Pidocchio

Enzo Martino

17-07-2005  

 

Voglio raccontarvi un pezzo del mio passato.

Avevo pochi anni, credo cinque o sei. Mia madre mi portava con lei a lavare i panni alla fiumana e non eravamo i soli a fare questo; pochi potevano permettersi una lavatrice. Ricordo una lunga fila di donne che con sapone di casa e tanta forza sbattevano le lenzuola su delle grosse pietre. Mi ritornano in mente quelle lenzuola che a via di lavarle in quel modo si strappavano.

Ricordo gli sguardi delle altre massaie e dei loro bimbi. Quei sorrisi di beffa e di compatimento, ancora oggi mi rivedo, rivedo quel bimbo che abbassava gli occhi per la vergogna.

Mia madre si accorgeva di tutto quello che succedeva intorno, ma sorrideva quasi divertita ed io mi arrabbiavo di più. Mia madre non si vergognava perché sapeva che quella era la nostra condizione e non era facile cambiarla. La vedo come se fosse in questo momento… e con quale forza prendeva quella tinozza di ferro e la caricava sulla testa, e io soffrivo e mi arrabbiavo perché non potevo fare nulla per aiutarla. Le andavo dietro con il petto gonfio di rabbia.

La strada per arrivare alla fiumana era parecchia e lei non sembrava che si stancasse mai. Per orgoglio, anche quando lei capiva che ero stanco e mi chiedeva se volevo riposare, rispondevo di no e in quel modo credevo di poter fare anche io la mia parte. Anche se non portavo scarpe, non sentivo dolore per le pietre che calpestavo camminando, anzi, mi sentivo forte e coraggioso. Dio, quanto era bello sentire quel sentimento dentro, quel sentimento che mi ha accompagnato durante la mia vita.

La mia vita è iniziata così, con quei sentimenti. Ho sempre pensato che tutti mi considerassero un pidocchio, forse corrispondeva al vero. Penso questo perché, per il mio stato sociale, mi sentivo allontanato, e solo chi era nelle mie stesse condizioni mi considerava e mi accoglieva, ed io stavo bene con loro. Appartenevamo tutti ad una sola “famiglia”. I pidocchi con i pidocchi.

Crescendo cominciai a guardare la vita in modo diverso, mi basavo su quello che gli altri mi avevano insegnato e che ormai era diventato parte di me. Non mi faceva più problema che gli altri mi potessero giudicare o additare, già lo avevano fatto. Poi, ho imparato ad osservare e non parlare mai. Ricordo, questo sentimento era talmente forte che per giorni non parlavo neanche in famiglia. Tanto mi abituai a mantenere questo mio atteggiamento che mi venne dato un sopranome che ancora oggi i miei familiari mi rammentano.

A scuola era un dramma, e sempre per le solite ragioni, ma quello che ancora ricordo era il profumo di mortadella che i miei compagni di scuola portavano per colazione, quei compagni che avevano il padre con un lavoro sicuro. Quella mortadella con il pane fresco era una delizia. Non che io non avessi il pane, ma il mio era del giorno prima, e per companatico sempre le stesse cose: pomodoro e melanzane sott’olio. Oggi mi direte che era genuino, ma io desideravo la mortadella con il pane fresco. E ancora quelle differenze che mi facevano arrabbiare.

Il pomeriggio aiutavo i miei genitori nei campi, anche se la fatica era tanta stavo bene, incontravo dei vecchi che mi raccontavano delle storie della guerra, ed io a quei racconti rimanevo estasiato. Nella mia mente scorrevano immagini di persone coraggiose e invincibili e anche se i racconti parlavano di sofferenza, io non la vedevo. Per me era scontata quella sofferenza e la sentivo parte della vita, specialmente della mia. Quel vecchio mi diceva sempre “Enzo, ricordati che da quelli come noi non vengono fuori degli avvocati”.

Quella frase mi ha accompagnato sempre, come se fossi già perdente in partenza. Credo che in fondo vide giusto, era un conoscitore della vita, un’anatra non può diventare una cicogna.