I confini del raptus

 

Lisetta Moschin

 

IL CASO

"Pronto…?"
"Papà, sono io… mi hanno picchiato!"
"Chi è stato? …Dove sei adesso?"
"Qui, in birreria… I buttafuori.. Sono stati loro, mi hanno preso a pugni!"
"Stai lì… Non muoverti, adesso arrivo…"

Non sappiamo se il dialogo si sia effettivamente svolto con queste precise parole. Non sappiamo quali sensazioni, quali pensieri abbiano attraversato in quel momento la mente del sig. Tonino, uno stimato imprenditore di mezza età, emigrato da giovane in un piccolo Comune del Nord Italia e che qui aveva trovato, se non proprio la sua fortuna, un discreto benessere.
Sappiamo però con certezza ciò che è avvenuto dopo: i giornali ne hanno riempito intere pagine. Il sig. Tonino ha preso la sua pistola regolarmente denunciata, ha raggiunto in auto il locale dove si trovava il figlio e lì, dopo aver gridato frasi sconnesse, ha aperto il fuoco contro gli addetti alla sicurezza, uccidendone due. Solo le poche pallottole presenti nell'arma hanno probabilmente impedito che il fatto assumesse proporzioni ancor più tragiche.
Un raptus di follia, dunque, che avrebbe assalito una persona fino a quel giorno apparentemente tranquilla: un'ipotesi condivisa da quasi tutti i mass media nei giorni successivi al delitto. Ma è proprio così?
Qualche settimana fa ho letto una frase del professor Angelo Aparo, che definisce meglio il concetto di raptus:

" . . . esplosione improvvisa di azioni eclatanti e gravide di conseguenze, di cui si è poco o nulla responsabili, ma che sono state preparate da una miriade di scelte, apparentemente irrilevanti, ma che hanno progressivamente condotto il soggetto entro un'area nella quale la possibilità di scelta risulta azzerata. "

La nostra vicenda può rientrare, del tutto o in parte, in questa definizione?
La mia curiosità mi ha spinto, a distanza di parecchi mesi, a "riaprire il caso", andando a spulciare i quotidiani dell'epoca e contattando personalmente due tra le persone che sono, o sono state, vicine al sig. Tonino: il suo legale e il sacerdote che lo assiste in carcere.
Per evidenti ragioni di rispetto della privacy, oltre che per il fatto che il processo penale è ancora in corso, ho di proposito modificato nomi, particolari e circostanze non essenziali alla comprensione della vicenda. Non ho invece alterato tutto ciò che, a mio avviso, era e rimane di fondamentale importanza.

 

IL PUNTO DI VISTA DELLA STAMPA

Come spiegavamo all'inizio, i quotidiani, non solo quelli locali, hanno dato ampio risalto al duplice omicidio e alle circostanze, perlomeno singolari, in cui esso è maturato.
Quasi tutti i cronisti hanno tenuto a sottolineare come, fino a quel momento, la vita del sig. Tonino si potesse definire addirittura esemplare: un'azienda e una casa, costruite praticamente dal nulla, a suon di sacrifici e risparmi. Un benessere materiale che si era esteso, grazie al lavoro, a tutti i numerosi componenti della famiglia, suoceri compresi.
Una volta raggiunto il benessere, l'imprenditore non aveva poi trascurato di aiutare concretamente i più bisognosi. In paese era pure conosciuto per i suoi contributi a piccole associazioni di volontariato.
Nel suo "curriculum" non si trova dunque nulla che possa far pensare a una tale violenta esplosione d'ira; nessuna nube nel suo passato, non uno screzio, neppure una lite coi vicini e tanto meno oscuri rancori nei confronti dei gestori dei locali pubblici o dei loro aiutanti.
Niente quindi poteva far pensare che una persona del genere potesse di punto in bianco diventare un killer spietato. Niente fino a quella notte in cui, alzando la cornetta, il sig. Tonino ascolta la voce trafelata del figlio. Una voce carica di spavento, di rabbia e forse anche (ed è questo il punto cruciale su cui torneremo in seguito) di un malcelato desiderio di vendetta.

