Salvatore Veca

Docente di Filosofia Politica
Preside della Facoltà di Scienze Politiche di Pavia

 

A cura di Luca Raineri Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Appropriatezza, funzione, crudeltà, mitezza, equilibrio.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Sì, ricordo quando, da studente del Liceo Parini di Milano, fui sospeso per due giorni insieme a due miei compagni di classe perché ci eravamo molto annoiati alla lezione di filosofia (che ritenevamo pessima). Così dissi ai miei compagni: "forse non vale la pena di stare qui" e uscimmo a prendere un caffé. Parlo però del 1958. Fecero un controllo e chiamarono i nostri genitori, e questo preside, che sembrava la solennità istituzionale, irrogò la sanzione. Questa è una punizione che ricorderò sempre, ma non con particolare sofferenza, perché lì non percepivo (soggettivamente, può darsi che sbagliassi) l'appropriatezza della pena, trovavo che ci fosse una mancanza di equilibrio, per cui -ecco- mi sembrava che la pena fosse arbitraria. Si trattò in effetti di una piccola blessure.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Sì, visto che siamo in un collegio universitario... io ho inflitto una sanzione disciplinare a un alunno che era contravvenuto a delle regole collegiali.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
Noi puniamo delle persone. La pena è comunque, nella varietà dei casi, un restringimento degli spazi di libertà di azione delle persone: questo vale anche per una sanzione di tipo amministrativo, ad esempio, perché anche costringermi a pagare dei soldi che io non vorrei pagare restringe la mia libertà di usare quei soldi.

Noi puniamo delle persone sulla base del fatto che è socialmente, o politicamente, o culturalmente, o religiosamente sanzionato un tipo di comportamento che viola, trasgredisce e non si conforma a una varietà di criteri, o canoni normativi sociali, politici, culturali o religiosi. Ci sono moltissimi modi di punire le persone.

Prenda il caso interessantissimo sotto il profilo antropologico che è la “strategia dell'evitamento”: quando una persona commette qualcosa che culturalmente è considerata non-conforme, nessuno la guarda più negli occhi. Queste persone venivano in pratica “scomunicate” dalla comunità, perché se nessuno più ti guarda tu non sai più chi sei. Però è importante ricordare che noi non puniamo comportamenti, ma persone: puniamo “agenti”, sulla base di principi non conformi a una classe di azioni.

 

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Un sacco di cose diverse, le persone possono punire:

Una delle ragioni della filosofia della pena, a partire dall'epoca della mitezza della pena (che è legata a quello straordinario pezzo del XVIII sec. che è Dei Delitti e Delle Pene del Beccaria, dove hai un argomento di utilità sociale e uno di contratto sociale) è legata all'idea che lo scopo della pena è quello di re-istituire l'equilibrio violato, ai fini della formazione della persona: questa è la legittimità del punire.

La domanda inquietante è se questo scopo sia realizzato dalle attuali istituzioni, e se sia confessabile l’eventualità che le cose stiano diversamente.

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato?
Rispetto all'obiettivo della riabilitazione alla cittadinanza? Viene da pensare che questo dovrebbe avere a che fare con il tipo di regime carcerario, perché è chiaro che già l'obiettivo è difficile, a seconda della pratica detentiva, risulta maggiore o minore la probabilità che la pena raggiunga i suoi scopi. Per cui potrebbe darsi che il nobile scopo venga tradito banalmente dal fatto che le carceri sono un inferno.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Assolutamente sì, per quanto abbiamo appena detto.

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo? E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
Perché noi puniamo i bambini, ad esempio (anche se oggi c'è molta incertezza a punire i bambini)? Io punisco il bambino dicendogli no, è così che lo castigo, e in questo modo imparerà a conformarsi a delle prescrizioni sociali o culturali. Questo è un tipo di punizione che generalmente funziona, dal punto di vista del punitore se non altro. Poi vi sono anche dei casi sul piano collettivo e sociale in cui può darsi che lo scopo venga disatteso: dipende molto dall'atteggiamento del punitore.

