Gloria Manzelli

Direttrice del Carcere di San Vittore

 

A cura di Giò e Nicola Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Sofferenza, vendetta, prevaricazione, giustizia, rapporti familiari.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Una punizione che ricordo di aver subito risale sicuramente all’infanzia, dai miei genitori: quelle serate a letto senza cena, oppure quando non mi facevano uscire il sabato sera o la domenica. Quelle sono le punizioni che ricordo. Altre punizioni francamente non ne ricordo, o perlomeno non mi hanno segnato come quelle nel periodo adolescenziale.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Si, nell’ambito del mio lavoro. Fuori no, a meno che non possa essere intesa punizione il non chiamare più una persona, non frequentare più una persona; secondo me no. Ho dei nipoti, può essermi uscito un “non fai questo, non fai quell’altro, non ti prendo il gelato” ma anche questa non è certo una punizione.

Quindi praticamente solo nel contesto lavorativo, sia a detenuti sia a personale:

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
L’arrivare tardi in ufficio, non è solo un fatto o un comportamento. Quello è l’evento, ma l’arrivare tardi in ufficio è un comportamento che denota negligenza. Oppure omettere l’invio di determinati atti entro i termini richiesti, anche quello è un comportamento negligente. Alle volte, però, a me sembra che si tratti non tanto negligenza o di malafede; mi sembra che manchi un po’ di buon senso e anche un po' di spirito di autoconservazione. C’è mancanza di senso civico, poco senso del rispetto del contesto, del lavoro.

Di solito il comportamento che si deve punire è quello che viola le norme di un contesto, un contratto sociale, qualsiasi tipo di “cosmo”. Chi viola le regole va punito, dev’essere punito! Ma non necessariamente dev’essere sempre punito; in un primo momento può essere richiamato in senso bonario, verbalmente. Poi, se si dovesse verificare una reiterazione del comportamento devi necessariamente punire (lo dico come dirigente di una struttura non facile da gestire; questo, di fatto, è un carcere a prescindere che si chiami San Vittore o Brescia). Anche perché te lo chiede il contesto, te lo chiedono i componenti stessi dell’ambiente.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Chi punisce deve ripristinare l’ordine violato dalla commissione del reato; compensare in qualche maniera la vittima del reato. Un altro scopo è quello di (l’illusione è quella di!) far sì che la persona punita non ripeta più quel comportamento; questo specialmente nell’ambito amministrativo. In questo modo si cerca anche di fare prevenzione. Nel punire un comportamento deliberatamente infrattivo si vuole segnalare che il contesto non lo può tollerare.

Questo comporta anche la riconferma del ruolo di chi punisce; chi punisce, si definisce anche in relazione alla sua funzione di salvaguardia e ricostruzione del contesto violato, infranto.

 

Ci può dire quali sono gli aspetti di cui deve tener conto nella punizione una persona con un ruolo come il suo?
Da un direttore di una struttura ci si aspetta che i comportamenti che violano il codice di quella struttura debbano essere puniti perché altrimenti succede che chi si comporta bene lamenta di essere trattato come chi si comporta male. Se legittimi la violazione delle norme che regolano il contesto in cui tu lavori, vieni accusato di non differenziare le posizioni, di trattare tutti allo stesso modo:  “… è inutile che io mi comporti bene tanto lei ci tratta tutti alla stessa maniera”. Questa è una necessità cui io mi vedo continuamente costretta, una richiesta da tutti perché (e io sono d’accordo) chi rispetta le regole non vuole essere trattato come chi queste regole le viola.

Il contesto, i membri del contesto ti chiedono proprio una risposta punitiva: per non creare un precedente, per non delegittimare chi come me ha un ruolo di responsabilità, soprattutto perché non si vuole essere “omologati” al negativo. Ovviamente questo non lo dice chi viola il codice disciplinare, me lo dice chi lo rispetta!

 

Cosa rende più probabile che la punizione raggiunga l'effetto desiderato?
Che sia immediata, tempestiva, giusta ed esemplare. E’ fondamentale l’equità della punizione. E’ un discorso vecchissimo sulla pena: la punizione deve rispondere a un principio di equità. Se è sproporzionata innesca un meccanismo di reazione e di rivalsa che poi non finisce più.

