e nei giorni dell'esodo estivo il viale mi era apparso così deserto.

L'incredulità per la circostanza davvero inconsueta e la strisciante inquietudine possono forse spiegare le idee folli che mi passarono per la testa. Mentre continuavo a domandarmi dove fossero spariti tutti, pensai di essere vittima di un grandioso scherzo, ideato da una mente tanto geniale quanto perversa, che aveva scelto me per oscuri motivi e architettato tutto da tempo: l'insolita assenza di persone e mezzi in transito lungo il viale era opera sua - come avesse fatto lui solo sapeva! - e si sarebbe protratta, immaginavo, fino al termine dell'odiosa macchinazione. La pioggia soltanto non doveva avere previsto, ma alla fine essa aveva reso lo scherzo ancora più pesante. Guardai istintivamente in su, verso le finestre illuminate che si affacciavano sulla strada, come per trovare assurdamente una conferma a tale fantasia. Chissà, forse sperando di intravedere la sagoma del perfido genio o quelle dei complici, intenti a spiarmi divertiti. Mi aspettai allora che l'ubriaco, che doveva fare parte della diabolica messinscena, da un momento all'altro terminasse la sua brillante recita esplodendo in una fragorosa risata.

Scacciai questo pensiero, per sostituirlo tuttavia con un altro, ben più pessimistico e altrettanto delirante. Immaginai infatti che, da quando mi trovavo in strada con quell'uomo, qualcosa di molto grave fosse capitato nel quartiere. Non ne avevo un'idea definita, ma nella fantasia che andavo costruendo era un evento così terribile che costringeva la gente a starsene chiusa in casa, obbligando chi si trovava in automobile a disertare la zona. A confronto con quell'immaginario pericolo, tanto incombente quanto indistinto, le mie precedenti preoccupazioni per la sorte dell'ubriaco mi parvero una sciocchezza.

Allontanato anche questo assurdo pensiero, sentivo crescere in me la rabbia per la situazione diventata insostenibile. L'ubriaco, intanto, non sembrava più disposto a collaborare. Se ne era stato tranquillo fino a quel momento, ma ora il tono del suo discorso si era fatto di colpo astioso. Parlava a voce alta e aveva smesso di guardare a terra con aria ebete. Forse mi stava insultando, sempre nella sua lingua, perché aveva preso a fissarmi con espressione ostile. Qualunque cosa stesse dicendo, tuttavia, il suono delle sue parole mi risultava intollerabile, come il rumore martellante della pioggia.

Nonostante la sua apparente ostilità, non mettevo più in conto che volesse colpirmi. Così, quando si staccò dal muro e venne verso di me barcollando e agitando le braccia come a voler scacciare un fastidioso moscone, divenne all'improvviso il facile bersaglio della rabbia e della tensione accumulate fin lì.

- Stupido! Stupido ingrato! - gli urlai.

L'avversione che provai per lui in quell'istante non mi fece ovviamente dimenticare il dovere di aiutarlo. Se era in strada che voleva tornare, dopo avermi magari spinto via, avrei cercato ancora di impedirglielo. Tuttavia, mi apprestavo a farlo, paradossalmente, con l'animo di mettergli il bastone tra le ruote, di indispettirlo, di non lasciargli soddisfare il suo presunto desiderio. Intendevo in questo modo punirlo per la sua mancata riconoscenza.

Rimasi quindi ad aspettarlo, all'estremità opposta del marciapiede. Come esaltato dal mio sciocco intento di rivalsa, ero fermamente determinato a schivarne i colpi e, nel contempo, a sostenere il suo urto devastante. Accadde così che, mentre raccoglievo a questo scopo le energie residue, non mi accorsi dell'individuo che stava sopraggiungendo alle mie spalle.

L'ubriaco mi spostò di lato con facilità irrisoria. Cercai di aggrapparmi nuovamente alla sua incongrua camicia, nel tentativo di non cadere e di arrestarne l'avanzata, ma fu inutile. Mentre, spinto dalla sua forza incontrastabile, stavo finendo a terra udii un grido. In quell'istante pensai o forse sperai che la voce, che non apparteneva all'ubriaco, giungesse dalla realtà e che mi stessi svegliando da un incubo straordinariamente realistico. Prima di rialzarmi chiusi gli occhi, ma quando li riaprii mi resi conto che l'incubo stava continuando.
Nel perdurante fragore della pioggia, l'ubriaco era ancora lì, fermo sul bordo del marciapiede. A impedirgli di mettere piede in strada c'era però, come sbucato dal nulla, un giovane alto e magro, che reggeva un ombrello. Il nostro salvatore portava un impermeabile chiaro, un cappello e aveva un aspetto distinto. Subito sospettai che quella visione fosse il frutto di una allucinazione. Lo sentii poi rivolgersi in inglese all'ubriaco, mentre cercava di ripararlo con l'ombrello.

- Mr van Harnesen, sono Giorgio, il portiere dell'albergo. Andiamo, la riporto nella sua camera - gli urlò due o tre volte nell'orecchio.

L'altro non sembrava intenzionato a spintonare via anche lui. Si era anzi calmato e aveva abbassato la testa. Muoveva ancora le labbra, ma le parole ora gli uscivano quasi impercettibili. L'uomo con l'impermeabile si girò verso di me:

- Lavoro all'hotel Majestic, qui dietro - disse indicando gli edifici sull'altro lato del viale, oltre i quali sapevo trovarsi il lussuoso albergo.

- Ho visto che era in difficoltà, così... - spiegai.

