Odoacre

Silvia Casanova

  13-05-2006
 

Resta nei miei occhi, che si sgranavano come pannocchie al sole, il suo arrivo. Lui tornava di sorpresa, forse perché al tramonto l’aria era più fresca e lui cercava riparo e cibo. Oltrepassava il muro di confine, i tralci dell’uva americana, l’abete che profumava di resina e arrivava vicino a me.

Io stavo seduta, come una bambola di pezza, ad annusare l’odore dell’estate che arrivava e a separare i chicchi buoni da quelli cattivi di cataste di pannocchie mature; in silenzio, accanto al mio bisnonno. Mi piaceva sgranare le pannocchie, sfidarne la durezza dei chicchi con i polpastrelli, vedere lo sguardo di mio nonno che faceva la stessa cosa vicino a me sorridendomi pacato. Ci si voleva bene in silenzio, scambiando sguardi soddisfatti per il lavoro. Io portavo un cappellino per il sole, quella era l’unica regola che il dolce nonno pretendeva fosse rispettata.

Solitamente piccioni e uccellini scendevano a terra per rubacchiare un po’ del nostro lavoro. Uno di loro, una volta, si fermò un po’ più degli altri. Si avvicinava e io lo guardavo trattenendo il fiato per paura di farlo scappare. Il giorno dopo, e dopo quello un altro, il piccione temerario mangiava e poi si fermava a curiosare nel giardino. Sembrava gradire la compagnia silenziosa del nonno e la mia curiosità. Mi piaceva guardarlo becchettare; a volte si avvicinava così tanto che potevo vederne le palpebre sbattere. Inclinava il capino mentre lo fissavo cercando di imitarne il verso. Lui era goffo, un po’ cicciotello, non più bello degli altri. A me sembrava più simpatico e avrei voluto che restasse sempre con me nel mio giardino.

Pensai che non gli avevo dato un nome. Come avrei fatto a chiamarlo? Avrei voluto trovare un nome che lo rappresentasse un po’; i miei occhi lo vedevano goffo ma coraggioso nel suo sforzo di avvicinarsi ogni giorno un po’ di più alla mia mano. Meritava un nome importante. Optai per il nome di un re longobardo: Odoacre. Gradualmente facemmo amicizia; ormai i chicchi di grano se li veniva a prendere direttamente dalla mia mano e ogni notte lo spiavo mentre si addormentava vicino a una catasta di legnetti che aveva ammucchiato accanto al muro del garage.

Una mattina il nonno mi fece trovare una sorpresa: la vecchia gabbia per i polli che ormai non c’erano più da tempo era stata ripulita e dotata di vaschetta per l’acqua, cotone, rametti e una scorta di chicchi. “Però la lasciamo sempre aperta, così lui può andare e venire” mi aveva detto il nonno. Io ero così contenta che avrei accettato a qualsiasi condizione. In effetti la teoria del nonno funzionava: di giorno Odoacre giocava e mangiava con me, si lasciava accarezzare, mi seguiva borbottando il suo verso; la sera lo vedevo sparire ma la notte spiavo se fosse nella sua gabbietta aperta e lo trovavo accovacciato sul cotone.

La primavera successiva fece sentire al mio Odoacre l’esigenza di arricchire il suo nido: tutto il giorno portava avanti e indietro dei rametti che adagiava ordinatamente vicino al cotone. Il resto del tempo lo passava ad azzuffarsi con gli altri sulla tettoia; io lo sgridavo dal basso. Tornava sempre con qualcosa di rotto: un’ala, una zampina ferita. Il mio nonno mi insegnava a curarlo; lo tenevo in braccio e lo medicavo. Mi arrabbiavo ma gli baciavo la testolina.

Un giorno capii che Odoacre si era innamorato; era una tortorella bianca con delle macchie nere. Oggi penso che fosse molto bella ma allora non la vedevo proprio così. Fecero le uova; lui covava, lei tubava sul cornicione. Io le tiravo dei sassetti e curavo i monconi delle zampette del mio Odoacre che lottava per difendere le sue uova.

Lei dopo poco sparì, lui continuava a covare, chiuso nella gabbia aperta. Portava rametti su rametti zoppicando nel cortile e volando sempre meno. La mia fantasia lo vedeva triste e solo e forse un po’ si sentiva davvero così. Quelle uova non si schiusero mai. Odoacre girava nel giardino, volava attorno, stava fuori la notte. Forse cercava la sua compagna.

Un giorno lo trovai a pelo d’acqua in un catino che la mia nonna metteva quasi ogni giorno in giardino; era l’acqua di scolo della pasta che veniva tenuta per darla al terreno dell’orto.

Qualche anno dopo ho conosciuto Cosimo e gli ho raccontato la storia del mio Odoacre. Lui si è informato sulle possibili cause di quello che io avevo ipotizzato essere un suicidio. L’ipotesi era in effetti azzardata ma mi ha offerto un'altra spiegazione dopo aver sentito un’esperta: è possibile che Odoacre abbia cercato ovunque la sua compagna e non trovandola abbia tentato anche in quel catino che aveva sempre evitato.