Un'ombra comune sul bancone

Barbara Murrighili

09-06-2003  

Immagino due bambini alla scuola elementare; uno dei due è bruttino, con le scarpe consumate e un po' emarginato dal resto dei compagni; l'altro è un bel bambino ben integrato e con un papà che ogni giorno lo va a prendere a scuola. Un giorno il bambino bruttino e di costituzione robusta vuole la merenda dell'altro e lo minaccia con un pugno.

Forse quando non riusciamo a far sentire la nostra voce e ci sentiamo in qualche modo deprivati del nostro ruolo sociale, quando nel confronto con gli altri ci sentiamo continuamente perdenti, può sembrarci che resti solo una cosa da fare: riappropriarsi di tutto ciò con violenza e un atto di forza.

Credo che sia tipico del carnefice un disagio antico, quel disagio che forse scaturisce proprio dal confronto con realtà che sembrano forti e potenti, ricche e integrate, o “ingiustamente più fortunate di me” potrebbe dire il carnefice.

La vittima derubata è resa tale nel momento in cui il carnefice tenta di riappropriarsi di un qualcosa di cui a sua volta si è sentito derubato, magari in un tempo di cui non ricorda. Immagino il carnefice mosso da questo disagio, da un senso di inferiorità, da un vuoto da riempire, da una mancanza che ai suoi occhi non patisce chi diventerà la sua vittima.

Sarebbe bello poter fermare il tempo nel momento in cui fra vittima e carnefice lo scambio non è ancora avvenuto, in modo da averli nella stessa posizione; ed è proprio in quel momento che mi pare di vedere una prossimità; il rapinatore entra nel negozio, intima al commerciante di dargli la merce, l’altro la poggia sul bancone e, se in quell’istante il tempo si fermasse, forse vedremmo due persone simili, entrambe deprivate di un qualcosa, entrambe a osservare un'ombra sul bancone, entrambe desiderose di riappropriarsene.