Delitti familiari, uno su 10 per follia
Domenica 24 Febbraio 2002

Gli psicopatologi: nessuna illusione,
spesso la malattia di mente non c’entra

di GATY SEPE

Novi Ligure, ma anche Cogne. E poi gli infanticidi, i «figlicidi», le stragi in famiglia. Delitti efferati, raccapriccianti e sempre più spesso incomprensibili che causano allarme sociale e colpiscono l’immaginario e la sensibilità collettive. Chi commette questi atti è un paziente psichiatrico da curare? O invece il crimine violento è un atto lucido e consapevole e come tale va perseguito legalmente come hanno stabilito periti dell’accusa e pm per Erika e Omar? Stabilire un confine tra normalità e follia e quindi tra punizione e recupero è un problema di non poco conto di cui in questi giorni si discute anche al Congresso della Società Italiana di Psicopatologia in corso a Roma.


«Delitti come quello di Novi Ligure o come quello, ancora irrisolto, di Cogne, sono delitti inspiegabili. Il crimine violento - dice il professor Paolo Pancheri, psichiatra dell’Università di Roma e presidente della Società italiana di psicopatologia - è accettato quando è in qualche modo prevedibile, come la rapina, il delitto di mafia; diventa incomprensibile e per questo inquietante quando tocca la normalità apparente».

«Trovare la ”follia” dietro un delitto efferato - spiega il professor Giancarlo Nivoli, psichiatra all’università di Sassari e presidente della Società Italiana di Psicopatologia forense - è il grande desiderio di tutti. Stabilire che chi ha ucciso così orrendamente è un ”diverso”, infatti, è una sorta di psicoterapia collettiva che ci mette tutti più tranquilli sulla nostra normalità. Purtroppo, però, non è così: soltanto il 5-10% dei delitti, infatti, viene commesso da persone malate di mente. Le madri ”figlicide”, per esempio, uccidono per tanti motivi diversi e, spesso, la malattia non c’entra niente».


Sul caso Novi Ligure, gli psichiatri si son dati battaglia a suon di perizie: per la difesa i due ragazzi erano malati e quindi da curare, per l’accusa, invece, sono stati sempre prefettamente lucidi, prima, durante e dopo il delitto. Non ci sono criteri comuni che possono guidare il lavoro dei periti e, quindi, dei magistrati? «È proprio quello cui vorremmo arrivare nell’incontro che terremo insieme a polizia e magistrati. Il primo passo è stabilire l’esistenza di una malattia o di un disturbo psichiatrico - spiega Pancheri - quello successivo avere la certezza che tale patologia, al momento del delitto, fosse tale da compromettere la consapevolezza di chi lo ha commesso». «Non basta essere matti per non rispondere di un delitto - chiarisce Nivoli - la pazzia deve essere messa in relazione con l’atto che si compie. Non si può ”psichiatrizzare” tutto, perché il rischio è la deresponsabilizzazione».


Eppure, la psichiatria è sempre più presente anche nelle indagini. Uno specialista ha tracciato l’identikit psicologico degli assassini di Novi Ligure e adesso anche di chi potrebbe avere ucciso Samuele Lorenzi. «Più persone si occupano di un delitto, meglio è. È un coinvolgimento positivo - spiega Nivoli - prima lo psichiatra interveniva quando il colpevole era stato trovato, per aiutare a comprendere le ragioni del suo gesto, adesso, invece, può dare un aiuto alle indagini tracciando l’identikit del colpevole a partire dalle carattistiche del delitto». «Nel delitto di Cogne mi sembra che i magistrati abbiano più di un sospetto che ci sia un problema di follia. Chiunque l’abbia commesso è una persona che stava male, magari anche senza saperlo, e che in quel momento non era affatto consapevole del suo gesto come potrebbe esserlo tuttora».