Luca Fonnesu

Docente di Filosofia morale
Università degli studi di Pavia

 

A cura di Luca Raineri Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Dolore, potere, dipendenza, autorità, prevaricazione.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Per ora –almeno- ho subito solo delle punizioni di tipo familiare quando ero bambino (a parte naturalmente le sanzioni amministrative, le ammende...). Ne ho avute molte perché sono stato educato in modo molto rigido, per cui la punizione è qualcosa di abbastanza presente nella mia infanzia. Sono stato punito fisicamente, nel senso che sono stato schiaffeggiato vigorosamente per il fatto di avere tirato un sasso a mia sorella. Ero bambino, avrò avuto 6 o 7 anni.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Si intende soltanto esseri umani? Io vivo con i figli di mia moglie, e naturalmente con i bambini succede con una certa frequenza di avere il dovere di punire. Non punizioni fisiche, però.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
Avrei delle perplessità sul punire un’attitudine. Certo, per esempio la volontarietà di un comportamento o l’atteggiamento esplicitamente trasgressivo di un comportamento è qualcosa che induce a ritenere opportuna la punizione.

 

E quale atteggiamento, invece, manca o è carente nella persona che si ritiene di dover punire?
Potrebbe essere l’indifferenza alla determinata norma di quel codice (in senso lato: potrebbe essere un codice etico, o giuridico, o comportamentale, o la semplice etichetta...) che viene ignorata.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Ho una concezione preventiva della pena: cioè lo scopo è che determinati comportamenti non abbiano a ripetersi più.

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato?
Forse la certezza della punizione.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Sicuramente sì: modelli di educazione particolarmente repressiva o un codice penale particolarmente repressivo possono esercitare un effetto contrario a quello che si desidererebbe.

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo?
Non saprei il grado di concretezza dell’esempio che devo riferire. Comunque si tratta di una punizione che sia commisurata alla trasgressione, che sia certa e che sia compresa da chi la subisce, compresa nei suoi tratti essenziali e magari condivisa nei suoi principi.

 

E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
Dipende dalla mancata comprensione dei principi in base a cui la pena viene comminata. Se si commette una trasgressione senza sapere di farla e non si capisce perché si tratta di una trasgressione invece che di un altro tipo di atto, certo la punizione manca il suo fine.

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Il modello base delle punizioni, se si esce dal diritto penale, è quello familiare: e dunque i genitori e i figli, in seguito ad una trasgressione commessa dai figli nei confronti della norma dei genitori; per esempio quando un figlio picchia un altro figlio.

 

Mi può descrivere almeno un altro “quadro tipico della punizione”?
Un giudice che commina una sanzione o una pena. O, se vogliamo presentarci un quadro meno impegnativo, un vigile urbano che dà una multa.

 

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
Dipende troppo dal contesto e dalla disposizione psicologica dell’individuo che viene punito. È chiaro che se uno viene punito ingiustamente per un qualsiasi motivo... (mi viene in mente un famoso passo di Rousseau in cui egli racconta che era stato rimproverato di aver sottratto qualcosa che invece non aveva sottratto, e questo ha segnato la sua intera vita). Credo dipenda troppo dal contesto e da quanto si ritengano corretti i principi in base ai quali si viene puniti: per fare un altro esempio, nella Germania del terzo Reich un cittadino tedesco che aiutava un cittadino ebreo a nascondersi violava sicuramente una norma.

Vale lo stesso per il punitore. Il punitore può essere anche semplicemente un sadico, oppure può essere qualcuno che è soddisfatto della propria autorità (si va dagli arbitri di calcio a un giudice in un aula di tribunale).

 

Quali sentimenti, quali fantasie vive chi punisce?
Ancora è molto vario. In linea generale si può considerare o espressione di una norma impersonale, come semplice “emissario” di una norma nella quale crede; oppure può anche vivere fantasie considerate di solito moralmente negative, per esempio, il sadismo, o l’abuso del proprio potere, che è una costante di questo genere di atteggiamenti.

