Battere la paura della morte

Marta Sala

01-04-2004  

Lunedì abbiamo giocato con un altro quadro: “Il figliol prodigo” di Rembrandt.
Nessun altro quadro sarebbe risultato più adatto di questo in un momento difficile come quello che il nostro gruppo sta vivendo. Il Professor Zuffi si è stupito nel vederci tutti concentrati sui personaggi sulla destra del quadro. Diversamente da quello che accade di solito, infatti, il gruppo ha sviluppato una forte identificazione con le figure che sentono tradita la loro devozione e lealtà e ha vissuto una emozione tanto intensa quanto problematica di fronte al gesto del perdono incondizionato del padre.

Sulla tela è facile notare una doppia separazione tra le figure:

 

Ognuno di noi ha poi riassunto la propria personale lettura del quadro.

Nella mia c’è la morte, rappresentata dalla figura meno dettagliata delle altre, che pare uscire da una caverna per chiamare il vecchio alla resa dei conti. Mi immagino una manina nera che dal buio si muove e cerca di afferrare il mantello dell’anziano tirandolo verso sé. Ma lui oppone resistenza perché non vuole lasciare la vita. Ha ancora tante cose da fare, tanti errori cui rimediare, tante persone a cui chiedere scusa.

Così si aggrappa alla vita, al ricordo della sua giovinezza rappresentata dal giovane inginocchiato. Nella mano dipinta come più levigata, più giovane (vista dai critici come una mano femminile, a simboleggiare che Rembrandt ha svolto per il figlio morto sia il ruolo di padre che di madre), io vedo la mano che con più forza afferma la voglia di vita, mentre l’altra mi sembra quasi rassegnata al destino che l’aspetta.

Molto suggestiva l’interpretazione che Silvia dà delle figure marginali: dietro, nascosti, il rancore e il pettegolezzo, che lavorano nell’ombra, alle spalle di tutto. Il personaggio seduto le suggerisce la sfiducia che talvolta ci coglie e ci lascia senza forze ad affrontare i problemi, rendendoci perdenti in partenza.
La figura in piedi per Silvia è il simbolo di Dio, con il suo volto misericordioso e la sua stazza imponente. A me invece sembra l’orgoglio, quel sentimento che ci impedisce di chiedere scusa quando siamo in torto, o di perdonare quando siamo stati colpiti.

L’interpretazione che più m’ha colpita è stata però quella di Marcello. Lui vede nelle tre figure le tre stagioni della coscienza del padre: dietro c’è il padre che ha sbagliato, che ha commesso errori nei confronti del figlio, quel padre che col suo comportamento ha indotto il giovane a scappare di casa abbandonandolo; seduto c’è il padre che attende che il figlio torni, ma che non sa cosa fare e non riesce ancora a capire il motivo per il quale il figlio si è allontanato dal tetto familiare; in piedi c’è invece il padre che ha compreso i motivi reali della fuga e che riesce anche a capire i propri errori.

E finalmente, il padre attuale, pronto ad accogliere di nuovo il figlio tra le sue braccia, proprio perché nel tempo e nella distanza entrambi hanno riflettuto sugli sbagli commessi. Quell’abbraccio suggella il ricongiungimento, il perdono dell’altro e di se stesso per battere la paura della morte.