Agitazione interna

Rossella Dolce

26-01-2005  

Esiste il volto del rancore? Certo che sì e verosimilmente ognuno di noi lo ha avuto stampato in faccia all’occorrenza. Ma esiste una rappresentazione di questo sentimento? Non ci sono dei tratti caratteristici, come ad esempio accade per la tristezza con gli occhi bassi o per la rabbia con la fronte corrucciata e lo sguardo violento.

Ho visto il quadro di un uomo certamente confuso, un uomo molto impegnato nel dialogo-scontro con le proprie idee, un uomo che sembra non riposare da moltissimo tempo. Ho pensato che questo suo stato fosse la rappresentazione graficamente più vicina al rancore reale, quello che si sente chiaramente ma che si confonde con rabbia, orgoglio ferito e colpa appena si tenta di chiamarlo per nome. Ho pensato allora di dialogare con questo uomo entrando nel quadro ovvero nella sua mente e nella sua solitaria confusione. 

 

Eduard Munch, Agitazione interna

 

Ho pensato di introdurre una persona seduta su una sedia di fianco al letto, alla destra del quadro, appena dietro alla scena rappresentata. Questo personaggio ha gli occhiali a specchio ed è reale quanto un pensiero fisso; è cioè una sorta di alter-ego, un’immagine a metà tra la coscienza e la schizofrenia e per questo lo chiamerò voce.

V: dove vai?

M: da nessuna parte, sono stanco, non vado.

V: allora perché infili la giacca?

M: non la infilo infatti, la tolgo, non vedi?

V: be, allora toglila, cosa fai lì immobile e stringendo i pugni in quel modo poi. Togli la giacca, versati un drink, siediti qui e accendi la tele. Mi sembra tu abbia avuto una giornata pesante, credimi ne hai bisogno.

M: cosa? No, no, grazie sto bene così.

V: allora perché non ti sei ancora mosso?

M: cosa?

V: mi stai ascoltando?

M: no, si, insomma sono impegnato

V: a far che’? non sei uscito, non esci, non ti siedi, non parli, non ascolti, non guardi nemmeno. Si può sapere cosa di preciso ti impegna?

M: lasciami stare, lasciami…

(Pausa di silenzio)

M: poi cosa vuoi tu, come ti permetti di non capire, di interpretare o di chiedere. Come ti permetti di venirmi a giudicare tu.

V: quello che mi interessa al momento è cosa vuoi tu.

M: voglio prendermi la verità, anzi no, voglio che tu te ne vada, e voglio che lui mi dica che ho ragione.

V: (la voce vuole drammatizzare ma il suo tono risulta saccente) oh, allora è questo, come sempre siamo qui a cercare di rimediare e fare pace con il papà! Potevi dirlo subito, a questo siamo abituati no? Mi stavo preoccupando, eri più strano del solito sai? Pensavo a chissà quale nemico, invece è il solito despota che ti fa sentire in gabbia e umiliato. Nulla di nuovo, non preoccuparti, adesso prendi il pacchetto di sigarette e vieni a parlarne che poi passa tutto come sempre.

(pausa, l’uomo resta immobile, sembra non aver sentito nulla)

M: scusa, devo andare.

V: dove?

M: sì certo vado

V: dove? Dove vai se non riesci a piegare le gambe, guardati: mai visto i tuoi muscoli tanto tesi, sei una tavola di legno, e sei spettinato, stanco morto, non arriveresti alla porta. Per anni non hai fatto un cenno di ribellione vera e ora vuoi cambiare il mondo? Così stanco? Cosa vorresti fare?

M: vado a prendermi la rivincita. Ma non vedi, sono stato ad aspettare troppo tempo senza ottenere nulla, sempre gli stessi pensieri che si inseguono dandosi il cambio: prima la litigata e il come sarebbe potuta andare se non avessi detto e se avessi lasciato stare, e poi la fuga e le sue parole ancora a umiliarmi, il suo volere che fossi tutto il contrario, infine la pace di questa casa che smorza la furia di questa staffetta e poi mi ritrova comunque ancora alla partenza. Adesso deve finire, qualcuno deve vincere.

V: sì tutto fila, non sei forte ma sei esasperato, può starci. Allora dove giocherai la partita finale?

M: io la gioco da sempre, ovunque. Ora cambia solo che la finisco. Ora provo a vincere.

V: è una partita a scacchi o un incontro di boxe?

M: entrambi. Forse non l’ho mai capito e ho fatto sempre la mossa sbagliata per questo, sono un fallito per questo.

V: sarà per questo che hai l’aria di un infermo che può uccidere un lottatore professionista. Lo sai qual è il premio?

M: vivere o morire?

V: non era un quiz, non la so io la risposta, pensaci.

M: no, no, no. Anche se lui morisse io non sentirei di aver vinto. Io devo mettere le cose a posto, devo vedere il mondo nel modo giusto, devo, voglio smettere di vedere le cose come lui o tutto al contrario. Devo vedere quello che c’è. Devo togliermi la sua voce dalla testa. E devo urlarglielo che se non ho ragione io non vuol dire che ce l’abbia lui. Deve capirlo. (pausa) Altrimenti devo essere più forte e costringerlo come ha fatto lui con me. Deve avere paura di contraddirmi, così vincerò io comunque.

V: Vendetta? È questo quello di cui parli?

M: Sì è così, ora vinco io e lui muore.

V: lui muore? Cosa stai dicendo, lui potrebbe già essere morto oppure potrebbe essere felice con qualcuno e in ogni caso qualsiasi cosa lui sia ora, lo è senza chiedere il tuo permesso.

M: e ti sembra giusto? (per la prima volta l’uomo si muove e con la stessa rigidità dell’immobilità si avventa sulla voce)

V: “(con voce strozzata) è l’umiltà di non vincere che fa le persone uguali”

M: cosa?

V: tu e lui non potrete mai vincere o perdere, piantala di fare la gara, ritirati e vai a cercarlo, guardalo e prova a vederlo per come è e non per come è stato con te. Ormai sei diventato il tuo rancore. Lascia stare quello che pensi di lui, non guardare il tuo sguardo in lui e smettila di cercare il suo in te, guardati e guardalo, e quando capisci cosa stai facendo, smettila. E ora lasciami per favore…

M: solo ora l’uomo vede la sua immagine nelle lenti a specchio della voce, si vede con gli occhi sbarrati e i muscoli del collo tirati, vede la sua mano stringere il collo della voce e il suo stesso sguardo impietoso lo ferisce. Lascia di colpo la stretta e torna smarrito nella posizione di partenza ansimando.

V: e adesso per cominciare, mi dici perché tieni così la giacca?

M: (l’uomo alza lo sguardo) perché forse ho freddo.