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Beh, io sono un genitore adottivo, diciamo sono un “genitore facente-funzione”, però certamente credo di vivere le stesse sensazioni ed è un tema sul quale con altri genitori si discute. È certamente questo uno stato d’animo contraddittorio, diciamo che da una parte si ritiene di dover punire, dall’altra –siccome la punizione è sostanzialmente sempre portatrice di sofferenza- si ha anche un dolore nel dover punire, e quindi un rincrescimento. Questo per quel che concerne i genitori, ma è un modello che potrebbe essere esteso.

 

E un figlio che viene punito?
Probabilmente anche in questo c’è una condizione psicologica complessa. Se si ritiene di essere puniti giustamente ci può anche essere il riconoscimento della correttezza della punizione. Credo che quasi invariabilmente ci sia anche una componente di risentimento verso chi punisce, perché la punizione è una cosa che avviene comunque dopo che il danno è stato fatto e quindi il nuovo danno non toglie l’esistenza del danno precedente.

 

Che rapporto c’è fra punizione e potere?
È un rapporto strutturale: può punire soltanto chi ha un certo tipo di potere. Dipende naturalmente da quale tipo di potere si possiede “quanta” punizione si possa comminare. Però è un rapporto ineliminabile, non esiste una punizione senza qualche forma di potere: può essere anche un potere di tipo psicologico...

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
È difficile pensare a rapporti intersoggettivi organizzati senza qualche forma di punizione. Per cui è anche difficile tracciare il confine: ci sono sicuramente delle forme di potere di tipo illegittimo che non dovrebbero poter punire, bisognerebbe fare l’elenco... Però credo che la compatibilità coincida con la legittimità del potere che si ha rispetto al soggetto che si intende punire.

 

Quali obiettivi persegue il potere con la punizione?
Obiettivi diversificati, che corrispondono a diverse concezioni della pena:

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
Senz’altro sì: la pena è un tipo molto specifico di punizione, se intendiamo la parola nel suo corrente uso giuridico, che è un uso molto specifico: nessun genitore commina pene, e la punizione che può essere inflitta da un genitore ha delle finalità molto diverse da quelle molteplici che si possono attribuire alla pena giuridica, pur nella sua varietà. Anche pena e sanzione sono termini diversi: nella vita di una persona ci può essere una determinata rilevanza attribuibile a una pena, mentre è molto più raro che ci sia la rilevanza di una sanzione nella vita di una persona; credo che la maggior parte dei cittadini abbiano subito una qualche sanzione amministrativa.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla Legge?
È un argomento molto discusso. I due principali indirizzi che danno modelli giustificativi della pena sono quelli che pensano la pena come qualcosa di preventivo e dissuasivo, e quelli che pensano la pena come qualcosa per cui si debba riparare dato che si è colpevoli di un determinato atto: è la cosiddetta concezione retributiva della pena. Se si vuole sono uno un modello relativo e l’altro assoluto, dove nel secondo caso si vede nella colpevolezza qualcosa di assoluto che deve essere riparato e dunque un equilibrio che deve essere restaurato.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
Rispondo con grande difficoltà. Innanzitutto bisognerebbe capire quali sono gli scopi autentici della pena e poi vedere che tipo di comportamenti si attuano su un lungo periodo in base al funzionamento di un determinato codice penale. In genere non saprei dire se la punizione raggiunge lo scopo per la quale viene assegnata. Se lo scopo è una generale prevenzione degli atti criminali bisognerebbe vedere all’interno di determinati contesti giuridici specifici di diritto positivo la presenza o meno di un certo tipo di criminalità, che però ovviamente dipende anche da altri fattori.

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
È molto difficile generalizzare, ma direi che questo mi riporta a una domanda che avevamo già visto: le posizioni possono essere molto diversificate, sia in un caso sia nell’altro. È probabile che ci sia una varietà di attitudini e una varietà di motivazioni, dal giudice che pensa di compiere il proprio dovere esercitando la sua giurisdizione penale, al giudice che magari –pur comminando delle pene eque- abbia una esperienza psicologica personale per la quale vive la soddisfazione del proprio potere nel compiere questo che è comunque un suo dovere.

