Enzo Funari

Psicoanalista S. P. I.
Docente di psicologia dinamica

A cura di Livia, Silvia, Giò Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Destabilizzazione delle regole. Ingiustizia. Metodo considerato da alcuni pedagogico. Codice. Azione contro una trasgressione.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Ricordo punizioni scolastiche. Non ho avuto punizioni di particolare gravità fuori dalle punizioni scolastiche, per altro meritate.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
No, non credo di avere punito qualcuno.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
In ambito psicoanalitico non esistono atteggiamenti che vanno puniti, io rispondo dal mio punto di vista. Dal punto di vista di un cittadino si puniscono tutti i comportamenti ritenuti asociali.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Si prefigge qualcosa che con la punizione non ha effetto. Chi punisce si prefigge di trasformare l’atteggiamento che ha punito.

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato?
Che la punizione sia ampiamente documentata, spiegata, messa dentro a chi è stato punito circa le motivazioni che ha.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Molto spesso.

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo?
Ci sono punizioni che raggiungono lo scopo se vengono effettuate secondo i criteri sopra detti. Esempi specifici non ne ho.

 

E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
In base alla mia attività, posso dire che manca completamente il bersaglio una punizione che avviene senza che chi punisce si preoccupi della situazione di chi è punito. Questo avviene per quasi tutti i carcerati del mondo; ma avviene anche quando un bambino viene punito da un genitore che non ha un comportamento prevedibile  e omogeneo, nel senso di un genitore che punisce per fatti minori se a lui gira storta e poi sorvola su fatti più gravi.

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Mi viene in mente Artemisia Gentileschi e il suo bisogno di vendicarsi per lo stupro subito, raffigurando la decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta.

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
Dipende dai casi. In generale chi viene punito ha immagini di tipo persecutorio; a seconda dei casi, se la situazione non è quella giusta, egli sente di avere a che fare con un tiranno.

Chi punisce è una persona che ritiene di avere gli strumenti, talvolta onnipotenti, di potere agire da giudice. Più o meno, in maniera diversa, c’è sempre sotto una forma di sadismo.

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Sono di due tipi: se si sente nel giusto, nessun problema; poi in genere molti genitori provano uno stato di senso di colpa.

 

E un figlio che viene punito?
Un figlio che viene punito sviluppa una fantasia di risarcimento.

 

Che rapporto c'è fra punizione e potere?
C’è un rapporto diretto. In particolare se il potere viene inteso semanticamente, non solo come il fatto che uno dirige la questione, se il potere punisce nel senso che è una posizione di difesa della propria posizione, c’è un rapporto di profonda ingiustizia.

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
Con una forma autoritaria.

 

Quali obiettivi persegue il potere con la punizione?
Di eliminare le minacce nei propri confronti.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
Sì, la pena è agita con una forma diversa rispetto la punizione, anche temporalmente. La punizione può essere solamente un rimprovero, invece la pena si materializza anche in una situazione che può durare nel tempo.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla Legge?
Di rispettare le normative vigenti, anche se questo non sempre avviene.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
No, secondo me, per la stragrande maggioranza dei casi questo non avviene. Per il motivo che viene assegnata una punizione senza che poi sia accompagnata se non dal colpo di martello del giudice, non c’è una vera e propria spiegazione della pena inflitta, c’è una difesa e c’è un’accusa, ma l’accusa non spiega il perché e il per come della pena e la punizione non ha effetto.

 

Cosa si può fare in concreto affinché aumenti la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Non so rispondere. I tentativi fatti dalla psicologia sulla giustizia non hanno mai avuto esito soddisfacente.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell'obiettivo evolutivo orieducativo della pena?
Sarebbe importante potere creare delle relazioni che travalicano il fatto della punizione e della detenzione attraverso una relazione che permetta al punito di cogliere un’identificazione con colui che è in relazione con lui. Aumenta la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo se chi è punito può trovare nell’operatore una sorta di empatia.

Io la vedo dal mio punto di vista: se l’altro non ha l’idea che chi ha di fronte si metta nella sua pelle per potere capire cosa lo ha condotto a compiere la trasgressione, è difficile che si attui una trasformazione.

