La reazione di fronte ai crimini


Antonio Dosso


La realtà con cui veniamo a contatto quotidianamente tramite i vari mezzi di comunicazione, ci mette di fronte a notizie riguardanti crimini di vario genere, con maggiore enfasi per quelli violenti come omicidi, stupri, rapimenti e così via. La cronaca nera ha sempre un posto di primo piano nei telegiornali e alla radio, dove viene prima delle altre notizie, e nei giornali dove occupa solitamente varie pagine; questo è dovuto al forte interesse della gente nei confronti di questi temi sempre d'attualità.

Davanti a questo fenomeno sorge una domanda spontanea: cosa pensa la gente comune delle persone che compiono questi crimini violenti?
Come si può vedere dalle interviste ai familiari delle vittime, chi è direttamente coinvolto nel trauma sperimenta emozioni di disorientamento, angoscia, incredulità, tristezza e depressione che tendono a diventare solitamente odio e rabbia verso il criminale.
Esistono anche rare eccezioni, come il padre di Erica De Nardo e il padre di Lorenzo Paolucci, i quali hanno reagito perdonando i criminali.
Forse questa reazione può dipendere da un fattore esterno al dramma ma interno alla persona colpita, come la fede nella religione, o in qualcosa di simile, che fornisce la forza per il perdono.
Le persone non direttamente coinvolte, solitamente, non reagiscono in questo modo; le reazioni più comuni sono tre:

1. immedesimarsi nel criminale

2. indifferenza

3. desiderio di giustizia o di vendetta

Credo che la prima reazione interessi pochissime persone. Solamente i familiari dei criminali e le autorità (ma a volte neppure loro) sono nella posizione di prendere in considerazione le motivazioni profonde dell'atto criminale, come i problemi della vita familiare infantile o la mancanza di adeguati strumenti per rappresentare il disagio personale.

L'opinione pubblica è generalmente refrattaria ad allargare la prospettiva del problema; la tendenza più diffusa è quella di fare proprie solo le ragioni della vittima perché cercare di capire le pulsioni che spingono un criminale a commettere atti violenti richiede una sensibilità spiccata o un costante sforzo di immedesimazione.

Questo sforzo è molto frequente, invece, quando si pensa alla vittima di un suicidio, per la quale è più facile provare compassione e tristezza.
Però è da notare che, anche in questo caso, pensando al motivo del suicidio, più frequente nei ragazzi, la gente cerca di trovare qualcuno, all'interno della famiglia o al suo esterno, verso cui orientare il proprio sentimento, che da compassione verso la vittima si tramuta in rancore verso il sospetto colpevole. Si immagina che quest'ultimo possa essere il genitore, che non ha prestato abbastanza attenzione o addirittura ha maltrattato il ragazzo, un insegnante disattento, il partner che ha causato una delusione amorosa…
Il suicidio, per quanto inaccettabile, è più "comprensibile" perché molta gente ha desiderato o immaginato qualche volta di porre fine alla propria vita, magari durante le crisi adolescenziali, quando si sentiva ignorata o rifiutata dal mondo e dai suoi cari, e aveva paura di non farcela ad andare avanti nella sofferenza.

Ma superato il momento critico di questa fase adolescenziale, il suicidio viene scartato e rifiutato come scelta volontaria e viene considerato dipendere da qualche fattore esterno, che annienta la volontà di vivere riducendo le opzioni possibili a una sola: il suicidio, appunto, che rappresenta la propria vendetta nei confronti delle persone incapaci di capire i propri bisogni interni.
E' interessante notare questo sentimento di identificazione con il suicida, considerato una persona più debole che non ha avuto i mezzi e la forza per crescere, e il sentimento di incomprensione e rancore verso l'omicida, il quale ha alle spalle un passato simile ma ha compiuto una scelta, sempre diversa da quella comune, ma inaccettabile.

L'unica importante eccezione a quanto appena descritto è l'omicidio per legittima difesa, in cui si assiste ad un ribaltamento delle emozioni provate nei confronti dei protagonisti: in questo caso, la vittima "se l'è cercata", mentre l'assassino è una persona comune e buona (idealizzata nell'immaginario comune attraverso un'identificazione parziale) che, di fronte a circostanze improvvise ed avverse, ha fatto quello che "era giusto fare", magari esagerando un po'.
Ma ciò è perfettamente comprensibile e umano, perché la paura non consente in questi casi di prendere decisioni razionali e di agire riflettendo sulle conseguenze, perciò la punizione, se deve essere applicata, deve risultare la più leggera possibile.

