Rieducazione, tra mito e realtà

 

Eric Bozzato

14-03-2005 Tratto dall'Oblò, giornale de "La Nave"

Fino a diciotto anni pensavo che il carcere fosse quello dei film americani: strutture piene di reti in metallo contenenti brutti ceffi pronti a violentarti nelle docce comuni o ad accoltellarti non appena alzi lo sguardo, incrociando gli occhi gelidi di un pluriomicida sanguinario pieno di cicatrici e tatuaggi.

In tribunale, per una sorta di orgoglio, ho ascoltato la condanna senza battere ciglio; credo che la mia espressione desse ad intendere qualcosa del tipo ”Tutto qui?” mentre in realtà interiormente vivevo già un sentimento simile a quello della disperazione, speravo che da un momento all’altro uscisse Teo Teocoli a dirmi “Sorridi, sei su Scherzi a parte!”.

Non ho lamentele plausibili riguardo alla condanna inflittami (quattro anni per due rapine e una pistola) e non vorrei decantare la solita “lagna” del detenuto che si lamenta del giudice, della società, del carcere. Mi piacerebbe non cadere nel trabocchetto delle verità assolute che mi darebbero la presunzione di parlare a nome di tutti i detenuti: ogni caso è a sé e ciò che cerco di dare è solo un punto di vista, un’impressione, la mia…..

Ho letto fra le pagine di uno studioso, uno importante, che nell’apertura della legge Gozzini, nel fissarne i “principi direttivi” il legislatore del 1975 si è immediatamente riferito alla “rieducazione” disponendo che nei confronti dei condannati e degli internati fosse attuato un trattamento rieducativo che tendesse, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

Io non sono un esperto conoscitore della Costituzione e del Codice, tant’è vero che fino a qualche mese fa ero convinto che il carcere, per esperienza vissuta sulla mia pelle, avesse l’unica finalità di punire il condannato. Ho scoperto proprio qui in redazione, durante una riunione dell’Oblò, per voce di un’operatrice, che l’ambizione e la prerogativa della società, degli uomini di legge, era anche quella di rieducare i “cattivi”… a volte è meglio non sapere.

Non è stato infatti facile digerire che fosse rieducativo vivere sei persone in dieci metri quadrati, per ventidue ore al giorno chiusi in una scatola di cemento e ferro, in condizioni igieniche assurde e inaccettabili, senza parlare di altro che non fosse galera, processi, reati commessi o rapporti sessuali vincenti con fantomatiche strafighe da copertina di Play boy.

Non ho visto rieducante essere indotto ad un nuovo e mortificante stato infantile, attraverso la mancanza di rapporti sessuali o anche solo e semplicemente umani con l’altro sesso, attraverso l’umiliazione di subire perquisizioni fisiche o del luogo in cui è riposta la propria intimità, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Infine non pensavo fosse rieducativo togliere qualsiasi forma di autonomia e senso di responsabilità, qualsiasi ambizione o propulsione creativa e vitale a persone che, è vero, hanno sbagliato, devono forse essere punite, ma non avranno certo avuto la possibilità di una minima evoluzione personale o una reintegrazione in quello che viene definito “tessuto sociale”.

Io ho avuto, nella disgrazia di trovarmi in carcere, la fortuna di rientrare in un progetto di quaranta detenuti su millecinquecento circa, un progetto rivoluzionario che mi permette di frequentare gruppi di psicoterapia, corsi di mediazione dei conflitti, corsi di yoga, di shiatsu, di giardinaggio, di musica, di teatro, di scrivere su questo giornale, di parlare tutti i giorni con persone che vengono da fuori e che non parlano sempre e solo di carcere; addirittura tramite un gruppo (gruppo della Trasgressione), ho la possibilità di comunicare e confrontarmi con coetanei che vanno all’università e che hanno vissuto in maniera ovviamente diversa da me… è interessante.

Alcuni di loro fra qualche anno potrebbero essere psicologi, giudici, magistrati o educatori; io non so chi o cosa sarò, se sarò cambiato, o se stupidamente tornerò di nuovo tra queste mura. Sicuramente ho appurato anche tramite altre carcerazioni che essere chiuso e poi abbandonato in una cella a covare rabbia e rancore non mi ha fornito nessuno strumento in più rispetto a quelli che già avevo, anzi casomai me ne ha tolti.

Ormai sono alla fine di questa carcerazione, fra poco me ne andrò di qui se non altro con una speranza, ovvero che le accettabili condizioni di vita, la cultura, l’arte, l’istruzione e la passione di chi mi ha aiutato ad affacciarmi e avvicinarmi a tutte queste nuove realtà, siano servite a far evolvere qualcosa di positivo in me, o che quantomeno abbiano limitato i danni che già in altre carcerazioni avevo subito.

Sono uno di quaranta detenuti circa, ho avuto fortuna, altre migliaia di persone non ce l’hanno: mi piacerebbe che un domani questa possibilità non debba più essere chiamata fortuna, bensì diritto di ogni essere umano.