Qui si sta parlando continuamente di pena e punizione senza tenere conto che pena e punizione, senza degli atti che diano la possibilità di attuare una trasformazione emotiva, affettiva del condannato, non possono consentire al condannato di evolversi. Se non si tiene conto di questo, il condannato in questione manterrà il suo vissuto di ingiustizia, che molto spesso è di tipo narcisistico, un condannato magari sa benissimo cosa ha commesso, ma vede ritorcere contro di sé qualcosa che sente simmetrico a quello che lui ha fatto.

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Il giudice ha la motivazione di fare seguire la legge, poi la legge può essere interpretata, di volta in volta, più o meno bene. C’è una distanza enorme tra il giudice e l’operatore, tra l’operatore e il condannato. Talvolta il condannato può vivere l’operatore come un’emanazione del giudice. E questo avviene anche in analisi: una delle maggiori paure dei pazienti che vengono in analisi è quella di potere essere puniti per ciò che portano durante il trattamento.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, lei ritiene che ce ne siano alcuni che sono più conformi allo scopo?
Data la situazione di molti istituti penitenziari (sovraffollamento, ecc.), credo sia quasi impossibile procedere in maniera soddisfacente in processi del tipo di cui abbiamo parlato, tranne in situazioni privilegiate.

 

Una pena che punti alla rieducazione non può prescindere dalla motivazione del condannato. Quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
Nella maggioranza dei casi non si tiene conto che la pena deve tendere all’evoluzione del condannato; non lo fa nemmeno l’avvocato difensore che è troppo assorbito dal suo narcisismo di potere vincere la causa. Insomma, occorre un’uscita dai reciproci narcisismi e l’operatore deve essere colui che ha gli strumenti, che per primo affronta il problema del condannato per capirne i motivi, le motivazioni, la storia. E’ solo il sentirsi compreso che può generare un cambiamento interno. Altrimenti chi è punito, a torto o a ragione, mantiene sempre una sua ferita narcisistica. Anche se socialmente non la si capisce, ma da un punto di vista psicologico questo avviene.

Chi trasgredisce spesso, non parliamo delle trasgressioni dell’adolescente, nel momento in cui commette la trasgressione si sente in una situazione di potere calmare, in una qualche maniera, i vissuti devastanti che ha dentro. Pensate alle decisioni improvvise di madri e padri che uccidono i figli.. erano così brave persone, certo! La questione è che dopo anni di accumulo di piccole cose, quasi invisibili, si arriva ad una soglia in cui avviene l’atto, l’agito compulsivo. Questo è all’ordine del giorno.

Spostandoci in un ambito diverso da quello della punizione, prendiamo chi lavora nell’ambito dell’affidamento, siamo in una situazione molto spesso disastrosa, ognuno è convinto di potere avere in mano la soluzione senza tenere conto di quale sia il problema del bambino, la lotta avviene tra gli operatori e i genitori. Vengono fatte cose da fucilazione; non tutti, ma tanti operatori hanno un comportamento inadatto.

 

A suo avviso, esistono delle alternative alla pena?
La pena ci deve essere, una persona non può compiere trasgressioni di una certa entità senza che esista una pena, il problema è che la pena deve entrare in una struttura trasformativa che non è decisamente di competenza dei magistrati.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
La legge si trova di fronte a persone che hanno avuto una storia familiare estremamente disgraziata, che le hanno portate a delinquere o a deviare in maniera significativa e quindi esiste un collegamento con la punizione che poi gli viene inflitta dalla legge.

Il delinquente è una persona che da bambino ha assorbito dentro di sé una tale distruttività (non aggressività, ma distruttività) che si costruisce dentro una situazione di risarcimento molto difficile da superare perché è l’unica ricchezza che ha. Sul carattere delinquenziale anche la terapia non ha una grande presa, perché la proiezione è di trovarsi di fronte a qualcuno che vuole modificare il suo comportamento reattivo giustificato dalla disgraziata infanzia che ha subito. Ed è quasi granitica questa situazione, è vicina a quella psicotica.