- Questo signore soggiorna là - disse il giovane - grazie infinite di averlo aiutato - Era cortese e per nulla agitato, come se tenesse la situazione sotto controllo.

- Abita qui vicino? - mi chiese poi.

- Sì, voltato l'angolo - risposi confuso, indicando il punto fatidico che era a due passi.

Dopo avermi nuovamente ringraziato e poi salutato, mise il braccio libero intorno alla vita dell'ubriaco. Nonostante la gentilezza dei modi, pareva avere su mr van Harnesen una grande autorità. Anche se questi, reggendosi ancora sulle gambe, si era solo appoggiato a lui, l'uomo dell'albergo, a dispetto della magrezza, rivelava una forza insospettabile. Il contrasto tra quelle due figure sarebbe risultato, in una diversa circostanza, persino comico. Io però non avevo nessuna voglia di ridere, e non soltanto perché mi sentivo esausto. Quel nome, van Harnesen, stava infatti ronzando fastidiosamente nella mia testa.

Mi era venuto istintivo osservare i lineamenti dell'uomo così chiamato, nonostante l'ipotesi che si era affacciata fosse tanto improbabile da poter essere considerata quasi assurda. Non so dove trovassi la forza o la voglia di guardarlo con attenzione e non so neppure dire se, in quel momento, desiderassi o temessi che tale ipotesi venisse confermata. Nei pochi istanti tuttavia in cui mi concentrai su quel volto, raffrontandolo con quello, sufficientemente nitido nella mia memoria, dell'unico van Harnesen che conoscevo, non ci vidi niente che me lo ricordasse.

- Van Harnesen? Wim van Harnesen, il campione di calcio? - mi decisi infine a chiedere, rimanendo sorpreso di udire la mia voce.

L'impiegato dell'albergo rispose di sì. Forse non era tenuto a rivelarmelo, ma credo lo fece perché, anche se indirettamente, lo avevo aiutato. Incapace di muovermi, fissai la coppia che si allontanava lentamente, staccando gli occhi dalle due sagome solo quando divennero ombre quasi indistinguibili.



***


Quando fui a casa, feci una doccia bollente, rimanendo poi a lungo sotto il getto caldo e rigenerante. Quindi, anche se non avevo appetito, mi sforzai di mangiare un boccone.

Aveva finito di piovere, ma nella testa sentivo ancora distintamente lo scrosciare incessante dell'acqua. Fino a quel pasto frugale ero riuscito a non pensare a niente, tuttavia, non appena mi stesi sul divano con la luce spenta, mi si ripresentò l'immagine di van Harnesen che si sorreggeva all'impiegato dell'albergo.

Poteva essersi trattato di un episodio, ma la scena tra i due cui avevo assistito in strada mi faceva credere il contrario. Van Harnesen doveva essere tornato altre volte al Majestic in quelle condizioni, forse accompagnato dallo stesso individuo. Infatti, quel tipo non era venuto a cercarlo, magari sapendo dove trovarlo? E non aveva poi affrontato e risolto alquanto disinvoltamente la penosa situazione, come se ci fosse abituato? Mi domandai se a spingerlo alla ricerca di mr van Harnesen fosse stato unicamente il pensiero di una lauta mancia, o se la affettata cortesia imposta dal mestiere non avesse mascherato il rispetto e l'ammirazione per il campione del passato.

Erano trascorsi venti anni da quando l'avevo visto l'ultima volta, in occasione di una finale di un mondiale di calcio trasmessa in televisione. Me lo ricordavo con il viso quadrato e gli zigomi sporgenti, folta capigliatura e lunghe basette. Quei lineamenti, passati vent'anni, parevano spariti. O era stato l'esame frettoloso condotto in strada a darmi tale impressione, su cui aveva magari pesato l'impietosa trasformazione del resto della sua persona?

Fu mentre seguivo il filo di questi pensieri che mi rammentai dell'album. Quel lontano mondiale era stato il primo che avevo seguito sullo schermo e in trepidante attesa dell'evento avevo iniziato la raccolta delle figurine dei calciatori impegnati nel prestigioso torneo. Mi alzai così dal divano per andare nella mia camera ad aprire il vecchio baule. Se l'avevo tenuto, era lì dentro che l'album si trovava, insieme a fumetti e quaderni di scuola con le pagine ingiallite. A trent'anni suonati, non ero stato capace di disfarmene e un po' me ne vergognavo.

Ne riconobbi la copertina, che spuntava in fondo a una pila di scatole impolverate di cui non ricordavo il contenuto. Intravidi la figura stilizzata che, su uno sfondo blu ormai scolorito, calciava acrobaticamente una grande palla, rivestita delle bandiere delle nazioni partecipanti. Mi venne istintivo, una volta che ebbi sfilato l'album da sotto la pila, portarmelo al naso per sentire se ci fossero tracce dell'odore di colla che un tempo ne aveva impregnato le pagine. Da ragazzo, nello sfogliarlo, oltre al piacere di guardare le figurine colorate c'era anche quello di percepire quell'odore dolciastro e penetrante ora scomparso e che diventava più forte con l'avanzare della raccolta. A distanza di tanti anni, lo associavo ancora alla cura e alla precisione quasi maniacali con cui vi avevo incollato le piccole foto a mezzo busto.