Pochi minuti, solo pochi minuti: quelli gli che servono per prendere la pistola, accendere l'auto, percorrere la breve distanza tra la sua abitazione e la birreria, ascoltare le parole concitate del figlio, fare fuoco, tornare a casa, chiamare la Polizia e costituirsi.
Pochi minuti, solo pochi minuti e la sua vita è distrutta. Tutto è distrutto: la famiglia, le amicizie, il lavoro, la propria posizione sociale. Perché? Com'è potuto succedere? Siamo effettivamente di fronte a un raptus? E se la risposta è sì, qual è stata la "miriade di scelte" che lo hanno determinato?
Che siamo di fronte a un raptus sembrerebbe confermato dal fatto che il sig. Tonino, nel costituirsi, agli inquirenti racconta tutto. Tutto quello che sa. Ma anche se confessa, se accetta la sua colpa, ci sono molte cose che non sa, che vorrebbe dire, ma che non riesce a ricordare con precisione.

Cosa sia realmente accaduto una volta all'interno del locale non riesce a spiegarlo. Non riesce a dire cosa abbia detto o fatto, prima di esplodere tutti i colpi che aveva in canna.
Un'azione "eclatante e gravida di conseguenze": la definizione, in questo caso, è quanto mai corrispondente al vero. Sul "poco o nulla responsabile", invece, ci sarebbe molto da discutere. Ma si tratta di un terreno minato, lungo il quale risulta assai pericoloso avventurarsi, soprattutto fino a quando la Corte di un Tribunale non avrà scritto la parola fine sugli aspetti penali della vicenda.
Interessa invece, con i mezzi limitati a nostra disposizione, capire i perché nascosti del gesto, ivi comprese quelle "microscelte che ogni essere umano effettua lungo il cammino" e che "possono portare fino al punto in cui viene chiusa ogni possibilità di effettuare una scelta".
I mass media lungo questa strada non si incamminano. Il delitto in esame, per esempio, ottiene solo per un giorno "l'onore" (se così possiamo chiamarlo) di apparire nei telegiornali nazionali, che poi sembrano dimenticarsene.

Non accade quello che succede per altri omicidi, destinati a scuotere invece nel profondo la coscienza pubblica: in quel caso spesso si scatenano fiumi di inchiostro da parte di opinionisti, sociologi, educatori, disposti pure a incontrarsi e scontrarsi in dibattiti televisivi e tavole rotonde. Citiamo su tutti il caso dei due giovani di Novi Ligure, Erica e Omar, già condannati in primo grado per l'omicidio della madre e del fratellino della ragazza.
Del sig. Tonino si smette presto di parlare. Così vuole la sua famiglia. Così probabilmente vuole anche lui.

E degli addetti alla sicurezza? Delle due vittime? Delle loro famiglie? Di loro si parla ancora meno. E, caso strano solo in apparenza, se ne parla meno fin dall'inizio. Come mai?
Anche questo è un aspetto da chiarire. Potrebbe apparire un tema che esula dagli obiettivi che ci eravamo preposti, che esce dal seminato; ma, come vedremo, non è così.
E' noto che i mass media influenzano l'opinione pubblica. E' però forse meno evidente che anche l'opinione pubblica, con le proprie idee, i propri gusti e le proprie tendenze, è in grado di influenzare i mass media e chi li confeziona. Nel nostro caso specifico, leggendo i vari articoli, un particolare appare subito evidente: gli addetti alla sicurezza (meglio noti come "buttafuori") non sono gente simpatica. Non sono simpatici ai cronisti. Non sono simpatici all'uomo della strada e forse nemmeno alla donna, nonostante il loro fisico "palestrato".
"Si credono chissà cosa", "Tutti muscoli e niente cervello","Fanatici delle arti marziali e dei film d'azione", "Alzano le mani con troppa facilità": sono le opinioni dei passanti, puntualmente riportate dai giornalisti. Certo nessuno si spinge a dire che meritavano una fine come quella toccata in sorte ai loro due colleghi della birreria; ma sicuramente, senza dirlo, qualcuno degli intervistati fa capire che, secondo lui, "se la sono cercata".
In definitiva, la gente sembra più dalla parte di una padre che difende il proprio figlio, che non dalla loro. Una difesa assurda, eccessiva, tragicamente esasperata; ma forse scatenata da un comportamento non proprio candido da parte degli addetti alla sicurezza.