Va anche detto che ci può essere un ricorso alla punizione eccessivo. Se si punisce sempre e dovunque, perde automaticamente efficacia l’aspetto deterrente che la punizione può avere. Non puoi punire ogni stupidaggine in qualsiasi contesto! Bisogna vivere, bisogna sbagliare vivendo, però bisogna capire gli errori. Devi arrivare al culmine della non-punibilità, a quel punto non puoi più non punire perché appunto quel contesto ti dice: guarda che ha raggiunto il limite. O tu intervieni, oppure noi non avremo più il comportamento che tu ci chiedi di avere. Per questo, in teoria, la punizione deve essere esemplare.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Se non è ponderata, se non è equa e tempestiva può, intanto ingenerare una sorta di vittimismo dilagante e, inoltre, non ottenere minimamente gli effetti per cui è comminata. E’ fondamentale che sia giusta e che sia impartita nell’imminenza del fatto, in modo che il senso della risposta sia riconoscibile.

E’ importantissimo che la persona cui tu applichi una punizione la riconosca come giusta. Se uno la punizione la percepisce come esagerata, fuori da ogni logica rispetto al fatto che lui ha commesso, tende a non riflettere o addirittura giustificare il suo comportamento.

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Lego la punizione sempre ai ceti sociali più alti. Non ricordo esempi di persone di basso ceto sociale che con le loro punizioni siano passate alla storia. Salvo i reati, che possono essere una forma di punizione più insidiosa e più grave.

Immagino una persona in divisa, un rappresentante dell’ordine che punisce chi infrange il suo ordine costituito.

Mi viene in mente quella foto di un generale vietnamita che punta la pistola contro un altro vietnamita in ginocchio tenendogli la testa per i capelli. Un’immagine agghiacciante! Poi tutto quello che abbiamo visto nei campi di concentramento, nei colpi di stato, tutte queste situazioni in cui le persone ci hanno rimesso la vita.

Un’altra immagine può essere quella dell’insegnante che punisce lo scolaro; dietro alla lavagna o fuori dalla porta, può volare anche qualche pacca.

 


Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
Chi punisce può avere un atteggiamento di grande superiorità
; reale o meno è un altro discorso. Crede di essere di sicuro, di essere ad un livello superiore della persona che sta punendo. Questo è il vero dramma delle persone che sono deputate a giudicare gli altri: si credono sempre al di sopra di ogni situazione di parità. E questo è un male, perché fa perdere di vista uno degli obiettivi di cui parlavamo prima, della giustizia, dell’equità. Una persona che punisce, se si arrocca in un atteggiamento di superiorità, rischia anche un certo distacco dalla realtà. Del tipo: non mi capiterà mai di scendere al tuo livello.

 

E chi viene punito?
Chi è punito, pensando sempre al quadro in cui chi è punito appartiene ai ceti diciamo meno abbienti, spesso ha un atteggiamento dimesso, alle volte artatamente dimesso; alle volte commosso, alle volte disperato, altre volte ha paura, o anche un atteggiamento strafottente, o di indifferenza verso l’interlocutore.

Nell’ambito amministrativo, molte delle volte in cui ti lasci coinvolgere emotivamente, finisci con l’archiviare o col trovare una soluzione di accordo, senza punire; cerchi di ottenere l’impegno della persona a non fare più quelle cose per cui la dovresti punire. Può anche capitare che si arrivi all’archiviazione perché il comportamento della persona che hai davanti ti fa rivedere la tua posizione iniziale. Quando invece l’atteggiamento della persona che ha sbagliato è di strafottenza o di provocazione, questo esaspera e indispettisce ancora di più la persona che ha il ruolo di punire e, per certi versi, lo solleva dai conflitti sulla decisione da prendere

L’ammissione di aver sbagliato e il genuino tentativo di spiegare come si è giunti all’atto aumenta la probabilità che la punizione non venga comminata (o che con la punizione si ottenga l’effetto desiderato). Accade il contrario quando c'è il diniego delle proprie responsabilità.

E’ civile, da parte di chi punisce, considerare la presa di responsabilità di chi sta punendo!

 

Quali sentimenti, quali fantasie vive chi punisce?
Non mi piace questa parte del mio lavoro. Cerco sempre di immedesimarmi molto nell’altro, specialmente se per chi ha sbagliato è la prima volta. Può succedere nel nostro lavoro che una distrazione, una negligenza può comportare episodi gravi. E lì dici: cosa avrei fatto al posto loro, in che condizioni mi sarei posta? Questo è quello che faccio io. Non mi piacciono le persone che si ritengono infallibili, al di sopra di tutto e di tutti.