Una ricchezza è un modo di sentire che non può essere sostituito da un altro, tanto è forte. Se ad una persona togli la possibilità di potersi vendicare, il vissuto che gli rimane è di non avere niente dentro di sé. Ad esempio, se si fa la terapia ad una persona molto povera, troviamo che il senso di povertà e di emarginazione è talmente forte che diventa l’unica ricchezza che uno ha per giustificare il proprio comportamento. Se ci troviamo di fronte ad un vero delinquente, ad un carattere delinquenziale, la maggior parte delle situazioni, di tentativi di modificazioni vengono vissuti come l’essere derubati di ciò di cui la persona si è appropriato o ha fatto come risarcimento per ciò che ha subito, quindi, lo ripeto, dell’unica ricchezza che ha.

Il delinquente vero, in ambito clinico, lo si può individuare per l’assoluta incapacità di introiettare qualcosa di diverso dalla sua organizzazione mentale. In questo senso abbiamo a che fare con un tipo di psicosi. Sappiamo che le psicosi gravi hanno l’impossibilità di attuare il transfert, il vero delinquente non riesce ad attuare il transfert perché lo vive come un calare le braghe di fronte ad una situazione. Ha una mancanza di strumenti psichici.

Per fare degli esempi: i reati gravi sono compiuti da persone che non sono delinquenti ma delinquono; è difficile sostituirsi alla droga, la droga rappresenta uno strumento onnipotente per risolvere i problemi che nessun altro essere umano può sostituire. Ma dipende sempre dal grado delle cose. Se nel gruppo della trasgressione ci sono tossicodipendenti non sono delinquenti del tipo che dico io. Già il fatto di aderire a un gruppo vuol dire che c’è una parte della persona che è motivata al cambiamento.

C’è molta relazione tra la trasgressione grave, di drogati gravi, e un tipo di psicosi, più di quanto non si creda. Come nella psicosi, il nucleo onnipotente primario che non ha avuto soddisfazioni ha generato la psicosi e si è sostituito a qualsiasi tipo di relazione, così per il drogato grave, non per quello che partecipa ai gruppi, perché quello non è catturabile. Solo il fatto che una persona sia presente, indica che non fa parte di questa categoria. Il conflitto è la manifestazione di un potenziale cambiamento. Il delinquente puro non ha conflitti.

Nei film i grandi delinquenti, il nemico numero uno, Al Capone, non hanno possibilità di trasformazione perché trovano nella realtà una possibilità di espletare la loro rabbia, le loro fantasie sadiche. Se togli a loro quello, perdono la ricchezza di cui parlavo prima.

 

In particolare, gli obiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze di rilievo?
L’obiettivo della legge è quello già fissato dalla normativa e si ferma li: hai fatto questo, devi subire questo. Mentre i genitori spesso con la pena e la punizione, tranne per quei genitori che creano degli psicotici, hanno, anche se talvolta non funziona, lo scopo di cambiare il comportamento dei bambini.

 

Nel tempo, le finalità e l'attuazione della pena hanno subito dei cambiamenti?
Sì, senza dubbio. I cambiamenti sono stati positivi. Adesso si tengono più presenti le condizioni di chi viene condannato. C’è stato un cambiamento, il fatto solo che voi venite a parlare di queste cose ne è un indice.

 

Lei è a conoscenza di altre società dove gli obiettivi e l’attuazione della pena siano significativamente diversi che da noi?
Certamente! I regimi di tipo strettamente autoritario in cui il problema è quello di eliminare il contrasto, la legge vigente. Le società è inutile che le stia ad elencare. Alcuni stati americani in cui c’è ancora la pena di morte, che è una cosa tragica, che tra le altre cose, è attesa della morte più che attuazione della pena di morte, c’è gente che rimane 15 anni dentro un braccio della morte.

 

E per concludere, mi sa  dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere?
Mi viene in mente una famosa frase di Freud dove il lunedì mattina il condannato al capestro avviandosi verso la condanna dice: Certo che comincia bene la settimana!