La sfida

 

Fulvio Cattaneo

24-02-2005  

Sul finire dell'inverno all'inizio degli anni Settanta l'impianto sportivo comunale di una piccola città della Brianza, dove vivevo, fu teatro di una competizione improvvisata che, per andamento ed esito, resta ancora oggi impressa nella mia memoria e, credo, in quella di mio padre, che ne fu il promotore e lo spettatore privilegiato. Io e mio fratello di quattro anni, sei meno di me, demmo infatti vita a una gara appassionante e insieme drammatica, dai risvolti non solo sportivi. 

Era una domenica mattina di pallido sole, nel cielo di un azzurro stinto. Nostro padre, dopo averci portati a giocare a palla sui prati adiacenti al campo di calcio della squadra locale, ci condusse nella pista di atletica che lo incorniciava. L'accesso era libero, come solitamente accadeva quando non erano in corso né manifestazioni sportive né allenamenti. L'impianto sorgeva in periferia, quasi a ridosso della collina sulla cui sommità si era sviluppato l'agglomerato urbano del centro, ricoprendone la parte superiore. Dalla pista, le case, che occupavano densamente questa parte, si offrivano allo sguardo in una prospettiva suggestiva, che le mostrava schiacciate sullo sfondo del cielo a formare una lunga striscia orizzontale di macchie di vari colori, posta più in alto rispetto a chi la osservava. Nei giorni di cielo terso, quando tali colori acquistavano nitidezza e intensità, la striscia di case sembrava la trama di un orlo che decorava il fondale azzurro costituito dal cielo stesso.

In pista, nostro padre lanciò l'idea di una sfida tra me e mio fratello: una corsa sulla distanza di un giro. Nessuno dei due aveva calcato prima una pista. E' probabile che dietro a quella proposta, che aveva lo scopo di farci divertire, ci fosse anche la curiosità di verificare non tanto chi fosse il più veloce, dato che la gara, impari sotto tutti i profili, non avrebbe dovuto riservare sorprese sul vincitore, quanto in che misura fosse presente in ciascuno di noi la tempra agonistica del nostro genitore. Fisico atletico e amante dello sport, che aveva praticato con assiduità da ragazzo e che ancora faceva anche se con minore frequenza di un tempo, nostro padre cercava di trasmettercene la passione, con risultati tuttavia, almeno per quanto riguardava me, poco incoraggianti.

Il pensiero, non pienamente esplicito, che quel giro di pista potesse trasformarsi in un esame ritengo si sia affacciato subito alla mia mente e vi abbia lavorato come un tarlo voracissimo. Infatti, l'effetto che produsse nei pochi minuti che precedettero la gara fu che mi predisposi a essa con l'animo dell'alunno che teme l'interrogazione da parte di un maestro severo ed esigente.

Prendemmo posizione dietro la linea di partenza dei cento metri, lungo il cui rettilineo stava l'unica e vuota tribuna. Al via scattai come un fulmine. L'ansia di tagliare il traguardo e la presunzione mi fecero tenere una velocità sconsiderata fin dai primi metri. Non avevo preventivamente stabilito come amministrare le energie e dopo avere percorso una sessantina di metri, complice anche lo scarso allenamento, cominciai a pagare il prezzo di quell'avvio rapidissimo. Falcata dopo falcata, i muscoli si irrigidivano per lo sforzo e le gambe diventavano sempre più pesanti. Poco lucido per l'eccitazione e la paura che stava subentrando, non pensai neppure in quel momento di ridurre la velocità e di distribuire le forze residue lungo il rimanente percorso.

Ero ormai a corto di fiato. Il mio assetto di corsa aveva perso la compostezza iniziale e la velocità era diminuita in modo notevole, forzatamente. La prima delle due curve pareva non avvicinarsi mai. Ero allo stremo, ma ostinatamente, quasi disperatamente, pur capendo che non sarei riuscito a continuare, corsi ancora per una ventina di metri. Ormai muovevo le gambe in modo scomposto. Nell'ultimo tratto del rettilineo, delle grida di incitamento di nostro padre percepivo solo parole tra loro slegate.

Finalmente mi fermai: le gambe divaricate e leggermente piegate, le pale appoggiate sulle ginocchia per sostenere il busto inclinato in avanti, ansando. I momenti successivi furono tremendi. La corsa mi era sembrata durare un'eternità e non me la sentii di riprenderla. Realizzai la misura del mio fallimento e ne provai vergogna. La disfatta assumeva inoltre caratteri grotteschi per l'ingenuità della mia gara.