Richiuso il baule con il suo imbarazzante contenuto, tornai a stendermi sul divano portando l'album con me. Alla tenue luce di una abat-jour, lo aprii con delicatezza forse eccessiva, come se avessi tra le mani un libro antico e di fragile consistenza. La raccolta non era stata completata, ma le figurine di van Harnesen e dei suoi compagni di squadra c'erano tutte e lui era proprio come me lo ricordavo. La foto doveva essere stata scattata durante un tranquillo allenamento. Sul volto infatti non c'era la tensione che precede la gara, ma una strana espressione che somigliava a un sorriso. Sembrava posticcio, il risultato di un fotomontaggio, sembrando come incastrato per miracolo tra le mascelle serrate. La tigre, questo il soprannome che si era guadagnato sul campo, non si era smentita neppure in occasione della foto di rito. La potenza fisica e la corsa infaticabile ne avevano fatto un pilastro della nazionale olandese. Nonostante le attenuanti, mi sentivo lo stesso in colpa per non averlo riconosciuto in strada e, soprattutto, per l'insulto che gli avevo lanciato con tanta cattiveria.

Guardai una per una le facce dei giocatori di quella squadra formidabile, i cui nomi erano ancora stampati nella mia memoria. Poi chiusi l'album e spensi la luce, rimanendo sdraiato nella penombra della stanza. Trascorsi alcuni istanti, le figurine dai colori sbiaditi diedero la stura ad altre immagini, questa volta in bianco e nero. Alcune le credevo ormai dimenticate ed erano così preziose che ebbi timore che la debole luce della strada, filtrando attraverso la tapparella, le potesse fare improvvisamente svanire. Così chiusi gli occhi, evitando persino di muovermi per paura di perderle.

Immobile sul divano, nel buio totale, rividi la tigre e compagni, allineati sul prato grigio dello stadio durante l'esecuzione degli inni nazionali. Era il giorno della finale contro i fortissimi tedeschi. Le figure dei calciatori olandesi, irrigidite nella solennità del momento, stavano sfilando davanti a me nell'ordine in cui, riprese dalle telecamere, erano apparse al mondo intero. Il primo da sinistra era il divino capitano, che reggeva i gagliardetti. Poi venivano Haar, l'implacabile difensore, quindi il portiere e via via tutti gli altri. Van Harnesen era l'ultimo della fila, il più alto della squadra. Il cambio di inquadratura ne mostrò il leggero e caratteristico ingobbimento, dovuto a un vizio posturale, unico neo in un fisico statuario. Sulle note dell'inno, gli olandesi tenevano gli occhi fissi davanti a sé, ma sembravano non vedere nulla di ciò che li circondava. Guardavano come ipnotizzati un punto imprecisato, oltre l'altissima e variopinta muraglia di tifosi, di bandiere e di striscioni. Per la prima volta dall'inizio del torneo, stavano forse intravedendo il traguardo luminoso, che da lontano mandava bagliori intermittenti.

Quasi per caso mi ero trovato a fare il tifo per la tigre e la sua nazionale. Non sarebbe successo se la mia, di nazionale, non fosse stata inaspettatamente eliminata nella fase iniziale del mondiale, dopo indecorose prestazioni. Nonostante la delusione, non mi aveva neppure sfiorato l'idea di non assistere a quella attesa sfilata di campioni. Il mondiale tuttavia mi aveva vietato di seguire le rimanenti partite all'insegna di una mortificata neutralità e così, orfano della mia squadra, le mie simpatie erano andate a van Harnesen e compagni.

Non lo avevo fatto per ripicca, o perché voltagabbana. La mia era stata infatti una scelta estetica, non di bandiera. Come tanti, ero stato conquistato dal gioco della squadra olandese, fusione sorprendente di tecnica e velocità, e dal modo generoso di metterlo in pratica. Nonostante si fosse trattato di un gioco molto dispendioso, si era sempre attenuta ai suoi dettami, quasi spavaldamente, anche quando l'andamento della gara aveva suggerito di tirare il fiato in vista delle partite a venire. I meccanismi perfetti di quel gioco e la dedizione assoluta nel praticarlo avevano costituito però solo una delle ragioni del fascino esercitato su di me dai tulipani (come venivano chiamati i calciatori della nazionale olandese). L'altro motivo era consistito nella duplice sfida che aveva caratterizzato ogni loro partita: contro l'avversario e contro se stessi. Gli olandesi erano stati atleticamente ben preparati, ma fino a quando avrebbero potuto reggere i ritmi forsennati tenuti in gara?

Ed ecco che, nell'oscurità assoluta, la partita del secolo tra le due squadre più forti di sempre ricominciava. Al fischio d'inizio, l'Olanda in maglia arancione, ma grigia sullo schermo, e in particolare di una tonalità più scura rispetto al grigio del campo, sembrava voler studiare gli avversari in casacca bianca. Per quasi due minuti, a causa del ritmo blando e dei passaggi leziosi, pareva di assistere a un pacifico allenamento, senza che i tedeschi toccassero la palla. Nessuno voleva prendere l'iniziativa. All'improvviso, il divino capitano partiva dalla metà campo, puntando deciso alla porta avversaria. Avanzava con lunghe ed eleganti falcate senza tradire sforzo, i tocchi dati alla palla che sembravano carezze. Per trovare un varco nella selva di gambe che lo circondava, rallentava e riprendeva velocità con repentine accelerazioni, ma la sua corsa non perdeva la leggerezza iniziale e la palla rimaneva magicamente incollata al suo piede. Giunse in area con facilità irrisoria, facendo sembrare di una lentezza quasi irreale i movimenti dei difensori tedeschi per contrastarlo. L'unico modo per fermarlo fu atterrarlo rudemente.

