Dalla parte della vittima

 

Claudio de Carli

Davanti ad un atto di violenza, ad un crimine, solitamente ci si interroga sulle motivazioni, sui pensieri, sugli stati d'animo e sulle emozioni che l'autore dell'atto violento avverte, ha provato, e che possono averlo indotto ad assumere un comportamento trasgressivo tale da violare la dignità e la persona altrui.

Anche durante questo breve corso, si è cercato di discutere, di riflettere, di capire l'impulso dell'uomo a trasgredire, a distruggere in situazioni o momenti particolari (ad esempio nei momenti di raptus); si è cercato inoltre di vedere e forse di "valorizzare" i risvolti potenzialmente costruttivi che tali impulsi contengono.

Solo marginalmente ci si sofferma sulla persona che ha subito una violenza, sulla sua psicologia, sugli stati emotivi ed affettivi che essa ed i suoi famigliari provano, sul cambiamento del loro modo di vivere. Non so perché questo avviene, forse per un meccanismo di difesa inconscio: la sofferenza della vittima e dei suoi famigliari evoca in noi un'identificazione, un sentimento di dispiacere, dal quale cerchiamo di rifuggire, mentre invece la ricerca di spiegazioni più o meno razionali del comportamento deviante, ci permette di capire ed intervenire sul mondo.

E' quindi sulla psicologia della vittima che vorrei soffermarmi.
Coloro che hanno subito il dolore di eventi tragici o sconvolgenti, provano un groviglio di emozioni complesse; rivivono, infatti, le esperienze traumatiche vissute attraverso immagini, pensieri, percezioni, sogni e sensazioni. Fanno di tutto per evitare situazioni o stimoli associati a quelle vicende. Si sentono tristi, inutili, privi di spinta vitale.

Impotenza, umiliazione, paura, rabbia, colpa e vergogna occupano una posizione dominante nei loro pensieri; emozioni complesse, ma anche contrastanti:

Coloro che pretendono la giustizia privata, arrogano a se stessi il diritto di giudicare e punire; si tratta - credo - di una concezione morale primitiva, nella quale l'amministrazione della giustizia è ancora un fatto pieno di emotività e vendetta. E' questa una giustizia in cui prevale il riferimento egocentrico a sé ed alle proprie emozioni, mentre manca un orizzonte più ampio e decentrato, con il richiamo ai valori universali su cui si fonda la società evoluta.

Anche coloro che si affrettano a chiedere il perdono riducono la giustizia ad un fatto personale e privato tra i famigliari della vittima ed il carnefice; essi dimenticano che il perdono non esime dal fare giustizia. Quest'ultima non nega al colpevole la possibilità di riabilitazione, che viene anzi riconosciuta come elemento fondamentale della pena, ma questa "redenzione" non discende dal perdono dei famigliari.

Vi è, infatti, un benessere più generale della società che deve essere tutelato e ripristinato, così come vi sono dei valori che devono essere affermati e rispettati.

Un altro aspetto che emerge, nella persona vittima di violenza è dato dai sentimenti di autodenigrazione e autocolpevolizzazione, come effetto di una percezione di sé svalutata, danneggiata. La domanda che risuona nella mente di queste persone è: "perché?", "perché proprio a me?", "cos'ho fatto di male per meritarmi questo?". I sentimenti di colpa nascono dalla paura di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che ha richiamato l'attenzione dell'aggressore.

Questi interrogativi ed i sentimenti che li accompagnano, assumono il carattere di domande ripetitive che accompagnano la mente ed i pensieri della vittima, determinando un senso di estraneità e di distanza emotiva dalle attività abituali e dagli affetti.

Ma queste domande e le emozioni che ad esse si associano, non sono senza ragione; esse insorgono come risposta allo stato d'impotenza e di paura che l'individuo avverte. Dislocare una parte di colpa su di sé significa recuperare, almeno in parte, una certa padronanza della situazione; significa trovare risposte che, per quanto parziali, restituiscano all'individuo un ruolo attivo e gli permettano di elaborare strategie tese ad impedire che l'evento traumatico possa ripetersi. Poiché la vittima comprende di non poter agire sugli altri, con l'aiuto della colpa, cerca di modificare il proprio ambiente, o il proprio comportamento per garantirsi sicurezza e protezione.

Nella nostra società poco o nulla viene fatto per ascoltare la vittima, per permetterle di sfogarsi, di liberare i propri pensieri, sentimenti, emozioni; la persona sottoposta a violenza è spettatore impotente dello svolgersi degli eventi, e niente può fare per parteciparvi attivamente. Viene così a mancare credo, quello spazio di cui si diceva a lezione, quel tempo che permette alla persona di fermarsi e riflettere, e a volte capire l'atteggiamento altrui.


Bibliografia Consultata