L'atteggiamento indifferente è comune invece alle persone che non sono interessate e addirittura evitano questi argomenti problematici, cambiando canale o leggendo altre notizie, per evitare anche solo di rifletterci un attimo. Questo modo di pensare potrebbe essere dovuto sia al sentimento di onnipotenza, per cui si crede che a se stessi e ai propri cari un dramma del genere non possa mai accadere, o al contrario, per un rifiuto totale dovuto al fatto che un evento del genere si è già vissuto sulla propria pelle e non si vuole più neanche pensarci perché fa troppo male.
Altro motivo concomitante è l'assuefazione, e questo è il fattore più grave e allo stesso tempo più triste, per cui l'abitudine dovuta alla frequenza porta in determinati casi a non provare più nessuna reazione; viene recepita allo stesso livello di altre notizie meno importanti e più leggere.

Infine la reazione che ritengo più rappresentativa del pensiero comune: la notizia di un delitto o di un altro grave crimine provoca dolore e sgomento, che si tramutano quasi subito in un sentimento di rancore e di rabbia verso il criminale. Queste sensazioni che montano dentro dal profondo e crescono sempre più, vengono poi dirette in una sete di giustizia (o di vendetta?), nei confronti di quell'aberrante individuo che ha commesso il crimine.
Intendo con questa frase, che la gente preferirebbe vendicarsi direttamente verso l'assassino, lo stupratore o il pirata della strada che fugge senza prestare soccorso, piuttosto che affidarsi alla giustizia italiana e alle istituzioni verso le quali si nutre pochissima fiducia. Infatti, esse appaiono ree di non punire abbastanza i criminali come desiderato dalle vittime, le quali comprensibilmente protestano con esclamazioni come: "L'avete ammazzato due volte!".

Ma anche queste proteste cadono nel vuoto o quasi, così la vittima o i suoi familiari non possono manifestare le emozioni né elaborare il proprio trauma e non si sentono minimamente protetti, col risultato di un incremento della rabbia e del desiderio di vendetta e conseguente decremento stabile della fiducia nelle istituzioni: all'assassino viene data una seconda possibilità, mentre chi è stato ucciso non può averla.

Secondo la mia opinione personale, questo problema grave è dovuto agli esiti sconfortanti dei processi dei criminali eccellenti e dei mafiosi, cui si aggiungono le scarcerazioni facili e le generali carenze della giustizia italiana che consentono ai criminali di ritornare indisturbati ad evadere la legge (d'altronde il detenuto, spesso, mantiene i legami con l'ambiente criminale anche all'interno del carcere).
Questi episodi giudiziari fanno sicuramente più notizia, sulla stampa, ed è per questo che, alla collettività, non viene mai dato conto di quei processi in cui le condanne sono realmente commisurate alla gravità dei reati. Perciò si creano luoghi comuni come: "in cella si sta bene", "si sta in una cella singola con la propria tv e il proprio bagno", "si viene trattati benissimo da tutti", "è come una vacanza in un albergo"…
Avviene quindi una generalizzazione che partendo dalle condizioni di prigionia dei mafiosi viene allargata a tutti i reclusi; peccato, però, che la gente si dimentichi in fretta delle notizie riguardanti il digiuno della fame e altre proteste anche più violente, contro le condizioni molto disagiate in cui vive la maggioranza dei detenuti dovute alle carenze delle nostre carceri sovraffollate.

Il desiderio di vendetta e indifferenza verso le motivazioni e le condizioni del condannato è spesso rafforzato dai media, i quali veicolano le emozioni comuni contro il criminale, presentando la notizia in modo da favorire il risentimento e il rifiuto. Questo non favorisce certamente l'approfondimento da parte del pubblico che, invece, si limiterà ad accettare le motivazioni apparenti e non tenterà nemmeno di conoscere la realtà nella sua complessità.
Tutti questi fattori esasperano la reazione della gente che sfoga la propria rabbia e il proprio disinganno fantasticando sulle modalità più cruente e sofisticate con le quali "la farebbe pagare" al criminale: spesso l'idea è quella di far provare allo stupratore la violenza dello stupro o al piromane il supplizio delle fiamme, in generale, di punire il delinquente con una sofferenza pari a quella che ha inflitto.
Altro che pensare al disagio e alle esigenze del criminale!
La logica dominante è quella "del taglione" di biblica memoria...

In questa prospettiva è facile comprendere anche l'atteggiamento della classe politica, che, lungi dall'alienarsi in qualche modo il favore popolare, fa leva, strumentalmente, sulle paure e sulle insicurezze della gente, promettendo l'adozione di pene sempre più coercitive per mantenere sicure le città e per lottare contro il crimine. In campagna elettorale è più conveniente (e senz'altro meno problematico) ignorare quelli che sono "dall'altra parte della barricata".
Oggi nessun leader politico rischierebbe di inimicarsi parte dell'elettorato facendo proprie le ragioni della ricerca umana, perché non riscuotono molto successo coloro che si interrogano sulle motivazioni dei criminali e che tentano di reinserirli nella società.
E, infine, anche le istituzioni stesse falliscono in questo compito, stabilito dalla legge, di orientare il criminale attraverso l'utilizzo delle risorse, sia umane sia materiali, in modo che non delinqua più.
Anzi, spesso succede che egli venga isolato e abbandonato, col risultato che la sua convinzione sulla loro inadeguatezza si rafforzi maggiormente.
Forse sarebbe necessaria un'adeguata revisione dei metodi e degli sforzi adottati per raggiungere i loro obiettivi?