Fui richiamato alla realtà dalla voce familiare di nostro padre che incitava e poi da uno scalpiccio, contraddistinto da regolarità, che si faceva sempre più vicino. Ancora disorientato, non li collegai subito tra loro, non rendendomi conto di cosa stava accadendo: se la mia corsa era tristemente finita, quella di mio fratello, che avanzava verso di me in pista, era invece in pieno svolgimento.

Indossava un'elegante pelliccia di colore scuro, che non gli era stata tolta per l'occasione e che gli copriva abbondantemente le ginocchia. Anche le scarpine con la suola di cuoio erano inadatte alla gara. Completavano l'abbigliamento dei pantaloni di un rosso acceso a zampa di elefante, di moda in quegli anni. Calato sulla fronte portava un berretto di lana. Correva con brevissime e rapide falcate, sempre uguali. Pareva non sentire la fatica. L'andatura leggermente caracollante, più che allo sforzo, sembrava dovuta alla costante ricerca dell'equilibrio. Mi passò accanto e si apprestò ad affrontare il tratto curvilineo. Lo seguii con lo sguardo, meravigliato, mentre si allontanava.

Assistetti incredulo a quello spettacolo inatteso e mi aspettai che mio fratello si fermasse da un momento all'altro, sfiancato, non perché lo desiderassi, ma perché stava disattendendo ampiamente le mie previsioni. Nella sua corsa tuttavia non vi erano segnali di cedimento. Procedeva mantenendo ancora l'assetto iniziale, a dispetto della pesante pelliccia in cui il busto e le braccia, che teneva ferme e aderenti ai fianchi, sembravano irrigiditi. Questo indumento gli avvolgeva buona parte del corpo come una sorta di guscio e faceva risaltare per contrasto il movimento delle gambe, dove tutta l'energia di cui disponeva pareva confluita per sprigionarsi liberamente. Tale movimento era quasi frenetico e molto buffo, per il breve tratto dei pantaloni che la pelliccia lasciava scoperto.

Stava per imboccare il secondo rettilineo e circa metà giro era alle sue spalle. Fino ad allora avevo osservato la sua solitaria falcata in silenzio. Dopo lo stupore iniziale, mi trovai a fronteggiare una serpeggiante inquietudine per la superiorità che il mio avversario stava manifestando in pista. L'ipotesi che la sua corsa, poco armoniosa anche se molto efficace, potesse continuare si era intanto fatta largo. Nonostante la figura minuta e la dinamica del movimento trasmettessero un'immagine di fragilità, trovavo tuttavia che, a mano a mano che guadagnava metri, questa immagine si intrecciasse in modo paradossale con un'altra, che con essa contrastava, quella cioè di una incontenibile vitalità. Il fascino di questo connubio e le ragioni del sangue prevalsero, almeno per il momento, sulla nascente inquietudine. Mi misi a incitarlo, unendomi nel fare ciò a mio padre. Le nostre grida erano un modesto contorno all'impresa che stava realizzando, rispetto allo scroscio degli applausi di un pubblico folto e in delirio per lui che aveva meritato fino a lì. 

Mancava poco all'inizio della curva e mio fratello correva con tenacia nello stadio deserto, sullo sfondo della vicina fila di alberi situata lungo il margine diritto della pista. Sopra di essi si vedeva la collina su cui stava la città. Quando si presentò sbandando all'uscita del tratto rettilineo, per poi riprendere la traiettoria disegnata dalla corsia e percorrere l'ultimo quarto di giro, le sue falcate, diventate più lente, tradivano la stanchezza. Questa si esprimeva anche nello sbilanciamento del busto in avanti. Fu dopo che ebbe assunto tale innaturale postura che la pelliccia mi parve gravare ulteriormente su di lui e che non solo ne frenasse la corsa, ma potesse addirittura comprometterne la stabilità dell'assetto. 

In quella fase di massima incertezza per l'epilogo della sua gara, immaginai la tribuna, desolatamente vuota, verso cui stava andando, gremita di una folla entusiasta, che oltre ad applaudirlo gli riservava ovazioni e che queste lo potessero sospingere fino al traguardo. Ma non ne ebbe bisogno, perché vi arrivò con le sue sole forze, dopo avere superato con caparbietà anche l'impegnativa curva finale, ponendo così il suggello al giro di pista che fu per lui come un battesimo.