Fuori: identità e appartenenza

Mariella Tirelli

23-06-2007  

In carcere perdiamo il filo della vita… uscire non è la libertà… io ho paura della libertà, non ho paura degli altri, ma di me stesso”. Queste, le considerazioni di un detenuto al Gruppo della trasgressione, un giorno in cui si parlava di identità e di appartenenza.

Il detenuto, frequentando il Gruppo, impara che la libertà, la fine di ogni malessere per tanti suoi compagni, può essere più emarginante del carcere. Le regole scritte e non scritte del carcere si imparano in fretta, così come in fretta si riconoscono le persone e le  situazioni da cui guardarsi. Nel carcere si perde il senso della vita, ma ci si può scavare un buco nel quale trovare riparo. E’ un buco, ma ha confini e odori conosciuti. Le giornate scorrono secondo ritmi scanditi da altri e tese ad un unico obiettivo, il cui contenuto diventa evanescente e sul significato del quale si finisce per non riflettere più: la liberazione, la libertà.

Il detenuto che non si è rassegnato alla tana e ha frequentato il Gruppo della trasgressione ha qualche consapevolezza in più, qualche illusione in meno e un impegno cui rispondere: continuare ad elaborare dentro di sé, trasformandola in un sostegno per la vita, la cultura del Gruppo.

La libertà oltre le mura del carcere è uno spazio immenso, è luce abbagliante, ma il detenuto ha imparato a muoversi in spazi angusti, a cercare le cose nella penombra; quando torna libero, e solo, magari sa lavorare, ma non sa a chi chiedere lavoro; se non ha una casa, deve decidere alla porta di chi bussare.

 

 

Davanti al portone dell’Istituto, ci sarà qualcuno in attesa, i genitori, una donna, dei figli, ma non è una favola dove tutti vivranno felici e contenti. La separazione  pesa su chi è stato portato via, ma anche su chi è rimasto. L’attesa crea aspettative, paura, distacco, ansia, senso di rivalsa, rancore. Anche l’amore è difficile.

C’è ancora, a parte, l’altra società, i compagni di ”prima”, loro non giudicano, non rifiutano, per loro il tempo si è fermato. Ciascuno è quello che era. Loro chiamano, lusingano, promettono, sono un’alternativa alla solitudine e offrono un buco al riparo dalla luce e dallo spazio troppo grande.

Il Gruppo è rimasto “dentro” e continua a riunirsi due volte alla settimana: una consuetudine, un impegno ad essere e a partecipare, un confronto diretto, nessuna distinzione, liberi tutti, tutti protagonisti, detenuti, studenti e professori. Chi ha “riacquistato” la libertà è uscito dal cerchio magico. Non c’è l’appuntamento certo, la possibilità di continuare un discorso interrotto, di contribuire, senza rinvii, al progetto comune. In carcere, l’angoscia della notte trovava conforto nella consapevolezza che di lì a qualche giorno essa avrebbe potuto essere  condivisa.

Fuori, la comunicazione con i membri esterni del Gruppo continua, ma c’è imbarazzo, la conversazione è faticosa, l’ex detenuto si crede osservato. Fuori, si percepiscono i ruoli, le diversità. Le occupazioni e gli orari che segnano la vita degli altri limitano le occasioni di incontro, vedersi per una pizza o una passeggiata nel parco, per la partecipazione ad un convegno o ad un concerto non bastano a colmare la perdita. La paura dell’abbandono cresce, la tensione cede e il Gruppo diventa un rimpianto, un motivo di rancore o un rimorso da cui fuggire.

La libertà, se non adeguatamente protetta, può essere causa di un arresto irreversibile del percorso intrapreso verso la responsabilizzazione e il recupero di un rapporto equilibrato e armonioso con se stessi e con la società. La conclusione di questo percorso non deve essere determinata da una porta che si chiude sui problemi del carcere, ma non si apre al diritto di essere uguali.

Anche a chi esce dal carcere, non va negata la sicurezza di un appuntamento, di un luogo cui convergere, della possibilità di ritrovarsi intorno a un tavolo e allentare l’affanno elaborando le suggestioni di un romanzo, di un dipinto, di una canzone; di confrontarsi con domande  che non hanno risposte certe, ma che tutti dovrebbero conoscere: per non smarrire il senso di appartenenza, per non disperdere il valore di un progetto, per affrontare la fatica di essere liberi.