Anche per quel che riguarda gli operatori la situazione è diversificata, perché ci sono guardie carcerarie, ma anche insegnanti che possono lavorare nelle carceri, operatori di tipo sociale, persone che fanno attività culturali all’interno delle carceri... mi sembra che tutte queste figure abbiano sicuramente delle motivazioni diverse. Ho una certa perplessità quando si parla di motivazioni dell’agire poiché non sono convinto che siano così trasparenti. Questo lo diceva già Kant, ma figuriamoci se dopo due secoli di ricerche sulle motivazioni dell’agire e sulla psiche possiamo pensarlo.

 

Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
Non credo che esista una pena ideale, in quanto come ho avuto modo di accennare in precedenza la pena porta con sé sempre strutturalmente della sofferenza, quindi idealizzare la sofferenza mi sembrerebbe proprio fuori luogo.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, lei ritiene che ce ne siano alcuni che sono più conformi agli scopi che abbiamo detto?
Dipende dal tipo di reato di fronte al quale si viene messi: troverei controintuitivo e peculiare se in presenza di un omicidio volontario si parlasse di una sanzione amministrativa, come troverei altrettanto controintuitivo e discutibile se di fronte a un infrazione del codice della strada si passasse a delle pene detentive. Credo che dobbiamo parlare di pene diversificate e proporzionate al tipo di reato.

 

Ha dei suggerimenti per andare in questa direzione, ovvero per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Probabilmente una certezza di equità dei processi, tempi ragionevoli dei processi, condizioni di detenzione che corrispondano ai principi fondamentali della dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Ma non vorrei passare per quello che non sono: la pena nasce prevalentemente per motivi di ordine sociale, e così la trasgressione: quindi sicuramente il problema della pena potrebbe essere affrontato in un altro modo, se si affrontassero le cause dei comportamenti trasgressivi. È una vecchissima tesi, non è una tesi che invento io e non saprei se si possono sostenere le cosiddette posizioni abolizioniste per quanto riguarda il carcere, mi lascia perplesso la loro sensatezza teorica. Non vorrei che per sostenere posizioni radicali non si vada incontro alla soluzione dei problemi concreti che ci sono nel comminare la pena.

 

Cosa si può fare in concreto in questa direzione?
In concreto sicuramente c’è un banale ma notevolissimo problema di finanziamento della cosiddetta “macchina della giustizia”. Certo, probabilmente bisognerebbe anche cercare di diffondere una cultura giuridica di un certo tipo: per esempio l’idea che non si possa torturare nessuno, l’idea che non si possa condannare a morte nessuno non sono idee accettate da tutti, anzi talvolta assistiamo addirittura a delle esibizioni di posizioni contrarie. Ecco, credo che non si possa fare una riflessione pacata su questi argomenti quando poi ci troviamo con questi cosiddetti atteggiamenti “forcaioli”, che denunciano una certa ignoranza di cultura giuridica. Quando si chiede a qualcuno se sarebbe contrario alla pena di morte nel caso-limite di una violenza privata su un familiare,,, è un esperimento mentale che ritengo ebete, nel senso che il diritto penale nasce proprio per mettere fine alla vendetta privata.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell’obiettivo evolutivo “rieducativo” della pena?
Ho qualche perplessità su questo termine, perché credo che il diritto non si debba occupare di quanto le persone sono buone, anche se non posso che apprezzare i passi in avanti che ha fatto compiere questa prospettiva (penso alla legge Gozzini), che ispira l’articolo 27 della Costituzione: ha un matrice di tipo cattolico, pertanto si occupa anche di questo aspetto del vivere morale. Se però l’obiettivo rieducativo, o se preferiamo “evolutivo”, della pena consiste nell’accesso a strumenti di realizzazione di sé stessi, di controllo della propria vita, che non si era avuto modo di utilizzare precedentemente, questo potrebbe essere senza dubbio un elemento positivo. La possibilità di acquisire strumenti culturali, attitudini, capacità nel corso della pena, potrebbe essere un elemento di miglioramento, così come la possibilità di contatti con il mondo esterno al carcere: oggi se ne parla in senso negativo, senza tenere conto che ci sono moltissime persone che quotidianamente si avvalgono di queste possibilità, la maggior parte delle quali non compie nuovamente reati.