Un atteggiamento che è importante evitare è sbraitare, accusare, urlare perché non serve a niente, sia se la persona è intimidita sia che se ne lavi le mani, perché sarà ancora di più entrambe le cose.

 

E chi viene punito?
Che venga un accidente a chi punisce!

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Dipende da quello che ha commesso il figlio. Penso che nel rapporto genitori-figli sia un dovere il punire il figlio dove meriti. Non mi scandalizza uno schiaffo, anzi, li ritengo fortemente educativi; ovviamente non ci deve essere la violenza che non serve a nulla; come dicevo prima l’abuso nella punizione appiattirebbe solo l’incisività della punizione.

Sicuramente un genitore che punisce è anche amareggiato e dispiaciuto; però rientra nei suoi doveri. La punizione del genitore comunica che prima o poi qualcuno ti chiederà il conto. Io sono contenta che mi abbiano detto anche molti “no”.

 

E un figlio che viene punito?
Odio, rabbia, senso di abbandono probabilmente. Ovviamente dipende dalla punizione. Ritengo che lasciare i bambini in casa da soli giornate intere, più che una punizione sia un reato. Mentre rifiutare un gelato o dire “non ti faccio andare al cinema perché hai fatto fuori la scheda telefonica in una settimana” penso che non sia la fine del mondo, anzi. 

 

Che rapporto c'è fra punizione e potere?
Sono assolutamente complementari, due facce della stessa medaglia. Il potere non può esistere senza il potere di punire, e la punizione non può essere data da chi non ha un potere. Quando c’è l’uno ci deve essere anche l’altro. Chi ha il potere deve avere anche la potestà, il diritto/dovere di punire. Poi il come esercitare questo potere punitivo, è ben altra cosa, punizioni fisiche, economiche ecc.

Si ricollega alla domanda che ho fatto io ieri al gruppo: un sistema punitivo aspro è espressione di uno stato debole o di uno stato forte? Se sei uno Stato debole, e cioè hai poco consenso sociale; che sistema punitivo puoi organizzare con i tuoi cittadini? Puoi permetterti un sistema punitivo blando o ne devi avere uno forte?

Lo Stato, il governo ha il potere e ha il dovere di mantenere l’ordine, la sicurezza, lo stato sociale, lo stato organizzativo, dei servizi pubblici e quant’altro; per poterlo amministrare deve anche gestire un sistema di punizioni tale da poter preservare questo sistema sociale. Altrimenti sarebbe l’anarchia.

 

Quali obiettivi persegue il potere con la punizione?
Quello di preservarlo. Di mantenere l’ordine costituito. Di preservarsi, continuare ad esistere, continuare ad avere una forma di legittimazione.

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
Con tutte. Io per il potere intendo sempre lo Stato, il Governo. In Italia, i poteri sono legislativo, giudiziario ed esecutivo; in più c’è quello della stampa, il quarto potere. Ogni potere ha la sua forma di punizione, anche se non necessariamente codificata. E’ difficile slegarle dal sistema di potere.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
La pena è una discendente del concetto più generale di punizione; un tipo di punizione prevista dal codice penale per chi lo viola; è figlia del concetto di punizione. La pena è scritta nel codice penale; la punizione no: i genitori possono infliggere qualunque tipo di punizione teoricamente; la pena, invece, non è arbitraria, garantisce, è organizzata.

Il sistema punitivo di uno stato organizzato, in Italia ad esempio, prevede che la pena non possa consistere in trattamenti che vadano contro al senso di umanità e che debba tendere alla rieducazione del condannato. Questo è un contenuto che questo stato, con un determinato codice legislativo, dà al suo sistema punitivo. In un contesto in cui non si è organizzati in leggi, invece, può esserci qualunque tipo di punizione.

