Un ritorno

Christian Stocola

24-11-2008  

Una volta al gruppo si era parlato del ritorno del figliol prodigo, commentando un quadro. Io quella volta non dissi nulla, ma adesso, rileggendo la parabola, mi viene voglia di scrivere qualcosa su uno dei miei ritorni.

Il 2 agosto 2006, dopo 3 anni di detenzione, fui scarcerato beneficiando dell’indulto. Quel giorno stesso mi incamminai verso casa di mio padre. Lungo il tragitto, continuavo a chiedermi se fosse giusto tornare a casa. La domanda mi sorgeva spontanea, ma sapevo che la risposta non era libera, dato che non avevo altro posto dove andare.

Arrivato al cancello del cortile avvertivo l’insicurezza, percepivo la presenza di papà, avevo persino paura di citofonare, e per questa paura attesi l’arrivo di qualcuno che aprisse il cancello. Una volta entrato in cortile, mi avviai verso il portone, sperando di trovarlo aperto come lo era sempre stato. Quello che speravo un attimo prima si avverò. Dunque entrai nell’atrio delle scale e mi fermai a chiamare l’ascensore. Attesi qualche minuto che arrivasse. Giunto l’ascensore, decisi di farmela a piedi, tanto abitavo al secondo piano e le scale da fare non erano molte. Le salivo con l’agilità di un nonnino di 80 anni. Gradino dopo gradino, sentivo la paura aumentare sempre di più. Insieme a quella sensazione, però, cresceva anche il desiderio che, qualunque fosse stata la sua reazione, una volta entrato da quella porta, nessuno sarebbe riuscito a buttarmi fuori.

Sì, avevo paura che mio padre non mi aprisse la porta. Molte volte durante i colloqui era capitato, infatti, che mi dicesse di non volermi più a casa. In effetti, già una volta non mi aveva accettato, ma io quella volta non potevo oppormi perché ero in carcere. Ma questa volta ero lì.

Arrivato davanti alla porta di casa, provai ad aprirla senza neanche bussare. Si aprì. Entrai in casa e, appena mi vide, sbiancò di colpo e subito mi disse: “E tu cosa ci fai in questa casa?!”. Con quella sua mezza domanda e mezza affermazione ebbi la certezza di essere passato dalla padella alla brace.

Non era vero che non avevo altro posto dove andare! Una volta uscito dal carcere, potevo benissimo andare da un amico che non mi avrebbe detto di no. Il motivo vero per cui ero voluto tornare a casa, fondamentalmente, è lo stesso che ancora oggi mi porta verso di loro, ovvero la voglia di riappropriarmi del ruolo di figlio.

Quando penso al mio comportamento, lo paragono al modo di fare di una fidanzata, di una moglie che, consapevole della rabbia, della cattiveria e dell’odio manifestati dal suo compagno, se ne innamora sempre di più, perché sa che dentro quell’uomo possono dimorare in ugual modo sentimenti d’amore, di affetto e di dolcezza.

Sperando sempre di riuscire a farglieli scoprire, perché forse nemmeno lui sa di possederli…