Una persona che si preoccupa delle loro famiglie però c'è. E' proprio lui, il sig. Tonino, che in carcere, smaltito lo stordimento iniziale e uscito dall'isolamento, comincia a rendersi conto fino in fondo della gravità del suo gesto e delle sue conseguenze. Sente di aver rovinato altre due famiglie oltre alla sua. Vorrebbe rimediare in qualche modo. Vorrebbe forse addirittura che la vita spezzata fosse la sua, non quella di due giovani.
Com'è possibile allora che un uomo così abbia perso, anche se solo per pochi istanti, il lume della ragione?
Può darsi, per esempio, che il sig. Tonino, partito da casa con intenzioni difensive e non bellicose, sia stato sconvolto dalla vista del viso pesto e tumefatto del figlio e abbia reagito nel modo che sappiamo. Ma, a quanto sembra, le condizioni del ragazzo non erano così disastrose come riportato in un primo tempo.
Può darsi anche che gli addetti alla sicurezza, invece di scusarsi e di fornire spiegazioni sul perché del trattamento riservato al figlio, abbiano mantenuto con il padre lo stesso atteggiamento sprezzante e minaccioso, facendolo uscire dai gangheri. D'altra parte è poco credibile che i buttafuori, per quanto spavaldi, si siano messi a fare i gradassi con uno sconosciuto che si para davanti a loro brandendo una pistola.

 

Salvator Dalì. Persistenza della memoria


O può darsi ancora che sia stato il figlio, umiliato più che sofferente, a "soffiare" ira nell'orecchio del padre, che in quel frangente di tutto aveva bisogno, tranne che di essere ulteriormente esasperato.
In quest'ultima ipotesi ci sarebbe da porsi un interrogativo ancora più angosciante: sapeva il ragazzo che l'uomo era armato? E se lo sapeva, poteva prevedere fino a che punto si sarebbe spinto? O addirittura bramava una vendetta così assurda?
Nessuno dei quotidiani sembra sposare fino in fondo un'ipotesi piuttosto che un'altra. Ma dal loro esame, per noi sono scaturite domande, che si sganciano in parte da quelle poste fino ad ora, ma che potrebbero aver maggior importanza.
La prima. Se, come avremo modo di approfondire in seguito, il sig. Tonino era un vero e proprio leader all'interno della sua famiglia (non un padre padrone, ma perlomeno un sovrano illuminato) come avrebbe potuto farsi condizionare a tal punto da un figlio da diventare un omicida?
La seconda. Perché è andato in birreria con la pistola? Quali erano le sue intime e reali intenzioni prima di uscire di casa?
La terza (ultima, ma non meno importante). Perché nessuno dei familiari, vedendolo uscire di casa armato e sconvolto, non ha cercato di fermarlo o, perlomeno, di avvertire il locale e le forze dell'ordine del suo arrivo?
E' chiaro che la risposta a queste domande non abbiamo potuto, e mai credo potremo, trovarla in cronaca. Il più indicato a fornircela sarebbe proprio il sig. Tonino e forse neppure lui. Proviamo allora a cercare strade diverse.

 

IL PUNTO DI VISTA DELL'AVVOCATO

Il tipo di relazione che si instaura tra un legale e il proprio cliente si basa, e non potrebbe essere diversamente, soprattutto sugli aspetti pratici, primo fra tutti quello di ottenere un'assoluzione o, come nel nostro caso, una condanna mite. Nella fattispecie c'è pure da tutelare l'aspetto patrimoniale della famiglia, con la quale l'avvocato ha spesso il compito di mantenere i contatti.
Accingendosi a tale compito, il professionista in questione ha avuto subito modo di constatare di persona la solidità della famiglia del sig. Tonino, che pare quasi costituire una società all'interno della società, ordinata da regole e leggi proprie. Con il capofamiglia in carcere, il suo ruolo passa alla moglie.
Non siamo dunque di fronte a una casalinga disperata, che in seguito alla tragedia preferisce affidarsi a parenti esperti. Questa donna, fin dai primi giorni, pensa alla gestione dell'impresa, a sbrigare le questioni economiche più impellenti, a badare insomma a che tutto il patrimonio non venga dissipato in un attimo, vanificando così gli anni di fatica suoi e del marito. Un atteggiamento che, visto superficialmente, potrebbe rasentare il cinismo.
In realtà, quando si parla di patrimonio, non ci si deve limitare agli aspetti economici. Bisogna invece comprendervi tutto quell'insieme di valori, di usanze, di credenze morali e religiose che hanno accompagnato e sostenuto la vita di sacrifici dei due coniugi, tesa a costruire qualcosa e al riscatto dalle loro umili condizioni sociali di partenza.

Il rapporto tra un uomo di legge e il suo assistito non deve necessariamente essere improntato alla confidenza amichevole e questo potrebbe in qualche modo spiegare quella sorta di distacco esistente tra la famiglia del sig. Tonino e il proprio legale.
Più difficile, invece, spiegare la quasi totale indifferenza nei confronti dei parenti delle vittime. Eppure questa è l'impressione rilevata dall'avvocato: una specie di "apatia" verso tutto quello che accade fuori dalla propria casa, dalla propria azienda, dal proprio mondo.