Era durato pochi istanti lo splendido assolo, ma a me, nel vederlo la prima volta, erano sembrati un tempo lunghissimo. Con il divino capitano ancora acciaccato, il sacrosanto rigore veniva battuto dalla tigre. Benché l'inquadratura lo riducesse a una minuscola figura dai tratti indistinti, ero ancora pronto a scommettere che prima di iniziare la rincorsa per calciare con fredda determinazione, avesse lanciato una sguardo feroce al portiere per innervosirlo, lo stesso che solitamente riservava in gara agli avversari per intimidirli. Poi ci fu il tiro potente, da scuotere la rete.

I compagni lo sommersero con il loro abbraccio e quando il groviglio di corpi si sciolse, sul suo volto ora in primo piano apparve un sorprendente e inequivocabile sorriso, ingenuo e commovente come quello di un bambino.

Avevo gioito al gol, prorompendo in un grido selvaggio nella penombra del salotto, ritualmente oscurato da mio padre per renderlo impenetrabile alla luce tarda ma ancora chiara dell'estate.

Pochi istanti dopo il gol, tuttavia, davanti all'esultanza dei miei beniamini, la mia gioia non era stata già più la stessa. Ero rimasto deluso, senza volerlo ammettere dentro di me. Avrei dovuto altrimenti riconoscere il mio cinismo, perché mi ero sentito defraudato d'un colpo della incertezza e della sofferenza, seppur minima, che rendono più bella e appagante la vittoria. Quell'avvio imprevedibile e folgorante, infatti, mi aveva fatto credere, quasi come logica conseguenza, che gli arancioni avrebbero dominato. Era bastata infatti l'azione solitaria del loro capitano, la prima vera azione d'attacco della partita, a mettere in ginocchio gli avversari. Cosa sarebbe successo quando, scaldati i muscoli, anche il resto della squadra avrebbe cominciato a giocare come sua abitudine? Non avevo potuto certo immaginare che, più tardi, la mia delusione sarebbe stata incommensurabilmente più grande.

I tedeschi, sorprendentemente, avevano trovato la forza di reagire alla doccia fredda, al colpo durissimo che avrebbe potuto tramortirli. Era stato in quel momento, vedendo con quanta tenacia attaccavano, con gli olandesi in evidente difficoltà, che avevo dovuto rassegnarmi all'idea che la tigre e compagni, lungi dall'essere dei o marziani, fossero uomini come tutti gli altri, fatti di carne ed emozioni. Chissà che il subitaneo vantaggio, paradossalmente, non avesse giocato loro un brutto scherzo. Forse, dopo il gol, stavano mentalmente accarezzando l'ambito e lucente trofeo, fremendo per sollevarlo al cielo nel tripudio di cori e bandiere. O forse, per la prima volta in quel mondiale, avevano ceduto alla tentazione del calcolo, della speculazione, rinnegando così i principi del loro calcio. Minata in questo modo la consueta determinazione, avevano consentito agli avversari di riprendere coraggio. Quando il pareggio era arrivato, alla metà del primo tempo, non era stato inaspettato.

Rividi la prodigiosa elevazione con cui Mark Muller, lo spietato attaccante tedesco piccolo e tarchiato, andò a colpire di testa la sfera anticipando i giganti olandesi. Un gesto atletico da ammirare, se non avesse avuto ancora il potere di stizzirmi.


***


A quel punto fui tentato di riaprire gli occhi e di alzarmi. Il finale della partita non me lo ero certo dimenticato e intendevo evitare il disagio che immancabilmente, in passato, ne aveva accompagnato il ricordo. Credo però che solo una parte di me volesse abbandonare il divano, perché tanto più avvertivo l'urgenza di interrompere il flusso di quelle immagini di sorprendente nitidezza, tanto più esitavo, irrigidendomi nella posizione che non avevo ancora cambiato. Al termine di una battaglia silenziosa, le mie resistenze furono vinte da una nuova e travolgente ondata di ricordi.

Mancavano pochi minuti alla fine di una gara bellissima. Un omino in maglia bianca stava attraversando da destra a sinistra la parte superiore dello schermo. Era un'azione di contropiede e la decisione con cui il giocatore avanzava a testa bassa, sospingendo la palla, mi infastidiva. E non solo per la sua pericolosità. Cosa credeva di fare, quell'omino dal nome tanto difficile da pronunciare? Risolvere da solo la partita, imitando il divino capitano? Tale ipotesi mi era sembrata vent'anni prima una bestemmia. Il caparbio giocatore non aveva infatti un briciolo dell'eleganza del campione olandese e non era neppure altrettanto veloce. Tuttavia pareva proprio questa l'intenzione, quando eludeva il tentativo di un avversario di contrastarlo e proseguiva la sua corsa presuntuosa. Fu poi chiaro invece che avrebbe passato la palla, perché, giunto vicino alla linea di fondo, si era mantenuto troppo defilato rispetto alla porta e aveva già alzato la testa per cercare il compagno più vicino.

Di riflesso, una frazione di secondo prima del passaggio ormai certo, mettevo a fuoco ciò che fino a pochi istanti addietro era stata una macchia bianca dai contorni imprecisati, che si stava spostando nella parte inferiore dello schermo, nella stessa direzione dell'omino. Ciò che vidi fu l'inconfondibile e odiato Mark Muller - ancora lui! - affiancato da un avversario. Era costretto ad arrestare la corsa perché il passaggio, leggermente arretrato, lo obbligava a indietreggiare per riceverlo e a dare quasi le spalle alla porta. Così facendo, con l'agilità e la rapidità consentite dal fisico tracagnotto, metteva qualche passo tra sé e il difensore olandese, troppo lento nel contrastarlo.

