Fallimento

 

Enzo Martino

21-07-2005  

Guardo i miei figli attraverso il vetro della saletta del colloquio, per un verso sono felice, ma sento che qualcosa mi scombina dentro.

Il turbamento è vedere quanto sono cresciuti. Immagino quante sofferenze hanno passato senza di me. Quanti desideri repressi per colpa mia. Sento e capisco di aver fallito in tutto, e non desidero elemosinare degli alibi, mi disprezzo senza pietà e senza chiedere comprensione. Nessuno si può arrogare il diritto di togliere la felicità di nessuno, e io non sono nessuno, sono un genitore che ha fallito, niente più.

Le belle parole che mi sono detto servono a poco, perché sono sempre io che guardo negli occhi i miei figli. Nei loro occhi vedo quanto dolore si portano dentro, e questo non posso fingere che non sia una realtà. Se la realtà è questa, intendo prenderne atto e cercare di fare meglio.

Quello che è giusto è non concedermi inutili alibi; ciò che conta è riuscire a capire cosa devo fare per ricominciare ad esercitare il mio ruolo di genitore, e credo che scrivere le mie perplessità e preoccupazioni sia un inizio. Credo sia poco scrivere soltanto, ma in questo momento queste sono le possibilità che ho. Essere cosciente di quanti valori possiedo e non poterli applicare nella vita quotidiana mi distrugge interiormente e rimane represso nella mia mente.

Intanto il tempo scorre e i miei figli perdono un pezzo di vita con loro padre. Vita che non potranno più avere perché io ho fallito e loro ne pagano tutti i giorni le conseguenze. Ho la preoccupazione che con la mia lunga assenza li ho privati della possibilità di vivere insieme dei sentimenti reali, e che per questo potrebbero un giorno commettere qualche sciocchezza. Spero che questo non succeda mai, altrimenti il mio fallimento diverrebbe anche il loro, senza dimenticare che solo io sono il colpevole di tutto ciò.

Il troppo tempo trascorso senza contatti credo inaridisca i sentimenti, come l’albero che senza acqua si secca, diventando un pezzo di legno senza vita.