 

IL PUNTO DI VISTA DEL CAPPELLANO

Il signor Tonino da qualche mese ha un confidente spirituale: si tratta di Don Luca, cappellano del carcere in cui si trova rinchiuso. Ovviamente il rapporto tra i due risulta più intimo e profondo; ma inizialmente i punti di vista di sacerdote e avvocato concordano. Entrambi, nei giorni seguenti il delitto, si trovano di fronte un uomo svuotato, schivo, pensoso.
Trascorso il primo periodo di detenzione, l'imprenditore, abituato a lavorare sodo, non riesce a restarsene con le mani in mano. Rimanere chiuso nella sua cella senza far nulla potrebbe portarlo alla depressione, a un esaurimento nervoso. Comincia così, di sua volontà, a lavorare. Sembra quasi che, al posto delle parole, voglia sfogare in questo modo il suo profondo pentimento.
Si rimette anche sui libri e comincia a frequentare con successo l'istituto professionale interno alla prigione.
E' un soggetto "sui generis", a detta del cappellano, che si differenzia notevolmente da tutte le tipologie di detenuti presenti nella struttura.
Sembra reagire alle conseguenze delle proprie azioni, così come si reagisce ad un grave lutto. Mette impegno nel lavoro e nello studio; ma non lo fa nel tentativo di dimostrare a tutti costi di essere stato o di essere ancora una brava persona. La fa perché è nel suo carattere, nella sua indole comportarsi in questo modo. Lo fa perché è intimamente convinto che il lavoro porta nuovo lavoro, il nuovo lavoro porta nuove opportunità e le nuove opportunità costituiscono per lui l'essenza, il fine della vita stessa.
Riesce tutto questo a fornirgli, almeno in parte, quella pace interiore che forse possedeva prima del tragico gesto che gli ha sconvolto l'esistenza? Una domanda alla quale è difficile rispondere anche per il più attento, il più scrupoloso, il più preparato dei sacerdoti.

 

CONCLUSIONI

Sono molte le domande, le perplessità, i dubbi che abbiamo sollevato fino a questo momento: di certo non è possibile in poche righe cercare di risolverli tutti. Ma c'è un interrogativo che forse potrebbe riassumere in sé tutti gli altri ed aiutarci in definitiva a raggiungere l'obiettivo che ci eravamo prefissi, ovvero delineare i confini del raptus, ed è questo.


Qual è il punto di non ritorno? In quale momento, in quale istante il sig. Tonino avrebbe ancora potuto tornare indietro ed evitare di distruggere con un solo gesto un'intera vita di sacrifici?
La maggior parte delle persone che hanno seguito la vicenda non avrebbe dubbi a rispondere: "Ma è chiaro! E' stato quando ha preso la pistola dal cassetto. Doveva andare ad aiutare il figlio, questo sì… Ma non avrebbe dovuto andarci armato!".
Sono affermazioni di buon senso. In effetti se l'imprenditore non si fosse presentato con il colpo in canna, la cosa sarebbe potuta sfociare in una violenta lite verbale, al limite in una rissa. Nella peggiore delle ipotesi l'uomo avrebbe potuto usare un'arma impropria, un oggetto raccolto prima di entrare nella birreria o al suo interno: in questo caso, però, saremmo qui a parlare di feriti, non di morti.
Ma queste affermazioni che, come abbiamo detto, scaturiscono dal buon senso e non sono per nulla prive di logica, non esauriscono il problema e non ci aiutano a capire.
Percorriamo invece un'altra strada. Mettiamoci nei panni del sig. Tonino.
Prima lo abbiamo paragonato a un sovrano illuminato. Non è infatti un despota, non è un tiranno: è comunque un re. Un re tuttavia atipico, che ha dovuto lasciare la terra in cui è nato e cresciuto, per conquistarne una nuova e qui, dopo innumerevoli sforzi, fondare un nuovo regno. Ha accettato e compreso gli usi e costumi che la nuova terra gli imponeva, ma non ha del tutto abbandonato quelli antichi. Proprio per questo, all'interno del suo regno-famiglia, diventa (ma sarebbe meglio dire rimane) non solo il capo indiscusso, ma un punto di riferimento insostituibile. Moglie, figli, suoceri per qualsiasi genere di problema si rivolgono sempre a lui: è lui che deve trovare la soluzione. Magari le incomprensioni, le discussioni, gli alterchi non mancano. Ma alla fine l'ultima parola sarà sempre e soltanto la sua.
Ora, questa persona nella notte riceve la telefonata del figlio che chiede aiuto. Cos'altro può fare se non correre in suo soccorso? E' una scelta obbligata. Già, ma la pistola? Il sig. Tonino non è uno sprovveduto. Sa che si troverà di fronte a due o più uomini ben piazzati e magari esperti di arti marziali. Affrontarli a mani nude sarebbe un compito arduo anche per il più capace degli eroi hollywoodiani. Non c'è tempo per chiamare amici o parenti in aiuto e forse nemmeno vuole farlo. La soluzione è lì a portata di mano, in un cassetto: una pistola alla quale con un solo gesto basta inserire il caricatore.
Probabilmente in quel momento non pensa a difendersi, ma a difendere. Probabilmente se l'offesa fosse stata portata a lui personalmente, avrebbe potuto passarci sopra, lasciar correre… Ma a un figlio no! Al proprio figlio nessuno può far del male. Un figlio rappresenta la famiglia stessa, ne incarna la continuità. E come posso difenderlo se chi lo minaccia, anzi chi già lo ha aggredito è fisicamente più forte di me? Non ho alternative. Devo armarmi. Anche questa, dunque, ci appare come una scelta obbligata.
Qualcuno potrebbe vedere nel comportamento del sig. Tonino anche un retaggio di una cultura ancora presente in alcuni settori della società meridionale: lo "sgarro" subìto deve essere sempre e comunque vendicato. Ma non è illogico pensare che in quei concitati istanti il sig. Tonino, più che badare allo sgarro già patito dal figlio, pensasse all'umiliazione di poter essere offeso davanti ai suoi occhi, di dimostrare la propria incapacità (anche fisica) di difenderlo, di non essere (come sempre era stato fino ad allora) all'altezza della situazione. Un rischio troppo grande, che non poteva permettersi di correre. Un re sconfitto, infatti, quasi sempre cessa di essere un re.