Da ragazzo, avevo seguito fin lì senza fiatare, in crescente apprensione nel salotto di famiglia. Poi, non sopportando più quell'interminabile strazio, ero stato tentato di chiudere gli occhi o di guardare da un'altra parte, e di tornare a fissare lo schermo quando il pericolo fosse passato. Invece alla fine ero rimasto coraggiosamente a vedere. Ogni volta che ho pensato alla scena che sarebbe seguita, ne ho rivisto sempre lo svolgimento a velocità rallentata, come una sequenza di muti fotogrammi. Mi era parsa svilupparsi in questo modo, infatti, stando davanti al video. In quei decisivi istanti avevo smesso di udire la voce concitata del telecronista e ogni altro suono o rumore, per percepire soltanto lo scorrere insopportabilmente lento di quelle immagini.

Rivedevo adesso l'attaccante tedesco che, fermata con il petto la palla dentro l'area, faceva perno sulla gamba sinistra per calciare, effettuando un semigiro su se stesso. Poi, terminata quella infinita mezza giravolta, la sfera iniziò a rotolare piano in diagonale, diretta all'angolo basso della porta. Mentre la palla si avvicinava al bersaglio, il portiere era ancora sulla linea di porta, le gambe leggermente piegate e le braccia aperte, come stanno i portieri un istante prima del tiro. Era una molla compressa che stava per scattare. Rimaneva invece ben piantato su quella linea, nell'identica posizione, girando soltanto la testa alla sua destra per seguire con lo sguardo la bianca sfera che rotolava via, ormai irraggiungibile, verso la rete. Come se ne fosse ammaliato.

A quel punto, per interrompere il suo movimento inesorabile, ci sarebbe voluto un miracolo. Quando il portiere finalmente si mosse, lo fece soltanto per andare a raccoglierla mestamente in fondo alla porta.


***



Non ero stato l'unico a restare sconcertato, a giudicare dai commenti sui giornali del giorno dopo. E se, per chi ne scrisse sulle pagine sportive, il portiere olandese era rimasto incomprensibilmente fermo tra i pali, io mi aggrappai allo zampino di Mark Muller per spiegarmi l'accaduto. Mi dissi che il piccolo tedesco aveva giocato d'astuzia, tirando dove molti comuni attaccanti al suo posto, privi della sua freddezza e della sua bravura, avrebbero mandato istintivamente la palla: nell'angolo più lontano dal portiere, alla destra di quest'ultimo, dove sarebbe stato più difficile per lui arrivare.

Il portiere olandese tuttavia sapeva bene che Muller non era uno dei tanti e quindi non si era tuffato in anticipo sulla sua destra. Temendo, o essendone forse addirittura certo, che l'avversario contasse su tale mossa per prenderlo in contropiede, era rimasto immobile sulla linea di porta fino al tiro del tedesco, ignaro che questi gli avesse letto nel pensiero. E quando si rese conto della beffa era troppo tardi ormai, perché lo stupore fu talmente grande da lasciarlo di pietra. Così era andata, raccontai a me stesso.

In questo modo, nei giorni immediatamente successivi alla partita fingevo di non vedere, con infantile ostinazione, il vero motivo del continuo presentarsi alla mia mente del suo sconcertante epilogo, non riconducibile esclusivamente alla comprensibile delusione per il risultato finale. Quello che mi costringevo a ignorare infatti era che, nell'occasione incriminata, il portiere olandese semplicemente non era stato all'altezza. Finché con tale scena ricorrente non mi decisi a fare i conti e non ammisi ciò di cui fin da subito avevo avuto l'impressione: e cioè che il portiere aveva commesso una imperdonabile leggerezza. Non era stato il tiro a batterlo, ma la presunzione. La presuntuosa convinzione di averne previsto esattamente la traiettoria, senza possibilità di errore. La sua immobilità non era dipesa, come avevo voluto credere in principio, dall'impotenza di fronte all'inevitabile, ma dalla inscalfibile, apodittica certezza dell'infallibilità dei suoi calcoli.

Il ricordo di lui, mentre toglieva la palla dalla rete e la ributtava a centrocampo per lo scampolo di gioco, era l'ultimo della storica finale. Sconsolato e a capo chino, il portiere pareva stanco e incapace della pur minima reazione dettata dall'orgoglio. Era l'immagine della sconfitta. Oppure del tradimento, mi sorpresi a pensare sul divano, gli occhi ancora chiusi. E per un attimo la compassione che avevo sempre provato nei suoi confronti, rivivendo tale scena, si convertì in un distacco inaspettato. Riandando adesso con la mente alla sua rassegnata sofferenza, mi chiedevo se non fosse la recita di un teatrante.

Un'ombra stava gravando su quelle conclusive immagini e io, stranamente, non stavo facendo niente per allontanarla. Mi chiesi se il sospetto che la generava non fosse sorto altre volte e io, immancabilmente, non lo avessi sempre allontanato, quasi per istinto, come quando si scaccia in fretta un pensiero triste o sconveniente. Ora però quel sospetto, appena nato o riaffiorato che fosse, sembrava deciso a non andarsene tanto facilmente. La semplice ipotesi che il risultato della storica finale fosse stato falsato, che sullo schermo non avessi assistito ad altro che a un inganno, mi risultava intollerabile.