Esamino ora più nel dettaglio il modo di pensare della gente comune, da un punto di vista più strettamente psicologico, al fine di individuare e chiarire meglio i meccanismi mentali che si nascondono dietro questi atteggiamenti; a tal fine mi rifarò in parte all'articolo di Silvia Bonino
"La costruzione del nemico" (Psicologia contemporanea, 168, 2001).
L'uomo al fine di orientarsi e agire meglio nella realtà, adotta un processo cognitivo di categorizzazione, mediante il quale divide il mondo conosciuto in grandi categorie in cui inserisce gli elementi con almeno una caratteristica in comune, semplificando la sua visione.
Così vengono create categorie come uomo, donna, uccelli, cani….e criminali.

Secondo me, in relazione ai crimini violenti, quest'ultima categoria non viene contrapposta, come ci si potrebbe aspettare, semplicemente a quella dei "non criminali", degli onesti, ma piuttosto a quella degli uomini, avviene, cioè, un processo di deumanizzazione del criminale che autorizza a considerarlo alla stregua di una "bestia" inferiore e pericolosa cui non è lecito riferirsi come uomo e a cui non vanno estesi i diritti della persona. Si legittima così la libertà di odiare una "bestia" rifiutata come uomo, secondo un modello di riferimento che è, in realtà, solo ideale e un desiderio di giustizia che ha bisogno di essere soddisfatto.
Il processo di categorizzazione mediante il quale "l'altro diventa totalmente estraneo, in base ad uno schema valoriale ed ideologico, non nasce d'improvviso dal nulla ma è il punto d'arrivo di un processo di progressiva separazione tra noi e loro" che comincia fin dall'infanzia come dice Bonino nel suo articolo.
Tutto questo viene rinforzato da diversi fattori, tra cui l'incomprensione e il desiderio di allontanare ciò che non viene compreso: in quest'ottica si può inquadrare la proposta di portare il carcere di San Vittore fuori città, a cui si è opposto il suo direttore. Infatti, i carcerati sono disposti a rinunciare alle comodità possibili in un nuovo carcere, pur di evitare di perdere i contatti con il mondo esterno (le visite dei propri familiari e amici), ora possibili per l'accessibilità alla struttura.

Inoltre il desiderio che venga punito il responsabile è talmente grande che, in alcuni casi, si "forza" tramite l'opinione pubblica il giudice a dare la capacità di intendere e volere ai criminali pur di farli condannare in carcere per diversi anni.
La frequenza di questi crimini aumentano l'insicurezza e la paura, fomentando di conseguenza anche l'intolleranza verso i criminali.
Un esempio risale all'inizio di due anni fa a Milano dove, in seguito ad un'escalation di rapine mortali nelle tabaccherie, una folla di gente comune (giustamente esasperata dall'incapacità del comune e delle forze dell'ordine di prevenire il crimine) ha quasi linciato un assassino in fuga.
Quest'ultimo si è salvato solo grazie all'intervento di un poliziotto, che l'ha sottratto dal massacro in atto. Le comuni inibizioni che avrebbero frenato il singolo individuo dal fare del male a un'altra persona, in quel caso, sono venute meno a causa di un contagio emotivo di rabbia e paura e di un meccanismo di deresponsabilizzazione che si diffondono in mezzo alla folla.
In seguito a questi fatti, alle manifestazioni e ai cortei, alle proposte dei negozianti di armarsi per essere pronti a difendersi da soli, si è deciso di potenziare le forze dell'ordine nella città, che facendo il loro lavoro, hanno contribuito a calmare in parte gli animi dei cittadini diminuendo la loro paura e la loro rabbia.

In conclusione, si può affermare che il desiderio di vendetta è molto più comune dell'inclinazione al perdono, eppure chi può dire cosa faremmo noi nelle condizioni di vita che hanno portato il criminale a compiere il reato, saremmo stati in grado veramente di compiere una scelta diversa?
Dobbiamo renderci conto che il criminale fa parte integrante della nostra società e non è possibile allontanarlo recludendolo per sempre; secondo la mia opinione personale, ciò non sarà possibile fino a quando egli resterà un soggetto astratto; il primo passo da compiere, allora, sarà considerarlo una persona concreta uguale a noi.
Solo dopo aver fatto questo, si potrà andare oltre le barriere costruite per nostra protezione, e riuscire forse ad interessarsi alle sue reali motivazioni e comprenderlo.
Il perdono spetta solo a chi è stato direttamente coinvolto quindi alla vittima o ai suoi familiari.