A qualcuno il nostro paragone "regale" potrebbe apparire eccessivo, se non addirittura irriverente. Ma chiunque abbia avuto modo di analizzare, anche solo in modo superficiale, i rapporti del sig. Tonino con la propria famiglia, si renderà conto che il paragone regge e può aiutarci a capire meglio la vicenda e uno di quegli aspetti che avevamo lasciato in sospeso: l'inazione della moglie e dei suoceri, quando vedono l'imprenditore armarsi ed uscire. Perché, ci chiedevamo, la donna non avvisa il locale dell'arrivo dell'uomo? Perché non chiama almeno la Polizia?
E' semplice. Se il principe è stato offeso, e magari si trova ancora in pericolo, il re non può far altro che correre in suo aiuto e non può andarci sventolando una bandiera bianca. Deve armarsi, prendere scudo e spada e montare a cavallo. La regina può forse piangere, disperarsi o raccomandargli prudenza. Ma non può fermarlo. A lei toccherà regnare, se le cose dovessero andar male. Ma in quel momento il re è ancora lui.
E la regina non può ancor meno rivolgersi a qualche altro stato, a un re confinante perché con il suo esercito (le forze dell'ordine) blocchi o aiuti il proprio consorte: in questo caso più che non può, non deve : si tratterebbe di un tradimento.

Sulla base di queste considerazioni, è un azzardo ipotizzare che il vero punto di non ritorno sia stato non tanto armarsi, quanto piuttosto anteporre la propria famiglia a tutto il resto? Forse no. Probabilmente dal momento in cui ricevette la telefonata del figlio, il sig. Tonino era già incanalato verso un concatenarsi di eventi, il cui tragico epilogo ben conosciamo.
Ma se è l'alta concezione attribuita dall'imprenditore al proprio stato-famiglia a metterlo nelle condizioni di diventare un omicida, bisogna tuttavia sottolineare che tale concezione non è un atto isolato, quanto piuttosto il frutto della sua educazione e delle scelte di tutta una vita. In pratica, il sig. Tonino (da noi paragonato a un re) non ha mai prestato alcun giuramento, non ha mai detto: "Da questo momento in poi io difenderò il mio stato a costo della mia stessa vita e distruggerò i miei nemici!". Il suo ruolo di leader se lo è creato con le proprie mani, ma gli è stato nello stesso tempo cucito addosso da chi lo circondava.
Nemmeno nelle sue più remote fantasie avrebbe mai potuto immaginare che quel ruolo lo avrebbe portato un giorno ad uccidere e così a diventare, lui stesso, la principale e più temibile causa dei gravi problemi che, d'ora in avanti, assaliranno la sua famiglia.