Quando riaprii gli occhi, pensai alla tigre, che in quel momento si trovava in un'elegante camera di albergo a due isolati di distanza, a smaltire la sbornia. Lui forse sapeva. Tuttavia, anche ammettendo, nel più catastrofico dei casi, la fondatezza del mio sospetto, non potevo credere che fosse stato d'accordo con il portiere per truccare la partita. Immaginai, sempre che fosse venuto a conoscenza a gara conclusa del presunto inganno, che avesse taciuto, costringendosi a un silenzio complice e sofferto, mantenuto non per vigliaccheria o tornaconto, ma per non infangare, per colpa di uno o di pochi compagni di squadra, nome e prestigio dei tulipani che nella finale del mondiale avevano lottato con tutte le loro forze.

Un'idea mi attraversò allora la mente. Era a dir poco ardita e rimasi stupito del fatto di non averla bocciata all'istante. Ne stavo invece ascoltando il richiamo seducente. E la decisione che alla fine presi, vinto dal fascino potente e irresistibile di quell'idea, fu un altro motivo di stupore perché vi giunsi con una rapidità per me insolita, avendo l'insana tendenza a procrastinare.

Avrei chiesto alla tigre, o a ciò che ne restava, l'indomani stesso: questa la decisione. Mi si offriva un'occasione irripetibile per levarmi dalla testa quel larvato sospetto. E poiché non me ne nascondevo le incognite, per incoraggiarmi mi dissi che, dopotutto, mr van Harnesen me lo doveva.

Quindi, sotto gli effetti paradossalmente rassicuranti di questo avventato proposito, attesi il sonno sul divano. Ricordo che, prima di venire sopraffatto quasi subito dalla stanchezza, fantasticai o forse stavo già sognando della tigre e del divino capitano. Giocavano la famosa finale, ma erano rimasti in due, soli, a difendere i colori e l'onore olandesi, perché i compagni si erano alleati con gli avversari, formando con loro un'unica squadra. Si battevano con il coraggio di sempre nel frastuono assordante dello stadio, come eroi in un epico scontro, pur sapendo di dover soccombere.


***


Il mattino dopo mi levai di buon'ora, nel timore che van Harnesen lasciasse definitivamente la città. Ero disposto ad attenderlo nella hall dell'albergo tutto il tempo necessario, pur di incontrarlo.

Mentre mi preparavo per uscire, sentivo un miscuglio di preoccupazione e curiosità venata di eccitazione all'idea di ciò che andavo a fare. Il pensiero di trovarmi a tu per tu con la tigre (possibilmente sobrio) mi emozionava, ma al contempo avevo paura di sentirmi dire ciò che temevo o che l'incontro sarebbe stato deludente e persino sgradevole. Mi prefiguravo la sua reticenza o la sua brusca reazione alle mie pretese di verità. Avevo già sperimentato la sua forza straordinaria, in fondo l'unica cosa di lui di cui avevo certezza, e non osavo pensare al modo in cui avrebbe potuto usarla se si fosse sentito offeso dalle mie insinuazioni.

Quando riuscii a sottrarmi momentaneamente alla stretta di tali pensieri, mi ritrovai in strada, sotto la lastra grigia del cielo. L'aria era pungente. Essendo ancora presto per telefonare all'ufficio, decisi di farlo più tardi da una cabina pubblica. Inventando una scusa, avrei avvertito che quel giorno non mi sarei presentato al lavoro.

Giunto all'angolo della via, il viale aveva ripreso il suo aspetto abituale. Le persone camminavano frettolose e il rumore del traffico era già opprimente. Il contrasto, intorno a me, rispetto alla sera precedente era così netto, che sembrava impossibile che quello stesso luogo fosse stato teatro della mia eccezionale avventura. Tanto che, mentre lo attraversavo, mi chiesi disorientato se non la avessi interamente sognata.

Imboccai poi la più tranquilla traversa in cui sorgeva il Majestic, di cui potevo vedere le insegne. Solo in quel momento realizzai che il mio approccio con van Harnesen sarebbe stato senz'altro favorito dalla presenza in albergo di Giorgio, il giovane con l'impermeabile. Era assai difficile, infatti, che dei fatti capitati la sera passata il vecchio campione avrebbe conservato qualcosa di più di un confuso ricordo. Quando però provai a rammentare il volto dell'impiegato, i miei sforzi in tal senso produssero soltanto un'immagine vaga, sfuocata. Mi resi conto che, eccezion fatta per la sua figura alta e magra, quasi interamente rivestita dall'impermeabile, se avessi dovuto descrivere solamente uno dei suoi tratti, non ne sarei stato in grado. L'immagine che di Giorgio alla fine ottenevo si adattava di più a un fantasma che a un individuo in carne e ossa.

Arrivato davanti al Majestic, oltrepassai la grande porta girevole che immetteva nella hall. Mi ritrovai in un'enorme sala piena di luce, che ne esaltava il nitore. Nonostante la prevedibile eleganza dell'arredo, il suo colore chiaro come quello delle pareti e del pavimento di marmo mi diede l'impressione di un ambiente poco accogliente e quasi asettico. Mi guardai subito intorno, sperando di vedere, tra le poche persone lì presenti, l'inconfondibile sagoma della tigre o quella, altrettanto caratteristica ma per opposti motivi, di Giorgio. Non notando nessuna delle due, mi diressi verso la reception. Mentre mi avvicinavo, sentivo soltanto il rumore dei miei passi sul marmo, talmente lucido che mi ci sarei potuto specchiare.