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Possono essere dei maestri vittoriani che picchiano i bambini sui banchi (sa che le punizioni corporali sono state eliminate nelle scuole da non molto).

 

Mi può descrivere almeno un altro “quadro tipico della punizione”?
Beh, possono essere degli agenti di polizia penitenziaria che trasportano su un cellulare un detenuto a fare un esame in università; può essere una comunità accademica che scomunica qualcuno dei suoi pari con l'esclusione (questo è raro ma è capitato); possono essere dei torturatori (è un campo molto complicato, ma anche quella può essere una punizione: la tortura è il grado più alto dell'uso delle persone come “arnesi”). La tortura, in un certo senso, va oltre la punizione, perché si perde l'effetto soglia fra il fatto di punire e gli effetti del punire. Lo scopo della tortura è torturare, non fare male per altro ma per uno scopo interno.

 

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
Dipende molto dal contesto. Il punito può vedere il punitore come l'esecutore di una vendetta su di lui; oppure come qualcuno che deve fare qualcosa di quel tipo per conto terzi, un intermediario: questo è quello che quasi sempre si verifica nei regimi carcerari. E molto spesso i detenuti riconoscono nei punitori dei “pezzi di una macchina superiore”. In questo caso il punito percepisce il punitore come un ente che punisce, cioè un mezzo per scopi altrui. All'altro estremo può percepirlo come una persona che punisce, cioè un originatore di scopi.

 

Quali sentimenti, quali fantasie vive chi punisce?

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Un genitore che punisce può avere la conferma della propria autorevolezza, o autorità; il senso invece del conflitto: vorrei non doverlo fare, sarà giusto che lo faccia? È il caso dell'incertezza del punitore. E poi può esserci il caso “non posso venire meno ai miei doveri di genitore”. Questi sono i casi, al netto della crudeltà.

 

E un figlio che viene punito?
Il bambino può vivere la cosa come una riduzione della sua immagine, come un'umiliazione: questo è il caso anche degli animali non umani, come del cane ad esempio. È la sensazione di essere degradati. Pensi all'istituzione militare: degradare vuol dire togliere i gradi. E si tolgono i gradi nella comunità dei pari e di fronte agli inferiori di grado, e tu sei dichiarato nessuno: si spacca una reciprocità. Questo spesso vede il bambino nella punizione: l'esercizio della forza e dell'autorità, che corrisponde al collasso della reciprocità. Quest'idea scatta in particolare quando il bambino del punitore può percepire l'incoerenza.

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
Uno degli elementi fondamentali dall’avere potere è il potere di punire. E’ utile decifrare quanto. Cosa fa il Leviatano? È uno che annuncia punizioni, perché il potere sta nell’esercizio della risorsa estrema, viene ascritto a chi dispone della risorsa di punire nel caso in cui sia contestato.

Immagini un caso in cui il potere sia incontestabile: in quel caso il potere sarebbe incoerente con la punizione. Allora diciamo che ad un estremo abbiamo il potere più immunizzato rispetto alla sua contestabilità, e lì abbiamo minore coerenza con la punizione; all’altro estremo abbiamo il potere altamente contestato, o altamente contestabile, e lì avremo la massima coerenza con il ricorso alla punizione. Che poi, questo è il tema della visione della trasgressione: cioè potere non-trasgredibile, no punizione; potere probabilmente trasgredibile, punizione.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
La punizione è una classe più ampia, fra cui possiamo trovare la pena nel senso definito nell’ambito legale.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
No, non vengono raggiunti nel modo in cui una filosofia della pena coerente con quell’obiettivo dovrebbe auspicare che siano raggiunti
. Se andiamo a vedere le popolazioni carcerarie dei paesi a democrazia costituzionale, noi abbiamo un altissimo tasso di cronicità e di ricorrenza, abbiamo un sacco di “apprendimento criminale”, un sacco di meccanismi di esclusione di minoranze etniche e culturali. Vogliamo anche dire: in presenza di questo, possiamo seriamente sostenere che l’obbiettivo del punire sia quello che i “sacri testi” –che io stesso onoro- dicono?