Nella relazione fra operatori e condannati è molto difficile generalizzare. Intendendo come operatori prevalentemente quelli preposti alla sorveglianza quotidiana, diciamo all’aspetto più repressivo, è chiaro che questa relazione dovrebbe essere intitolata a una forma di rispetto (ho richiamato prima un po’ enfaticamente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo). Ma credo che questa situazione effettivamente sia rarissima all’interno degli istituti penitenziari, anche perché il problema del trattamento dei detenuti viene spesso percepito come un problema che riguarda esclusivamente persone che si dà per scontato che debbano essere punite e che dunque debbano soffrire.

 

Una pena che punti alla rieducazione può prescindere dalla motivazione del condannato?
È uno dei motivi per cui prima dicevo che sono restio a parlare di motivazione: certo no. Motivazione è un termine molto lato: se se ne parla in senso morale sono perplesso, se invece la si intende come disponibilità del condannato a modificare le proprie caratteristiche, per esempio nell’acquisizione di capacità o strumenti culturali, credo che almeno da questo tipo di motivazione non si possa prescindere (anche se ci può benissimo essere un condannato che non ha nessuna intenzione di servirsene).

 

Ma quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
Direi che la condizione essenziale consiste nel far capire (e anche qui non saprei indicare con maggior precisione i mezzi per farlo) al condannato che l’acquisizione di queste conoscenze e di queste capacità potrebbe migliorare la sua qualità della vita, tanto in carcere quanto al termine della sua pena detentiva.

 

A suo avviso esistono delle alternative alla pena?
Per certi tipi di reato possono sicuramente esistere, ed esistono attualmente: per esempio la possibilità di espiare la pena in strutture alternative, in determinati centri o comunque al di fuori del carcere, e credo che per determinati reati (commisurati sulla cosiddetta “pericolosità sociale” del soggetto in questione e sull’entità del reato) questo sia una cosa positiva.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Non c’è dubbio che potere, autorità e dolore sono tutti elementi comuni.

 

In particolare gli obbiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze di rilievo?
Ci sono sicuramente tratti in comune, come l’idea della prevenzione ai fini della rieducazione e del bene della persona punita, almeno da un punto di vista della concezione dissuasiva-preventiva della pena.

 

Le pare che possa essere di qualche utilità il confronto fra queste due realtà?
Questo confronto può diventare fuorviante se si estende l’analogia oltre un certo limite. Ma può essere utile se ci fa capire certi elementi della pena, come ad esempio il rapporto col dolore e il rapporto con l’autorità, che effettivamente non c’è nulla di scandaloso nel considerare come elementi comuni all’esperienza di ognuno.

 

Nel tempo, le finalità e l’attuazione della pena hanno subito dei cambiamenti?
Non sono un ottimista e non credo troppo nel progresso, ma in questo caso direi di sì. L’esistenza stessa del diritto penale è qualcosa che segna un progresso rispetto alla semplice vendetta privata. Tant’è vero che anche nel nostro paese ci troviamo talvolta di fronte a contesti, pensiamo alle lotte di gruppi di criminalità organizzata, dove la vendetta privata sostituisce il diritto penale. Sicuramente le acquisizioni della civiltà giuridica nel tempo credo che siano un segno di modificazione profonda nella concezione della pena: lo stesso articolo 27 della Costituzione segna una certa attenzione alla personalità del condannato.

 

Lei è a conoscenza di altre società dove gli obiettivi e l’attuazione della pena siano significativamente diversi che da noi?
È ampiamente noto che ci sono culture, società, paesi in cui non esiste neppure l’idea di diritto penale, dove manca l’idea di garanzia giuridica e probabilmente di soggetto giuridico (pensiamo ad esempio alle donne), e in cui comunque l’intero impianto della pena è costruito su principi giuridici completamente diversi dai nostri.

 

Mi sa dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere?
È una cosa che può sembrare molto truce... quando mio figlio fa qualcosa che non va io gli dico che gli spacco la mandibola, e lui si diverte un sacco.