Nell'apatia del tempo immobile

Gabriele Tricomi

12-06-2010  

Un’altra vita si è spenta. Io continuo a gironzolare, mosso dal desiderio di rintracciare un suo segno. Forse aveva bisogno di un gesto a conferma che era ancora vivo. Tutto ricomincerà, un nuovo laccio al collo spegnerà una lucina, e con un “bip” si nasconderanno le parole da non dire. I giornali, pur se per una sola volta, ne parleranno e si metterà sotto inchiesta il carcere. Il problema del sovraffollamento sarà uno degli argomenti; per qualche giorno i parlamentari si riuniranno nuovamente per la costruzione di nuove carceri e questo sino al prossimo suicidio.

Chiuso nel malessere del mio involucro attendo. Io credo che il suicidio, oltre a un’estrema violenza, sia un atto dimostrativo per parlare, pur se paradossalmente, della propria esistenza. Ho chiesto a un agente che età aveva quell'uomo e gli ho sentito dire “ma che stupido è stato, era tranquillo!”. Ma come può essere tranquilla una persona così violenta da uccidersi?

Credo sia difficile capire il meccanismo del suicidio, ma credo che il carcere, avendo a disposizione tanti esseri umani con etnie e ceti sociali diversi, potrebbe e, a mio avviso, dovrebbe studiare questo capitolo della mente umana più di quanto si possa fare all’esterno. Nonostante i continui appelli, si continua a trascurare che un uomo che non ama e che non ha speranza e, per giunta, costretto all’ozio, prima o poi tenterà di manifestarsi con atti violenti, proprio perché non si può accettare la punizione come unico mezzo per il cosiddetto reinserimento.

Quello che però per me è più grave è che sento ancora gli altri detenuti commentare la morte di un uomo come un gesto di vigliaccheria. Così questa sera, consolati dall'idea di seguire alla tv qualche calcio al pallone, passeremo rapidamente tutto nel dimenticatoio. Che schifo! Voglio urlare! Soffrire fa male, e farlo in silenzio fa ancora più male!

A questo punto, per evitare di essere retorico, dedicherò un ultimo saluto al mio quasi dirimpettaio, ma purtroppo sconosciuto, carcerato. Questo, durante i miei quindici anni, è il diciottesimo sconosciuto che muore senza mai avermi parlato.

 

Caro compagno
Non sono certo che mi ascolterai
Né se lontano da qui vivrai.

Di una cosa però sono sicuro
Non hai scelto una vita da duro.

Con tanta amarezza ti dico
Che io non mi rassegnerò
A questa nefandezza

Prima o poi anch’io ti conoscerò
Per te farò ciò che potrò
La tua assenza non sarà motivo di nostalgia,
Ma sono certo che anche tu vivrai nell’anima mia.