28 Marzo 2002

Il lungo viaggio della guarigione
raccontato da un protagonista

Il libro di Coleman «Guarire dal male mentale»

di Anna Poma

Ci sono libri che maltrattano le nostre certezze. Libri che talvolta passano inosservati, soltanto perché è più facile smettere di leggerli che accettare di incontrare, attraverso essi, la fragile consistenza di ciò che fin lì davamo per scontato Guarire dal male mentale (manifestolibri) di Rod Coleman appartiene a questo genere di letture. Due le ragioni:

la prima riguarda il tema di cui tratta, la guarigione dalla schizofrenia, un tema scottante e spesso eluso nella ricognizione critica che la psichiatria fa di se stessa e dei propri dispositivi di intervento nonostante le conquiste della farmacoterapia e la rivoluzionaria trasformazione delle pratiche psichiatriche che è andata imponendosi, a partire dal nostro paese, negli ultimi trent'anni; la seconda concerne la natura in parte autobiografica in parte teorica del testo.

Il suo autore, infatti, oggi formatore di operatori di salute mentale, conduttore di gruppi di auto-mutuo aiuto, autore di alcune importanti pubblicazioni sulla deistituzionalizzazione della sofferenza mentale, per oltre un decennio è stato preda di quel male di vivere che la psichiatria chiama «schizofrenia» e che spesso, nei paesi in cui ancora esistono, costringe all'internamento in ospedale psichiatrico. Durante quel periodo, ricorda Coleman, «subii circa quaranta sedute di elettroshock, provai quasi tutti i neurolettici sul mercato e mi fu negato qualsiasi intervento psicologico, in numerose occasioni. Malgrado questo regime di trattamento, il "più vigoroso", le voci che sentivo rimanevano virulente come sempre, i farmaci non mi davano alcun sollievo e alla fine la quantità che ne prendevo era così elevata che divenni poco più di uno zombie... dovevano passare dieci anni prima che trovassi una via d'uscita dal sistema».

Una via d'uscita che è diventata anche la sua possibilità di guarigione, nonostante lo scetticismo che suscita l'anomalo epilogo della sua carriera di malato di mente. Coleman oggi è un testimone straordinario e per nulla indulgente di ciò che accade quando si viene immessi nel circuito psichiatrico, delle inerzie, di questo sistema, della sua cecità e del suo accanimento nel precludere la guarigione, anziché renderla possibile. Almeno nel senso del termine inglese «recovery» che il corrispettivo italiano «guarigione» fatica a tradurre. Recovery significa «riaversi», «riprendersi», ripristinare una condizione di appartenenza a se stessi che contraddice drasticamente un semplice farsi «paziente», attendendo passivamente che qualcuno, dall'esterno, dispensi per noi la salute.

Un concetto alieno in psichiatria, secondo Coleman. Troppo spesso ancora, nel campo delle malattie mentali, la parola guarigione equivale infatti al mantenimento della persona in una «condizione stabilizzata», congelamento dell'aggressività, trattamento farmacologico a tempo indeterminato, permanenza irriducibile nel ruolo di paziente psichiatrico... La guarigione come processo che emancipi progressivamente l'individuo dalla dipendenza dai farmaci e da quella, subdola e capillare quanto la prima, dal sistema di sapere e di potere che la psichiatria incarna, rimane per molti psichiatri del tutto inconcepibile.

Ben lontani dal leggere questo esito come prova di un «fallimento della psichiatria», commenta Coleman, i professionisti della salute mentale sono più propensi a ravvisarvi un limite intrinseco alla patologia di cui si occupano. Ovvero: vi sarebbe una biologia del male mentale, responsabile della sua resistenza al trattamento, della sua vocazione alla cronicità, analogamente a quanto accade per talune patologie fisiche irreversibili che, tuttalpiù, possono essere tenute a bada chimicamente perché non si riacutizzino e non degenerino drasticamente. Poco importa se vere e proprie cause organiche della sofferenza mentale appaiano a tutt'oggi irreperibili, e se un pensiero naturalistico in psichiatria che intenda l'esperienza psicotica come «unità naturale di malattia» non riesca minimamente a dar conto di come «anche i sintomi più radicali e significativi come quelli allucinatori e deliranti, siano così modificabili e camaleonticamente trasformabili, nei contesti ambientali di cui i pazienti vivono e agiscono», come ricorda Eugenio Borgna. Poco importa se gli stessi farmaci, in un trattamento a lungo termine, producano tossicità, dipendenza, spersonalizzazione passando dall'essere strumenti di guarigione all'essere qualcosa da cui si deve guarire. A tutt'oggi anche a fronte di ragguardevoli trasformazioni sintomatiche - quando mutano la qualità del contesto e degli interventi - la riduzione e sospensione del trattamento farmacologico per molti medici rappresentano una strada troppo rischiosa, anche se talvolta soltanto alla luce di esperimenti frettolosi in cui prevale l'equivoco tra crisi di astinenza da farmaci e ricaduta nella patologia acuta.

Il racconto di Coleman, sulla propria battaglia per disassuefarsi dalla dipendenza farmacologica, non potrebbe essere più eloquente a questo proposito. In un dedalo di percorsi sbarrati, di pratiche organizzate intorno alla paura e al bisogno di controllo sociale, la psichiatria, dice Coleman, continua a produrre istituzione, anche fuori dal manicomio. Perché l'istituzione «non è mai stata un edificio, l'istituzione è il potere della psichiatria», come ben videro Basaglia e Foucault. Su questa scena non si dà guarigione, ameno che guarigione e cronicità non si attribuiscano ad aree di significato tanto prossime da confondersi a vicenda. La guarigione comincia dove l'istituzione può concedersi di cancellarsi, cancellando presunzioni e preclusioni, diffondendo informazione, ricucendo, insieme agli utenti, il senso e la realtà del dolore, il senso e la realtà della guarigione.

La guarigione è un viaggio, dice Coleman. Un viaggio che non può essere intrapreso da soli né, tantomeno, con qualcuno che preordini il percorso, tracciando mappe e passaggi obbligati. La guarigione è un costrutto assolutamente personale che però implica la presenza degli altri, la loro testimonianza, la loro comprensione, la loro consuetudine ed una analoga esperienza del dolore. Per l'autore, la recovery comincia con la sua partecipazione a un gruppo di «uditori di voci». Un gruppo di persone che imparano ad aprire la scena del proprio mondo interno senza rischiare di vedersela tacciata di irrealtà, che possono metterla in comune rompendo il muro di una solitudine che saccheggia l'esperienza svuotandola fino ad annientarla. Un gruppo in cui il ruolo dell'operatore e quello dell'utente si cancellano per ridefinirsi a vicenda: non più dispensatore di salute l'uno, paziente l'altro, ma compagni di strada in un processo che restituisce il mondo e la comunità alla storia delle persone, e questa storia a quel mondo. Ridistribuendo tra di essi responsabilità e opportunità, senza per questo negare al dolore il diritto di cittadinanza che gli è proprio, nelle nostre vite e nel nostro mondo.