Proprio quando stavo per rivolgermi all'uomo dietro al bancone, un giovane alto, alquanto magro e con il naso aquilino sbucò da una porta laterale al di là di esso. Non appena mi vide, mi salutò con un tono di calorosa sorpresa, come se mi conoscesse. Di fronte alla mia incerta reazione, dovette pensare che non l'avessi riconosciuto, perché subito dopo mi disse di essere Giorgio. In realtà, non potevo essere sicuro che si trattasse di lui, pur avendolo fortemente sperato.

Mi sentii finalmente sollevato, non soltanto perché contavo che avrebbe parlato di me alla tigre, ma soprattutto perché, lo confesso, non ero stato ancora capace di scacciare il pensiero avuto prima nel viale e che subdolamente ritornava: che la pioggia battente, il giovane con indosso l'impermeabile, van Harnesen gigantesco e sfatto fossero le vivide immagini di un sogno.

Quando gli chiesi del vecchio campione, mi rispose che era in camera sua e che di solito scendeva più tardi. Dissi allora che ero stato un suo ammiratore e che mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Con un cenno, mi fece capire che aveva inteso. Quindi, rinfrancato, andai a sedermi in una poltrona in fondo alla sala, da dove avrei potuto tenere sotto controllo l'andirivieni. Non volevo assolutamente correre il rischio che la tigre mi sfuggisse.

Per una buona mezz'ora non accadde nulla. Ogni tanto, per combattere il crescente nervosismo, sfogliavo distrattamente una rivista presa da un tavolino vicino o mi alzavo per camminare nella hall silenziosa. Quindi, la sala iniziò ad animarsi dei facoltosi clienti del Majestic: turisti con le macchine fotografiche, uomini d'affari a giudicare dal completo scuro e dalla ventiquattr'ore, gente in partenza con il bagaglio. Di van Harnesen però ancora nessuna traccia.

Quando venne il momento di telefonare all'ufficio, utilizzai una cabina nella sala dell'albergo, da dove potevo continuare a tenere d'occhio il via vai. Era la prima volta che adducevo una scusa per non andare al lavoro. E fu proprio mentre uscivo dalla cabina, dopo avere fatto quella chiamata ignobile e vergognosa, che la mia attenzione venne attratta da un uomo di stazza considerevole, alto più di tutte le persone in sala. Portava una camicia a maniche corte dai colori sgargianti. Si stava dirigendo lentamente alla reception e pur non potendone distinguere bene il volto, non ebbi alcun dubbio che la tigre fosse tornata in circolazione. Quando arrivò al bancone, si mise a parlare con Giorgio.

Tornato a sedermi in poltrona, ostentando una calma e una disinvoltura che non avevo, mi accorsi che van Harnesen si era girato verso la sala e guardava nella mia direzione, dove il giovane impiegato gli stava indicando. Quindi la sua enorme e ormai familiare figura venne verso di me con passo deciso, tendendomi la mano. Da vicino, la camicia mostrava tutto l'esplosivo contrasto dei suoi violenti colori.

Come era facilmente prevedibile, aveva una stretta vigorosa. Meno prevedibile invece, per non dire sorprendente, il colore degli occhi, verdi, cui la vecchia figurina non rendeva giustizia. Nella movimentata occasione del nostro primo incontro non avevo potuto notarli. Subito mi ringraziò per l'aiuto datogli la sera precedente, scusandosi per i problemi che mi aveva procurato. Parlava inglese con accento duro, inframezzando termini ed espressioni in un italiano stentato.

Avevo pronunciato solo poche frasi di circostanza e tuttavia, nonostante l'interlocutore d'eccezione, provavo già disagio per la conversazione. Non riuscendo a prescindere dal motivo che mi aveva spinto lì, legato al peso del mio sospetto, sentivo che le cose da me dette in quella necessaria fase interlocutoria mi erano estranee, lontane. Era come se il loro suono fosse distorto e mi ricordasse ogni volta ciò che ero venuto a fare e che non consisteva nel chiacchierare più o meno amabilmente con la tigre. Sentivo incombere il momento, urgente e temuto insieme, della cruciale domanda e che ogni mia parola, in quelle prime battute, avrebbe avuto solo lo scopo di ritardarla per prudenza. Porla ora, sarebbe stato controproducente, significava ridurre a zero le probabilità di conoscere la verità.

Non c'era soltanto il monito fastidioso e sempre uguale prodotto dalle mie parole, alla base del malessere che provavo. Infatti, all'indifferenza verso di esse si univa, paradossalmente, lo sforzo che mi costava pronunciarle. E anche la tigre con il suo comportamento contribuiva involontariamente ad aumentare la mia sofferenza. Era affabile e loquace, mi disse che si trovava lì per affari e che l'indomani sarebbe partito; che aveva lasciato il mondo del calcio, in cui, terminata la carriera di calciatore, aveva continuato a lavorare per qualche tempo come scopritore di giovani talenti. Mi disse anche che amava Milano, "città fantastica", dove aveva alcuni amici.

Pensando che parlasse di sé per sdebitarsi, sentii di non poter più aspettare per liberarmi del mio pesante fardello: desideravo mettere fine a quella finzione e dirgli finalmente quale fosse il prezzo dell'aiuto che gli avevo dato, il debito contratto nei miei confronti e che lui neanche immaginava.

Non era tuttavia nella hall luminosa che mi sarei tolto la scomoda maschera, ma nella saletta attigua, dove van Harnesen mi invitò a bere un caffè di cui disse di avere assoluto bisogno.