C’è una situazione di questo genere nei colpi di stato e nelle dittature, nel periodo immediatamente successivo all’insediamento del nuovo governo, ovviamente frutto della presa di potere. Lei pensi al Cile, all’Argentina, in Nicaragua, in Salvador.. nella Germania all’epoca della seconda guerra mondiale. In Cile c’è stato un sistema normativo e punitivo ufficiale, con cui si presentava, e uno ufficioso. Per mantenersi, il governo faceva ricorso al sistema punitivo delle torture e dei Desaparecidos. Questo sistema punitivo non ha avuto il consenso sociale, perché ha ottenuto il potere in modo autoritario, con il terrore. Ci sarà stato un sistema di norme ufficiali ma è chiaro che il regime ha dovuto adottare altri sistemi punitivi finalizzati a mantenere il potere, per tutti gli anni in cui è rimasto al governo.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla legge?
Nel sistema italiano la finalità della pena è la rieducazione del condannato e il risarcimento della vittima del reato e della società del danno subito. Secondo me, la pena deve ripristinare l’ordine violato e ha una funzione prettamente retributiva: deve restituire a chi è stato tolto ciò che è stato tolto. Riferendoci al condannato, senza ombra di dubbio, non dobbiamo dimenticarci la funzione rieducativa.

Noi, in materia, abbiamo una delle norme più belle che esistano al mondo e un ordinamento penitenziario che credo sia uno dei più avanzati, almeno in Europa, e forse nel mondo. Abbiamo un po’ di confusione, abbiamo tempi molto lunghi, ma non abbiamo la pena di morte e possiamo parlare di un sistema garantista e democratico.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
Sicuramente, viene raggiunta la finalità di togliere il reo dalla circolazione per alcuni anni. Oggi le pene si sono inasprite per rispondere alle organizzazioni mafiose, che stavano dilagando e assumendo sempre di più potere.

E’ impossibile pensare, poi, che ci possa essere sempre rieducazione dei detenuti, basta vedere i tassi di recidiva. E’ anche impossibile pensare che la rieducazione debba passare solo per il carcere, per il penitenziario: per i primi reati e per quelli più piccoli, la detenzione deve essere evitata il più possibile, perché nel 90% dei casi il carcere non fa bene. Bisognerebbe ricorrere ad altri sistemi alternativi al carcere.

Ciò però in Italia non è possibile o è molto difficile. Perciò si arriva alla carcerazione. Ma, non si può poi lasciare il carcere da solo nell’attività rieducativa dei detenuti: è inutile far lavorare, durante la pena, un detenuto e offrirgli così un’attività “rieducativa” se poi, scontata la pena, questo si ritrova da solo, senza una casa e senza lavoro. Occorre piuttosto l’aiuto e la collaborazione dell’esterno, per non abbandonare il detenuto, anche a fine pena. Si dovrebbe cercare di intervenire prima della commissione dei reati, laddove si può, nelle periferie e, in generale, in tutte le zone disagiate.

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?

 

Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
Direi proprio di no. Pena ideale potrebbe essere la pena giusta e immediata. Invece, solitamente, la pena arriva dopo anni dalla commissione del fatto, e chi la sconta si vede condannato per un fatto commesso molto tempo prima. Non vedo come questo possa avere una concreta possibilità di incidere sulla persona e sulla sua rieducazione.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, lei ritiene che ce ne siano alcuni che sono più conformi agli scopi che abbiamo detto?
La reclusione, la pena pecuniaria… 

 

Ha dei suggerimenti per andare in questa direzione, ovvero per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Per quanto riguarda l’utilità delle diverse pene, bisogna distinguere i reati: per quelli legati alla tossicodipendenza, si potrebbe pensare ad un primo sostegno e poi a pene che mettano in contatto chi le subisce con realtà come ospizi, centri per portatori di handicap… quelli che in Italia si chiamano ”lavori socialmente utili”, che mettono a contatto con quelle sofferenze che non ci è procacciati con le proprie mani.

... Soprattutto si dovrebbe cercare di comminare una pena equa, giusta ed esemplare immediatamente dopo la commissione del fatto, in modo da farne comprendere e accettare il senso a chi vi è condannato. Le condizioni teoriche ci vuole un attimo per immaginarle.

 

Cosa si può fare in concreto in questa direzione?
Non basta il testo e l’obiettivo che la norma sancisce, se non si hanno gli strumenti di attuazione pratica. Bisognerebbe aumentare le risorse che mancano al carcere.