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Il giudice che punisce dà il via a tutta la faccenda, ma non la segue: è la bouche de la loi, colui che, identificato su certe basi di prova e di ragionevolezza il comportamento violante o non conforme di cui parlavamo, sulla base della legge applicata al caso, irroga la pena. Diverso è il discorso degli operatori, che hanno il compito di sorvegliare e di custodire.

 

Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
Non ne ho idea, se qualcuno me lo dice sarei felice di scoprirlo. Uno potrebbe cavarsela dicendo che la pena ideale è quella che ha appropriatezza e congruità col reato commesso, e che viene amministrata nel modo più coerente con quell’obbiettivo illuministico da cui siamo partiti. Ideale sarebbe la pena che consentisse di evitare gli effetti perversi di cui stiamo parlando.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, lei ritiene che ce ne siano alcuni che sono più conformi agli scopi che abbiamo detto?
Le pene pecuniarie mi sembrano più raccomandabili
, se applicate congruamente: lei sa, il restringimento della libertà nel regime carcerario dovrebbe soddisfare quei criteri lì [della pena ideale] per essere accettabile. Se dovessi fare un ranking metterei al primo posto le pene pecuniarie, poi le sanzioni disciplinari e al peggio il restringimento della libertà personale.

 

Ha dei suggerimenti per andare in questa direzione, ovvero per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Credo che un punto di enorme importanza riguardi la qualità della vita nelle carceri. Questo è facile dirlo, ma naturalmente sappiamo quali problemi vi siano sul piano delle risorse, intese come soldi, investimento nella formazione per gli operatori e impegno a ridurre il tasso d’inferno del carcere.

 

Una pena che punti alla rieducazione può prescindere dalla motivazione del condannato?
Naturalmente no. Nella mia terminologia il condannato viene considerato come un paziente, cioè come un destinatario di qualcosa. Direi così: uno degli scopi del carcere che riducesse l’ammontare di inferno e incrementasse la qualità della vita, dovrebbe essere quello di trasformare il paziente in agente, cioè trattarlo come quell’agente che è stato e soprattutto che sarà, secondo lo scopo della ri-educazione.

 

Ma quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
Una politica degli incontri tra il mondo del carcere e quello che opera fuori, come le cose che fate voi o le molte altre che esistono. Tutto ciò che favorisce l’interazione fra chi vive una temporanea carriera di detenuto e tutte le associazioni esterne al carcere ela conversione del detenuto da paziente in agente. Far “uscire i carcerati”, contrariamente alla logica diffusa che ha la tendenza semplicemente a segregare popolazioni. È un problema veramente di una gravità assoluta: cioè se tu perdi quello scopo mi dici qual è la legittimità con cui punisci, se non il fatto che punisci un sacco di gente che ti dà fastidio? Certo ci sono centinaia di criminali, ma c’è un sacco di gente che genera allarme sociale solo perché non sai dove metterla.

 

A suo avviso esistono delle alternative alla pena?
Sono dell’idea che la restrizione della libertà, il carcere, debba essere utilizzata solo come ultima risorsa
. Dipende naturalmente dalla gravità, però non penserei la pena esclusivamente in quei termini: c’è uno spazio per altri tipi di provvedimento, anche se hanno un loro rischio; altri provvedimenti fin dove è possibile, pena carceraria dove non è possibile altro.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Questo è il tema di Kafka, è il tema della Torah. Il rapporto genitori-figli è personale, è biografico; il rapporto Legge-condannato non è affatto detto che lo sia, anzi molto spesso non lo è.

 

In particolare gli obbiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze di rilievo?
Hanno dei tratti in comune che sono gli obbiettivi dichiarati: ridurre il comportamento deviante attraverso l’educazione o la ri-educazione.