Entrati nel bar dell'albergo, ci sedemmo a un tavolino accanto a una porta finestra che dava su un piccolo giardino. Dopo che il cameriere, venuto con solerzia a prendere le ordinazioni, si fu allontanato, tra noi calò il silenzio. La tigre, le braccia conserte, faceva correre placidamente lo sguardo attraverso la sala semivuota e al al di là del vetro. Io fingevo interesse per i quadri alla parete alle sue spalle: in realtà non li distinguevo neppure, perché cercavo dentro di me le parole con cui entrare in argomento.

Fu dopo aver bevuto i caffè che sentii la mia voce rompere l'imbarazzante silenzio. - All'epoca del mondiale ero un ragazzino. La finale fu un'emozione indimenticabile -. Fatta una breve pausa, la mia voce continuò: - Rimasi male per il risultato... tenevo per gli olandesi. Mi erano simpatici -

Ero riuscito a non distogliere lo sguardo da quegli occhi color acqua marina, che mi fissarono con intensità mentre parlai e nei successivi, lunghissimi istanti prima che la tigre riprendesse la parola.

- Fu una strana partita - disse sospirando. - Un gol nei primissimi minuti avrebbe schiantato chiunque. I tedeschi invece furono bravi. Noi però gli aiutammo, è dura ammetterlo ma andò proprio così: una volta in vantaggio, abbiamo avuto paura di vincere -

Van Harnesen abbassò gli occhi e sorrise, ma il suo era un sorriso amaro. Poi, cambiò di colpo espressione e in tono di preoccupata curiosità mi chiese se fossi un giornalista. Lo rassicurai, temendo che si fosse innervosito.

- Non saresti stato il primo della categoria a farmi domande su quella dannata partita - disse - e su quel gol, per ricavarne anche a tanti anni di distanza uno scoop o qualcosa del genere. Vedendo che il nostro portiere in occasione del tiro non si era mosso, qualcuno ha pure sospettato qualcosa... -

Estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e me ne offrì una. Dissi che non fumavo. Accesa la sigaretta per sé, tornò a puntare gli occhi sui miei. Osservandoli attentamente nel corso della sua rievocazione, mi sarebbero sembrati in alcuni momenti di una profondità inesauribile.

- Quando la sfera calciata da Muller finì in rete - iniziò - sentii una fitta al cuore, acuta e poi rabbia, tantissima rabbia contro il portiere... L'enorme delusione mi aveva giocato un brutto scherzo, perché al fischio di chiusura volevo correre da lui e strozzarlo. Non so come ho fatto a controllarmi. Al termine delle premiazioni le squadre rientrarono negli spogliatoi e credo che stessi per sfogare la rabbia che avevo covato fin lì sul povero portiere, se non lo avessi visto attorniato da alcuni compagni che cercavano di consolarlo: piangeva, era disperato, non capiva neanche lui cosa fosse successo con quella palla finita in rete. Assistetti poi a una scena che non dimenticherò e che mi fece vergognare di ciò che avevo provato per il compagno in lacrime: in breve tutta la squadra gli fu intorno, facendogli sentire il calore di cui in quel difficile momento aveva bisogno. Ero il più vecchio del gruppo e avrei dovuto esserne anche il più saggio, invece... Alla fine lo abbracciai anch'io... il nostro portiere non era stato di certo responsabile della sconfitta, la partita la perdemmo tutti insieme -

- A casa - proseguì - ci accolsero con tutti gli onori, la finale era comunque un risultato storico per il calcio olandese. La squadra venne invitata a corte e ricevette i ringraziamenti della regina: pareva fossimo noi i campioni del mondo. Nonostante l'affetto dei tifosi e l'accoglienza trionfale, l'immagine di quella palla che si infila nella nostra porta senza trovare ostacoli è difficile da scordare -

A quel punto, terminò la sigaretta e la decisione con cui spense il mozzicone nel posacenere sembrò decretare la conclusione del suo racconto. Da parte mia, sarei rimasto a parlare ancora della incredibile partita, dell'azione impareggiabile e devastante del divino capitano, del rigore e dell'illusorio vantaggio, e di quel mondiale tanto distante nel tempo eppure ancora così vicino per entrambi. Mi trattenne tuttavia dal farlo il pudore di costringerlo a ritornare con la mente a spiacevoli episodi. Comunque avevo sentito abbastanza. Provai in quel momento per van Harnesen un'infinita gratitudine e avrei voluto dimostrargliela, ma mi riuscì di dire solo "grazie".

Si ricordo all'improvvisò di avere un appuntamento con un amico lì in albergo, così ci alzammo. Lasciato il bar, attraversai per l'ultima volta la hall con il pavimento lucidissimo insieme alla tigre, che mi accompagnò fin quasi all'uscita come se fosse il padrone di casa.

Quando ci salutammo, sperimentai di nuovo la forza della sua stretta, quindi mi avviai verso la porta girevole. Un attimo prima di varcarla, tuttavia, mi voltai e rimasi piacevolmente sorpreso di trovarlo ancora là dove lo avevo lasciato: era imponente, nella sua sconveniente camicia. Con il braccio alzato disegnò un ampio arco, un gesto d'addio che, forse, voleva anche essere beneaugurante.

Mi piacque pensare che fosse il mio viatico, mentre passavo attraverso la grande porta a vetri, per ritrovarmi fuori, nell'aria gelida.





Nota: i personaggi e i fatti narrati sono frutto di fantasia, ogni riferimento a persone e ad avvenimenti reali è puramente casuale.