Si potrebbe diminuire il ricorso alla pena detentiva, alla carcerazione, per ogni tipo di reato (politica di depenalizzazione). Più che chiudere in carcere servirebbero di più i lavori socialmente utili.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell’obiettivo evolutivo o rieducativo della pena?
Una relazione assolutamente professionale, senza coinvolgimenti. Si deve fare il proprio lavoro con coscienza e un distacco sufficiente
, tale da permettere di occuparsi di tutti i detenuti, visto che il loro numero è alto e il personale è poco (1 educatore ogni 300/400 detenuti).

 

Una pena che punti alla rieducazione non può prescindere dalla motivazione del condannato. Ma quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
L’ingresso in carcere è, sicuramente, il primo passo per far scattare la motivazione alla rieducazione! Gli strumenti che già ci sono possono risultare efficaci. Si potrebbero, poi, aumentare, all’interno e soprattutto all’esterno, le attività e le offerte per i detenuti, per stimolarli ulteriormente alla rieducazione.

C’è sempre, però, il rischio che la motivazione non sia autentica, soprattutto nei condannati per reati piuttosto gravi e non alla prima carcerazione.

 

A suo avviso esistono delle alternative alla pena?
Come dicevo prima, si potrebbe fare ricorso ai lavori socialmente utili e ad una riparazione sociale del reato, soprattutto per quelli meno gravi. Anche perché il ricorso indiscriminato alla carcerazione non riduce il crimine e la violazione della legge. Spesso, si verificano episodi di condanna a pochissimi mesi, a volte solo per il mancato pagamento di alimenti: in questi casi il carcere non ha neanche la possibilità di stabilire un contatto con queste persone, visto il loro breve periodo di detenzione.

 

Gli obbiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze di rilievo?
Entrambe dovrebbero tendere a prevenire la recidiva, anche se non mi pare che il sistema punitivo codificato ci sia riuscito, visto il numero di recidive
.

La punizione inflitta dai genitori è più spedita, immediata e più efficace; negli altri sistemi la procedura è molto più lunga e complessa.

In quella dei genitori c’è sempre il perdono, mentre in quella del sistema codificato il perdono non c’è quasi mai, in quanto, diversamente dall’ambito familiare, dove a punire è colui che è stato offeso e che può perdonare, vi è una scissione tra colui che commina la punizione e colui che, in qualità di offeso, potrebbe perdonare.

 

Le pare che possa essere utile il confronto fra queste due realtà?
Secondo me no, anche se la famiglia è una società costituita e una delle cellule più importanti della nostra società. Ma comunque i due sistemi sono molto diversi tra loro. Ci si dovrebbe rivolgere, più che altro, ai sistemi punitivi dell’era romana o greca; probabilmente, credo, che in quel periodo si potrebbe trovare qualche spunto per fare delle analogie tra le due realtà.

 

Nel tempo, le finalità e l’attuazione della pena hanno subito dei cambiamenti?
L’evoluzione è sotto gli occhi di tutti: da una pena corporale si è passati ad un concetto di pena scissa dalla sofferenza fisica. Inoltre si è dato spazio alla funzione rieducativa della pena.

 

Lei è a conoscenza di altre società dove gli obiettivi e l’attuazione della pena siano significativamente diversi che da noi?
Noi non ci occupiamo del diritto penitenziario comparato. Fortunatamente, perché, altrimenti, avremmo un senso di fallimento ancora più forte di quello che già abbiamo. Mi hanno parlato in maniera entusiasta del sistema spagnolo, e della facilità con cui vengono agevolati i contatti con la realtà esterna e la famiglia.

Mi sembra di ricordare che lì ci sia addirittura una “camera dell’amore”, organizzata all’interno dell’istituto penitenziario, dove la famiglia può trascorrere insieme, una volta al mese, parte della giornata. Penso che in Italia si potrebbe agevolare il contatto con la famiglia e con l’esterno, potenziando gli strumenti che già esistono, come l’istituto dei permessi premio, e ridurre le distanze, laddove possibile, dall’ambiente familiare. Basti pensare che ci sono famiglie che vivono ad una distanza di cinquecento chilometri dal carcere dove è detenuto il parente.

 

Mi sa dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere?
Mi ricordo che quando ero adolescente mia madre mi diceva “Ricordati che dopo te le devo dare” oppure “Ricordami che devo dirlo al babbo”. Non vedo perché avrei dovuto fare una cosa così “scema” e svantaggiosa per me!